Marzo 2021 è stato un mese come tanti altri nella decennale storia dei videogiochi.
Qualcosa è uscito, qualcosa è stato rimandato, qualcosa è stato cancellato.
Seguendo il trend degli ultimi anni vediamo sempre più videogiochi del passato venire riportati ai giorni nostri, dotati di un comparto grafico più o meno interessante o di modifiche ludiche atte all’attualizzazione del prodotto; niente che in sostanza siamo poco abituati a vedere.
Quello che invece ha generato preoccupazione in me che scrivo, perché sì, per una volta mi concedo il lusso di un articolo un po’ più personale degli altri, è osservare eventi che sottolineano quanto il nostro amato medium, quello videoludico, sia in realtà fragile.
La fragilità di cui parliamo oggi non è quella economica, anzi, da quel punto di vista generalmente parlando i videogiochi sono più grandi e remunerativi che mai; oggi parliamo di quella che potremmo definire come fragilità materiale.
Nonostante il videogioco sia il più tecnologicamente avanzato dei medium comunicativi odierni, esso risulta ancora incastrato in una lunga serie di dinamiche che ne ostacolano il processo di conservazione.
La prima delle dinamiche che possono venire in mente è onnipresente al giorno d’oggi: la smaterializzazione dei videogiochi in quanto oggetti.
Se sono vent’anni che non fate più capolino nel mondo dei videogiochi e avete deciso di farlo (misteriosamente) con questo articolo dobbiamo partire da qualche aggiornamento sullo stato della realtà.
Durante il corso dell’anno fiscale 2020 (quindi da aprile 2019 ad aprile 2020) più della metà dei videogiochi venduti da diversi publisher sono state copie digitali.
Questo dato, sostanzialmente, evidenzia come anche il più reticente all’evoluzione degli ambienti videoludici si stia spostando verso la quasi completa digitalizzazione dell’esperienza.
Mentre il mondo del mobile gaming (che rappresenta il grosso degli introiti annuali dell’industria videoludica) è completamente legato al gioco in digitale, il mondo dei videogiochi hardcore (termine sommario, concedetemelo per buono) è ancora ancorato a un forte dualismo tra fisico e digitale.
Questo almeno vale ancora per le console.
Il mercato dei videogiochi per personal computer, complici anche determinate caratteristiche tecnologiche, ha visto la distribuzione videoludica divenire digitale con grande anticipo, partendo dall’avvento di Steam per muoversi poi nel presente attraverso il frazionamento della proposta in diversi launcher posseduti da vari grandi publisher: Valve, Epic Games, Cd Projekt Red, Origin, Uplay, Battle.net e così via.
Le console, dicevamo, nel 2013 ancora vivevano di videogiochi fisici venduti nei negozi o acquistati online.
Sempre Daniel Ahmad (che di lavoro fa l’analista, quindi bonariamente finiamo per considerarlo come fonte affidabile) ci ricorda che nel corso di una singola generazione di console dal 2013 al 2020 siamo passati dal 5/10% al 50+%.
Il fisico, ora più che mai, sembra destinato alla morte, almeno per quanto riguarda le edizioni standard dei videogiochi.
Le console stesse sembrano volerlo confermare, con versioni completamente destinate al mercato digitale e altre invece dotate di lettore per i dischi fisici.
Alcune delle iniziative più tecnologicamente avanzate del mercato, come Stadia, GeForce NOW, xCloud, PsNow sono completamente prive di forma fisica, essendo nient’altro che console videoludiche distribuite lungo la rete attraverso delle infrastrutture in cloud. Non ci sono più oggetti da possedere fisicamente sulla scrivania, soltanto abbonamenti da pagare.
Tutti questi elementi non fanno altro che rinforzare un idea specifica: presto la conservazione dei videogiochi non passerà più dal supporto fisico per come lo conosciamo ora ma sarà completamente in mano a chi, i videogiochi li possiede.
Perché si, noi non possediamo i videogiochi.
Ci siamo lasciati due righe sopra con una domanda specifica:
possediamo veramente i videogiochi che compriamo fisicamente?
