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Speciali

Vediamo di sfatare l’assurda pretesa che un recensore debba conoscere tutti i videogiochi esistenti

Qualche mese fa, ho scritto un articolo che ha fatto molto discutere in cui esponevo una mia teoria: guardare i gameplay non dà il diritto di giudicare i videogiochi. Questo è vero se si è dei gamer senza alcun tipo di vincolo contrattuale con chicchessia, e lo è a maggior ragione se si è dei recensori.

A questo concetto, però, se ne lega un altro che merita qualche parola spesa. Sui social, ho avuto occasione di leggere commenti di persone – tra le quali forse si nascondono anche quelli che danno voti ai giochi guardando solo una live streaming – che pretendono l’onniscienza videoludica del recensore. Insomma, la botte piena e la moglie ubriaca. Ma è davvero così? Chi scrive per una rivista, e viene pagato, deve conoscere, e aver giocato, tutti i videogiochi usciti nella storia?

La risposta è no e adesso vediamo anche il perché. I motivi possono essere riassunti in quattro comodi paragrafi: questioni anagrafiche, tempistiche, situazione economica e gusti personali.

L’onnisciente recensore che fa prendere appunti al suo assistente per poter mettere giù una critica inoppugnabile all’ultimo capitolo di God of War.

Questioni anagrafiche

Il recensore non è un’entità che trascende lo spazio e il tempo, è un essere umano che nasce, cresce, decide incoscientemente di diventare un giornalista videoludico e poi, inevitabilmente, muore. Come in tutti i campi, chi ha più esperienza sa più cose di chi ne ha di meno e quest’ultimo può imparare molto dal primo, tuttavia non può assumere il controllo del cervello del proprio mentore come un cordyceps; inoltre, anche chi può vantare molta esperienza, non è detto che abbia l’età dei datteri.

Se il recensore ha 20 anni, non si può pretendere che debba conoscere i giochi usciti sull’Atari 7800. Certo, può istruirsi, può informarsi grazie a quel meraviglioso strumento che è Internet, ma non è mica così semplice. Finché parliamo di PS1, PS2, Nintendo 64, NES, Mega Drive, la cosa risulta ancora fattibile, anche molto lunga, ma comunque fattibile, ma recuperare titoli per Colecovision e Magnavox Odyssey mi sembra un’operazione ardua, e parliamoci chiaro, inutile. Se uno ci riesce, meglio, chapeau, ma non è tenuto a farlo.

Specifico, se un recensore ha una grossa lacuna rappresentata da un gioco o una serie e questa può essere riempita facilmente, allora DEVE farlo il prima possibile, per propria cultura personale e in modo da avere maggior autorevolezza quando si renderà necessario parlare di quel/la gioco/serie o di titoli simili. Tuttavia, egli non è costretto a fare i salti mortali per riuscire a inserire nel proprio bagaglio videoludico un titolo, seppur importante, davvero difficile da reperire in modi legali.

Io, ad esempio, non avevo mai giocato, fino a qualche mese fa, alla Halo Saga, ora invece, grazie all’acquisto di una Xbox Series S e al Gamepass, ho recuperato tutti i giochi che la compongono. Non mi posso ritenere un esperto, ma da quel momento in poi ho potuto parlarne con cognizione di causa.

Leggi anche: Videogame, giocatori over 30 e difficoltà: quando il tempo non basta

Tempistiche

Il recensore non vive su un pianeta in cui un giorno dura tre anni terrestri. Giocare a tutto ciò che esce, anche in un singolo anno, è improponibile per molti, perché il lavoro stesso ti toglie tempo ed energie (il lavoro di giornalista videoludico non è giocare e basta, anzi, è solo la punta dell’iceberg), gli articoli non si scrivono da soli, le riunioni non si tengono con un chip impiantato nel cervello, la famiglia non accetterebbe un rifiuto alla richiesta di uscire dalla tua stanza dopo due settimane che non ti fai sentire, il tempo libero, che in tempi di lockdown non manca, può essere trascorso anche facendo altre attività.

