25 anni fa nascevano ufficialmente i Pokémon, oggi un immaginario vastissimo che abbraccia diverse generazioni di mostriciattoli tascabili e di fan appassionati. Sono più di 800 le creature date alla luce da Game Freak, ma sono diversi milioni (se non miliardi) gli individui venuti in contatto con questo brand nel corso della sua storia.
Ci aspettiamo un 2021 carico di novità per il mondo Pokémon, tra film, gadget, iniziative e soprattutto videogiochi. Conosciamo lo sviluppo di alcuni progetti già rivelati come New Pokémon Snap, mentre nel frattempo fan e teorici già speculano sull’arrivo di ulteriori titoli non ancora annunciati, come i remake di Pokémon Diamante e Perla. Per celebrare il venticinquesimo anniversario dei mostriciattoli, The Pokémon Company ha organizzato una settimana di festeggiamenti che prenderà il via lunedì 22 febbraio 2021 e culminerà il 27, giorno esatto del compleanno.
Ma come mai questi 25 anni di Pokémon significano così tanto? Perché i mostriciattoli tascabili giapponesi sono tanto celebri? Non aspettatevi la solita digressione sulla storia dei Pokémon dal 1996 a oggi da questo articolo, quanto più un tentativo di spiegare i motivi fondamentali per cui i Pokémon continuano ancora oggi, dopo così tanto tempo, a essere sulla cresta dell’onda.
TL,DR: secondo me non c’entra solo la nostalgia.
L’universo portatile dei Pokémon
Il mondo interconnesso e globale che abbiamo creato oggi è caratterizzato da fenomeni, eventi ed icone che ne definiscono immaginari e universi simbolici in cui gruppi di persone si identificano: un genere musicale più di un altro, un filone cinematografico, un manga, un marchio, abitudini ed esperienze… tutto è rimescolato nel calderone dei fandom.
Alcuni studiosi li chiamano tribù per la loro estrema settorialità che li chiude al mondo esterno, altri li definiscono culture partecipative per enfatizzarne l’estro comunicativo e sociale; in sostanza si tratta di gruppi di persone collegati con tutto il mondo, che sviluppano propri linguaggi, proprie culture e sotto-culture e proprie identità legate al tema di appartenenza. Sono dinamiche che soprattutto noi videogiocatori e internet-nauti abbiamo vissuto spesso in prima persona o a debita distanza, in genere dinamiche chiuse e circoscritte alle sole persone che ne fanno parte.
Ci sono, poi, fenomeni che invece sono così potenti da travalicare i confini delle esperienze tribali dei fandom, in grado di diffondersi ovunque, toccare tutte le persone indipendentemente dagli interessi – anche solo marginalmente – per imporsi nell’immaginario collettivo legando tra loro perfino generazioni differenti.
È proprio il caso dei Pokémon, un fenomeno globale e consolidato, riconoscibile da tutti e accessibile a chiunque, perfino per chi non ha mai preso in mano un videogioco o non ha mai visto una puntata dell’anime.
L’uscita sul mercato di Pokémon Go nel luglio del 2016 ha confermato e ampliato ancora di più il fascino che questo universo immaginario ha sulle persone, un potere che si era già manifestato con la prima ondata della cosiddetta Pokémania a cavallo tra gli anni ’90 e i primi ’00. Ma in quel periodo, 20 anni fa, ciò avveniva in maniera più circoscritta: sembrava che i Pokémon interessassero solo ai bambini e ai ragazzi che sono cresciuti scambiando carte collezionabili e catturando mostriciattoli digitali sul Game Boy Color. Come ha fatto allora un brand per ragazzini a trasformarsi nel fenomeno culturale e multigenerazionale che è diventato oggi?
Così come le creature tascabili si evolvono cambiando forma, anche lo stesso brand Pokémon nel tempo ha saputo evolversi, a volte in maniera lenta e testarda, in altri contesti troppo velocemente e in maniera goffa, ma arrivando comunque ad essere di diritto, oggi, uno degli immaginari più popolari al mondo. Gran parte di questo traguardo, secondo me, è dovuto proprio all’aver poggiato solidissime fondamenta ai suoi esordi.