Domanda scema direte voi; risposta un po’ meno scema diciamo noi invece.
A quanto pare, secondo un vecchio articolo fatto da Rock Paper & Shotgun l’intero mondo del software non si basa sul concetto di software posseduto ma sul concetto di licenza d’utilizzo.
Se io acquisto (per ipotesi) una copia fisica di Half Life 1 sto acquistando un supporto di memoria che contiene una licenza d’utilizzo personale per il primo gioco di Gabe Newell, né più né meno.
Dato il possesso di un supporto di memoria e di un dispositivo in grado di leggerlo, finché il supporto non esala il suo ultimo magnetico respiro, avrò modo di sfruttare la mia licenza d’utilizzo.
Che succede nel mondo videoludico odierno, dove il videogioco è collegato a sistemi di protezione come Denuvo o Steam?
Che se per sbaglio sto sulle palle a chi eroga la licenza (o più semplicemente tale servizio smette, per una qualche motivazione, di funzionare/vengo bannato perché sono un co**ione) io non ho nulla tra le mani.
E si, questo è un discorso trito e ritrito che abbiamo già sentito in tutte le discussioni riguardanti l’annosa sfida tra digitale e fisico e su quale sia il formato migliore.
Per questo motivo è importanti iniziare a porsi domande sulla natura della conservazione nel futuro che ci aspetta: come conserveremo i videogiochi quando, alla fine della fiera, non li possediamo nemmeno?
C’è il plausibile rischio che, come è già accaduto diverse volte durante il corso degli ultimi dieci anni, non lo faremo e finiremo per perdere una volta per tutte diversi titoli.
Se i giochi sono usciti soltanto in digitale e per un qualche motivo vengono rimossi dal commercio, essi non vengono conservati. Questo è stato per molto tempo il caso di Scott Pilgrim Vs The World, è stato per un po’ meno tempo il caso di Detention ed è tutt’ora il caso dell’arcinoto P.T, il gioco horror di Hideo Kojima perso in un limbo eterno fatto di rabbia repressa tra il director e Konami.
P.T (che ricordiamo, sta per Playable Teaser) è un videogioco non più disponibile sugli store online che è unicamente giocabile se si è scaricato il gioco quando questo esisteva nei negozi online.
Questo ha generato due fenomeni, uno un po’ triste e l’altro particolarmente interessante.
Il primo vede la presenza, su siti di aste come Ebay, di grumi di console contenenti il titolo per prezzi che sfiorano l’assurdo.
Il secondo fenomeno è quello della riproduzione amatoriale: Punity, ad esempio, è stato per qualche tempo una versione particolarmente simile del titolo di Hideo Kojima ricostruita fedelmente (in maniera del tutto amatoriale) dallo sviluppatore Farhan Quresh utilizzando come engine il noto Unity. Il gioco non è al momento disponibile ma è possibile, qui sopra, osservarne un gameplay.
La cosa più vicina alla conservazione effettiva di un videogioco è stata la sua riproduzione da parte di qualcuno che non è l’azienda produttrice. Questa cosa potrebbe sembrare l’eccezione ma no, vi assicuriamo che è assolutamente la norma.
Questo pezzo è nato in risposta ad un quintetto di cose accadute recentemente: un pezzo di Kotaku sull’argomento, Sony che spegnerà in estate gli store di PS3, PSP e PSVITA, la storia delle PS4 che muoiono per sempre se si scarica la batteria interna, una discussione fatta con degli amici e la notizia che la collection di Ninja Gaiden non sarà completa perché di Ninja Gaiden Black e Ninja Gaiden 2 la software house ha perso i codici sorgente.
Quest’ultimo è solo l’ennesimo di una miriade di casi, dal ritardo per una versione rifatta meglio di Final Fantasy 8 al disastro totale della Silent Hill HD Collection, uscita praticamente monca dal punto di vista tecnico a causa della scarsa qualità del codice sorgente a disposizione di Konami.
Ora, parliamoci chiaro: non sono moltissimi i videogiochi con i codici sorgenti pubblici.