Se poi il recensore non ha famiglia, non ha fidanzato/a, se ne sbatte di leggere un libro, non intende perdere tempo prezioso a buttare la spazzatura, non significa che le 24 ore si moltiplichino, rimangono sempre quelle. Anche volendo giocare tutto, negandosi il sonno, non ci si riuscirebbe perché c’è troppa roba, anche quando si pensa che le uscite siano risicate. I giocatori, le testate stesse, si concentrano sui titoli grossi credendo, dunque, che non ci siano giochi in un dato mese: è sbagliato. Tra indie, titoli minori e roba giapponese a caso (le visual novel, ad esempio), in un mese vengono rilasciati comunque troppi giochi per una singola persona.

Il recensore stacanovista che cerca di tenere il passo dell’industria videoludica per non essere tacciato di incompetenza.

Situazione economica

Il recensore non ha diritto a una carta di credito illimitata. I videogiochi costano, il recensore non paga quelli che recensisce, i quali infatti vengono inviati gratis alle redazioni tramite key da riscattare. Per tutto il resto, chi scrive di videogiochi deve sborsare i soldi.

Certo, c’è il Gamepass, c’è il Now, c’è Stadia, ci sono i giochi gratuiti del Plus (gli abbonamenti vanno comunque pagati), ci sono spesso molte promozioni da sfruttare sia sui vari store per console sia su Steam o Epic Games, ma se la pretesa esige che il recensore debba giocare TUTTO, allora non bastano abbonamenti e sconti per evitare la bancarotta e il pasto alla Caritas.

Tra l’altro, il recensore, forse non si è ancora capito, non gode di una situazione contrattuale ben inquadrata in certi standard lavorativi che vigono in altri campi. Oggi, chi scrive di videogiochi è a tutti gli effetti un disoccupato che può dire agli altri di avere un lavoro per non fare brutta figura, perché è già tanto se riesce a ottenere un pagamento con ritenuta d’acconto.

Insomma, cerchiamo di non fare i Briatore della situazione con il portafoglio degli altri.

Un tipico giornalista videoludico

Gusti personali

Si potrebbe pensare che al recensore piaccia tutto, sia bravo in tutti i generi, adori ogni tematica, non è così. Il recensore è anche un giocatore, ha un proprio background, ha i propri interessi, ama certi generi letterari, va matto per film di un certo tipo, ne odia altri, ha i suoi hobby, e tutto questo insieme di passioni determina anche quali videogiochi gli piacciano di più.

Se a chi scrive di videogiochi non piacciono gli strategici, perché dovrebbe sorbirseli? Badate bene, non sto dicendo che non debba neanche provarci, sto dicendo che se dopo aver tentato la via della conciliazione con quel dato genere, non riesce a farselo piacere, allora è giusto che continui a non giocarci.

Un’obiezione a cui dare una spiegazione potrebbe essere: “Ma se non gli piacciono i jrpg, come fa a recensirli?“. Be’, è molto semplice, NON li recensisce! In una redazione, quando arriva la key di un videogioco, non la si affida al primo che passa, si tiene conto di molti fattori, tra i quali la familiarità del giornalista con quella serie, con quel genere, il suo “curriculum”, cioè quali recensioni ha già scritto e, quindi, se quel titolo è in linea con le sue precedenti produzioni, una sua naturale predisposizione a saper affrontare certi tipi di esperienze interattive…

Il recensore deve essere competente, non un’enciclopedia da sfogliare a proprio piacimento.

This post was published on 2 Marzo 2021 16:12

Michele Longobardi

Laureato in Lettere moderne, scopro la passione per il giornalismo quasi per caso. I videogiochi sono il mio più grande amore e così decido di coniugare le due cose. Il giornalismo videoludico diventa la mia forma finale. Per me i videogiochi sono una forma d'arte e guai a dirmi il contrario. Appassionato di tutto ciò da cui sgorga sangue: cinema horror (registi preferiti Argento e Romero), letteratura gialla e dell'orrore (autori preferiti Christie, Poe e Lovecraft) e ovviamente i videogiochi del genere (Silent Hill e Resident Evil sopra ogni cosa). Il mio videogioco preferito di sempre è Fahrenheit che ho finito un numero non precisato di volte, da lì scaturisce la mia ammirazione per tutti i lavori di David Cage. La mia "carriera" videoludica è segnata da un marchio da cui non sono mai riuscito a staccarmi: PlayStation! In circa 20 anni di gaming, ho completato più di 800 titoli.

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