In queste fondamenta ci sono diversi pilastri che mantengono ancora in piedi il mondo dei Pokémon: la diversificazione, intesa come differenziazione tanto dei prodotti (per genere e target) quanto delle stesse creature, la portabilità e il collezionismo sono ad esempio tre colonne portanti, ma in questo articolo è di due pilastri specifici che vorrei parlare, perché secondo me tutt’oggi definiscono l’esperienza Pokémon a 360°: socialità e trans-medialità.
Socialità
L’intento originario di Satoshi Tajiri, creatore di Game Freak e dei Pokémon, era di permettere ai bambini di non perdersi nell’urbanizzazione e nella digitalizzazione del mondo, evitando esperienze che lui stesso aveva vissuto durante la sua infanzia: la cattura di insetti nelle periferie rurali di Tokyo che stavano scomparendo, e la collezione e lo scambio di quelle creaturine con gli amici.
L’idea di Tajiri dopo anni di sviluppo si tradusse in Pokémon, un videogioco portatile che permetteva l’interazione sociale tra i bambini grazie al Game Link, un sistema adottato da Nintendo per mettere in comunicazione due Game Boy. Pokémon in questo senso è stato un baluardo della socialità fisica e della comunicazione da persona a persona nel mondo dei videogiochi. Ma ciò che Nintendo aggiunse all’ambizione di Tajiri, a differenza di altri prodotti mediatici di quel periodo, era la creazione di un universo tematico fruibile fin da subito attraverso più media.
I bambini degli anni ’90 giocavano a carte nelle pause a scuola, tornavano a casa per guardare l’anime di Pokémon e poi andavano dagli amici a giocare al Game Boy. Non è che fossero connessi nel mondo dei Pokémon, vi erano completamente immersi, ne facevano proprio parte. Quel mondo non era circoscritto ai media con cui venivano in contatto, ma era costruito tutto attorno a loro.
Si scambiavano Pokémon per stringere amicizie, si lottava con la propria squadra di mostriciattoli per competizione, si raccontavano leggende metropolitane per darsi delle arie: in altre parole, si socializzava avendo i Pokémon come punto di contatto. E continua a essere così anche oggi per milioni e milioni di persone. Pokémon è stato – ed è tuttora – un universo pensato per essere fruito collettivamente, in cui immergersi prima ancora di consumarne i prodotti.
Anche oggi Pokémon preme parecchio sul tasto della socialità, checché ne dicano i tentativi goffi di implementare un comparto online per la collettività su Pokémon Spada e Scudo che sembra uscito dai primi anni 2000 (scusate per la digressione, ma quando ci vuole ci vuole). Se l’elemento sociale sembrava essersi perso con la connessione Wi-Fi, eccolo riemergere in una delle innovazioni più consistenti che The Pokémon Company ha apportato al suo franchise, ossia Pokémon GO: per la prima volta dopo gli anni ’90 milioni di persone scendevano in strada per catturare mostriciattoli con gli amici.
In tutto questo non vanno stigmatizzati i rapporti che in questi anni si sono creati online grazie alla spinta di Pokémon: uno su tutti, la community dei giocatori competitivi, cresciuta così tanto nel tempo da costringere The Pokémon Company a guardare le lotte Pokémon come eSport… un po’ a rilento, ma almeno ci prova (anche qui, piccola digressione ma dovuta).
Tuttavia ciò non va contestualizzato solo ai videogiochi o alle meccaniche di scambio e di lotta: l’anime prima di tutto è pensato per un pubblico molto giovane, il manga per un pubblico più adolescente e giovane adulto, Detective Pikachu per un pubblico più nostalgico, ecc… Ogni prodotto comunica in qualche maniera sempre i valori dei rapporti e dell’amicizia, una sorta di “missione Disneyana” che però in molti casi, come nel gioco di carte o nei videogiochi, cerca di coinvolgere in prima persona i suoi utenti.