Wikipedia ha un paio di liste utili a tal proposito: una con i titoli i cui codici sono stati rilasciati ufficialmente da publisher e programmatori (e qui troviamo o titoli odierni indipendenti o videogiochi vecchi di quarant’anni che sono stati concepiti esattamente in quel modo) ed una con i titoli i cui codici sorgente sono diventati pubblici in maniera illegale, tra attacchi informatici (tipo Cyberpunk 2077) e ritrovamenti misteriosi.
Non c’è bisogno di essere un informatico di alto livello per capire che uno dei modi migliori per preservare un videogioco è quello di rilasciare pubblicamente il suo codice sorgente.
Questo, come sottolineato dall’articolo di Kotaku, la distribuzione del codice sorgente è un processo che porta il videogioco a vivere sostenuto dalle community appassionate e a raggiungere con rinnovata potenza i giorni nostri, permettendo (virtualmente) alle aziende di capitalizzare in modi anche imprevisti, attraverso merchandise o altro.
Ci sono videogiochi che sopravvivono a quindici anni dalla loro release grazie al lavoro delle community che moddano e aggiornano il tutto con contenuti e patch di bilanciamento: Super Smash Bros Melee e Brawl, volendo fare due esempi, sono sostenuti da Project Slippi e Project M ed hanno ancora oggi due scene competitive piuttosto floride.
Il punto è che, nella stragrande maggioranza dei casi, questi progetti sono illegali a causa della struttura delle licenze d’utilizzo dei titoli in questione. Nintendo, nello specifico, è un’assoluta campionessa di cease and desist nel caso di videogiochi che contengono, anche senza scopo di lucro, qualcosa che appartiene alla loro proprietà intellettuale: emblematici sono casi come AM2R, Super Mario 64 PC Porting o Pokémon Uranium.
Il fatto forse più comicamente divertente è che Nintendo, oltre a odiare in maniera particolare questo genere di operazioni è anche la stessa compagnia che fa chiudere i siti di pirateria, gli stessi che lei stessa usa per scaricare una ROM di Super Mario Bros che poi venderà all’interno della virtual console di Wii.
E no, non siamo qui per incentivare la pirateria con questo articolo ma per chiedere esattamente l’opposto.
Come abbiamo visto, finora, al giorno d’oggi la conservazione del videogioco è passata più nelle mani dell’appassionato che del publisher/software house.
La conservazione del videogioco, in una delle sue forme, è data dall’emulazione.
Il processo di emulazione, spiegato con un sacco di dettagli da Andrea Babich (di cui vi consigliamo lo splendido canale Twitch Kenobisboch) all’interno di questo libro, prevede l’esistenza di un emulatore (un programma informatico) e di una rom da emulare (ovvero una copia della cartuccia/cd-rom/supporto di memoria).
Come funziona l’emulazione? Rubiamo direttamente le parole a Babich
L’emulazione software, o semplicemente emulazione, permette infatti di utilizzare su un sistema informatico più sofisticato di quello “originario”, un videogame, classico o meno, originariamente concepito per funzionare su un hardware differente
Per una cultura dei videogames. Teorie e prassi del videogiocare (2004)
Ora il discorso è molto complicato se volessimo approfondirlo dal punto di vista dell’archeologia culturale ma bonariamente la riassumiamo in questo modo:
L’emulazione non è una soluzione perfetta (come ampiamente spiegato da Gabriele Raimondi in questa tesi di laurea).
Per il momento, è una strada più percorribile di altre perché permette di nullificare diversi problemi di carattere logistico.
Senza voler andare a disturbare tutti i giochi impreservabili perché non disponibili (tra giochi non usciti e giochi scomparsi per strada) l’emulazione permette la distribuzione di quella che, all’atto pratico, è la cultura del videogioco.
Attraverso l’emulazione i videogiocatori possono esperire il passato del mezzo di comunicazione, direttamente dal computer/smartphone/console di casa. Se quest’ultima venisse legalizzata e/o incentivata ci troveremmo davanti ad un nuovo modo di esperire la cultura videoludica, uno del tutto legale.