Le prime Leghe Pokémon del Gioco di Carte Collezionabili, per esempio, prevedevano un intero percorso avventuroso, con tanto di diario dove registrare i propri successi e le proprie avventure. E quale migliore contesto per stringere nuove amicizie, se non un’avventura?
Narrazione trans-mediale
La capacità di raccontare attraverso più media prende il nome di narrazione trans-mediale (trans-media storytelling), termine coniato da uno studioso di nome Henry Jenkins (Cultura Convergente, 2006).
La trans-medialità di Pokémon non è servita a vendere quanto più in fretta possibile i propri prodotti – o meglio, non è servita solo a questo scopo a breve termine. Avendo come target i bambini, Pokémon ha costruito intorno a loro un universo portatile e raggiungibile in qualsiasi momento, attraverso più agganci possibili tra videogiochi, anime, carte e gadget, per fidelizzarli e creare rapporti duraturi: per forgiare il proprio fandom volontariamente.
Oggi, quanto appena descritto, è un processo comune – ci si azzarderebbe a dire anche standard – che ogni nuovo brand dell’intrattenimento tenta di intraprendere: gadget, merchandising, narrazioni collaterali su altri media, tutto cerca di svilupparsi su più piattaforme per avere quanti più punti di contatto col pubblico possibili, perché i fan sono consumatori attivi e abitudinari, talvolta anche produttori di narrative e di contenuti a tema (fanart, fangame, cosplay, e così via) che, a loro volta, generano altre nuove interazioni in un enorme circolo vizioso.
Quello che fece Pokémon agli occhi del mondo, all’epoca, era però pioneristico e innovativo. Nessuno prima d’ora si era mai spinto così tanto, volontariamente, verso la creazione di un universo narrativo così vasto spalmato su più punti di accesso. Certo, si può obiettare che cose come Star Wars esistessero da prima di Pokémon. Fumetti, fanfiction, gadget e oggettistica varia, tutto ciò è quasi sempre esistito nel fandom della saga spaziale presa come esempio. Tuttavia c’è una grande differenza tra l’universo narrativo di Star Wars e quello di Pokémon: la volontarietà.
I fandom vecchi come quello di Star Wars furono un effetto collaterale e non previsto: le persone organizzavano fiere a tema, si riunivano e in qualche maniera, tra fanfiction, fanart e convention, cercavano di riempire l’universo narrativo di Star Wars con le loro interazioni. Ciò fece avere l’intuizione di proseguire la narrazione ufficiale di Star Wars su più media, in più formati e in più storie, e di far partecipare anche i fan all’universo espanso. Tutto ciò ha fatto da caso di studio per i brand dell’intrattenimento degli anni ’90 che hanno iniziato a cercare di districarsi su più piattaforme e più agganci sfruttando quanto appreso dal passato. Dopo Pokémon a ruota seguì Harry Potter, e poi tanti altri. Oggi è praticamente impossibile trovare un format d’intrattenimento che non sia spalmato su più media.
Tale approccio trans-mediale, in realtà, era già noto fin dagli anni ’70 nella cultura giapponese con il nome di media mix, praticamente decenni prima che produttori ed editori occidentali comprendessero il potere del trans-media storytelling.
Nel Giappone degli anni ’80 era perfettamente normale che un anime avesse i suoi gadget, il suo manga e il suo videogioco; qualcosa è arrivato anche in occidente (leggendo questo passaggio sicuramente il nostro PR ci ricorderà un’ennesima volta di quando da bambino aveva lo zaino dei Cavalieri dello Zodiaco) ma fu Pokémon a far conoscere davvero le potenzialità del media mix al mondo, scollegandosi un po’ dalla chiusura comunicativa insita nella cultura giapponese nei confronti delle nazioni al di fuori della propria isola e diventando a tutti gli effetti un brand internazionale.
La narrazione trans-mediale di Pokémon, oggi, non è più legata solo ai prodotti, ma perfino agli annunci. Ogni trailer di presentazione di un nuovo gioco o di un nuovo contenuto non si esaurisce nei pochi minuti di video, ma spinge i fan a cercare altre informazioni sul sito ufficiale, oppure lascia indizi qua e là in modo da fomentare teorie, rumor e speculazioni. Per il lancio di Pokémon Spada e Scudo si è assistito anche al fenomeno inverso: indizi sul sito ufficiale o durante eventi digitali che dopo ore e giorni di speculazioni da parte dei fan hanno portato all’annuncio ufficiale di questa o quella nuova creatura.
Questa strategia trans-mediale non è solo marketing, o meglio, non è mirata al semplice guadagno di clienti e di soldi nell’immediato, ma è improntata alla ricerca dell’engagement, della partecipazione dei suoi utenti nell’universo portatile dei Pokémon.
Pokémon è per tutti
I due connotati descritti in questo articolo, la socialità e la trans-medialità, sono i principali motivi per cui Pokémon, secondo me, è ancora un brand capace di stare sulla cresta dell’onda e di estendersi a più generazioni di persone.
Pokémon, più oggi che ieri, è un ambiente personalizzabile al gusto del suo utente. Questo è evidente nella miriade di prodotti che vengono rilasciati ogni anno, sia gadget che media: ce ne sono davvero di tutti i tipi. Questo effetto si riscontra però anche nel suo prodotto di punta, ossia i giochi della saga principale.
Fin da Pokémon Rosso e Blu (o Verde se vogliamo proprio essere precisi e risalire alla nascita in Giappone) il mondo delle creature tascabili si è reso aperto a tante possibilità, permettendo ai suoi giocatori di fruire dell’esperienza di gioco come meglio credeva: chi voleva semplicemente completare il Pokédex, chi voleva solo una bella avventura e chi invece desiderava trovare nuove strategie di lotta.
Oggi questa dimensione “per tutti“ di Pokémon è ancora più amplificata, con i suoi pregi e, purtroppo, con i suoi limiti. Da un lato per esempio abbiamo tanti, tantissimi, diversi prodotti – anche videoludici – che si affacciano ogni anno per soddisfare questo o quel tipo di persona: Mystery Dungeon è per gli amanti dei roguelike, Café Mix per i casual degli smartphone, Unite, di prossimo arrivo, per gli amanti dei MOBA, e così via.
Dall’altro lato, invece, questo proposito di voler essere un brand “per tutti” cerca di sublimarsi nei videogiochi della saga principale, scontrandosi purtroppo anche con evidenti limiti. Da un po’ di tempo i giochi principali di Pokémon segnano record su record di vendite, confermando l’intento e il successo del brand, ma tutto questo a discapito di molti elementi di gioco: a volte la qualità della narrazione, altre volte il comparto tecnico… e in tutto ciò non aiutano dichiarazioni fuorvianti durante la campagna di marketing dell’ultimo videogioco principale, Pokémon Spada e Scudo.
Cercando di rendersi sempre più disponibile a tutti, la saga principale di Pokémon in un certo senso sta ponendo dei limiti a sé stessa, e il rischio è che diventi qualcosa né carne né pesce, un minestrone che tenta di accontentare ogni target di videogiocatore.
Il mio personalissimo augurio per i 25 anni di Pokémon è che il brand arrivi finalmente a una piena maturità e consapevolezza del suo essere adulto, il che non significa produrre unicamente prodotti adulti, ma capire di avere responsabilità su diverse generazioni e diversi tipi di persone. Specializzare sempre più diversi tipi di prodotti, e dedicare più tempo e più cura al videogioco cardine della sua saga invece di pubblicarne uno ogni anno, potrebbe essere una strada che, personalmente, vedo matura. Il tutto sempre puntando sui due pilastri della socialità e della narrazione trans-mediale. Ma io, purtroppo, sono solo un comune fan e non posso capire quali sono gli interessi dietro un’azienda così grande di cui non faccio nemmeno parte.
È che a Pokémon, che ha costituito una parte fondamentale della mia crescita come persona e come videogiocatore, non posso che augurare il meglio.