Questa idea è però al giorno d’oggi ancora ipotetica per una motivazione ben specifica: ci sono garbugli indefinibili di licenze che intrappolano i videogiochi nel limbo dell’inutilizzo (tipo No One Lives Forever), licenze che ostacolano un processo di popolarizzazione che ha il concreto rischio di portare ai publisher più vantaggi che svantaggi.
Perché parliamo di più vantaggi che svantaggi?
Perché i remaster/porting hd vengono realizzati in base a proiezioni sull’appeal di un brand in un dato momento; attraverso l’emulazione del gioco chi detiene i diritti avrebbe modo di poter andare a colpo sicuro su cosa rifare o potenziare, aggiornando effettivamente un prodotto di cui può calcolare con maggiore precisione il potenziale commerciale.
L’emulazione potrebbe anche portare vecchi brand a nuovi giocatori, allargando il potenziale numero di utenti paganti per una versione aggiornata del gioco. Le rom potrebbero venir vendute per cifre irrisorie (fattore importante, ci teniamo a sottolinearlo) dalle varie software house o da chi detiene i diritti, in modo da trasformare brand che generano zero profitto in prodotti remunerativi. Delle rom legali permetterebbero ai vari publisher di non doversi nemmeno preoccupare di conservare i videogiochi perché, spoiler, gli appassionati di videogiochi già lo fanno al posto.
Per questo motivo, dopo aver letto le quattro notizie di cui sopra, mi è venuto spontaneo pensare a cosa potrebbe succedere in un mondo con dei publisher illuminati.
La stampa, in primis, deve spingere un po’ più l’acceleratore sul sensibilizzare il suo pubblico su tale argomento, d’importanza sempre maggiore nel corso dei prossimi anni.
Ora passiamo all’ultimo episodio di questo pippone indigeribile: i videogiochi non sono fatti con materiali rinnovabili, né sono fatti per durare per sempre. Per una questione prettamente ecologica, è impossibile pensare che continueremo a produrre fisicamente videgiochi per ancora molti anni, un po’ per le tendenze di mercato, un po’ perché è sempre più palese che la terra si stia stufando di noi esseri umani come specie inquinante.
Già è una mezza benedizione che il trend delle console classiche sia finito.
Nes mini, Snes mini, Ps Classic, Sega Mega Drive Mini, Neo Geo Mini, Capcom Home Arcade e via dicendo sono dispositivi magari anche carini alla vista ma che non fanno altro che aumentare il nostro peso sull’ecosistema del pianeta terra, visto che tra produzione, distribuzione e realizzazione si sarebbe potuto fare di meglio.
Queste console non sono altro che oggetti destinati ad imitare dispositivi vecchi di trent’anni, disponibili sul mercato dell’usato, che si sarebbero potuti semplicemente risistemare per un rinnovato funzionamento, magari consigliando dei prodotti già esistenti per vendere degli adattatori per i nuovi schermi (per chiunque non abbia modo di mettere mano ad un CRT).
Il produttore della console, sempre in virtù dell’emulazione legale avrebbe semplicemente potuto vendere una cartuccia compatibile con tale standard destinata a inglobare una scheda SD per le rom, esattamente come fanno moltissime aziende che al giorno d’oggi si muovono nelle infinite zone grigie che esistono sull’argomento.
Conservare i videogiochi, anche in maniera digitale, ci permetterà anche di rendere la vita di chi verrà dopo di noi leggermente meno peggiore di come già oggi è.
Per (anche) questo motivo bisogna iniziare a chiedere a chi i diritti li detiene di trovare una soluzione, per quello che è assolutamente un first world problem ma che sembra decisamente più semplice da risolvere rispetto ai grandi mali del mondo.
Ora il discorso potrebbe continuare ancora per almeno duemila parole visto che abbiamo soltanto scalfito la superficie di questo enorme discorso.
Ci riserviamo il lusso di continuare a sensibilizzare tutti quanti nel prossimo episodio.
This post was published on 28 Marzo 2021 20:30
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