Il videogioco, nelle sue infinite declinazioni, può essere anche un potente veicolo di grandi storie con grandi morali, in grado di portare chi lo utilizza a riflettere e ragionare sui temi più disparati. Fra questi, i più gettonati sono i temi della violenza e delle sue conseguenze, in tutte le sue declinazioni (pensiamo soltanto a titoli come The Last of Us-Parte II), e con esiti a volte estremamente maturi e riflessivi.
L’altro giorno -in particolare il 27 gennaio, Giorno della Memoria della Shoah- una domanda è però saltata alla mente di chi scrive: esistono alcuni argomenti -come proprio la Shoah- tabù per il videogioco?
E, nel caso la risposta sia “no”, in che modo è possibile farlo?
E perché?
Il problema: può un videogioco trattare un tragico genocidio? E in che misura?
All’interno della storiografia accademica e dei “discorsi” politici circa la memoria collettiva dei singoli popoli, le operazioni di pulizia etnica, politica e di genere del Terzo Reich sono state evento senza precedenti per l’Umanità, almeno tra quelli documentati.
La storia è di pubblico dominio e mi sento solo di fare un rapido e generico riassunto: durante l’intero arco della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) milioni di ebrei, omosessuali, rom e sinti, oppositori politici e minoranze religiose sono stati discriminati, segregati, deportati e infine assassinati nei campi di sterminio o attraverso feroci esecuzioni di mazza.
Un evento traumatico e brutale, che ha costituito per il mondo del Dopoguerra un fardello morale devastante e una ferita che ancor oggi non si rimargina.
Un evento capace di mostrare al mondo fino a che punto possono arrivare l’odio razziale, religioso e di genere.
Si tratta di un tema estremamente complesso e doloroso, del quale storici, filosofi e politologi continuano ancor oggi a scrivere e che ha dato vita a una vastissima letteratura, storica e di fiction, in grado di mantenere vivo il ricordo e il “focus” su quel che è successo in Europa 76 anni fa.
Capirete voi che scrivere un articolo che si domanda se un videogioco possa o meno raccontare una storia raccontata da Schindler’s List, Il Pianista o da dolorose testimonianze il diario di Anna Frank possa essere problematico e da trattare con cura.
Per fortuna, oggi la concezione di “videogioco” è molto più matura e culturalmente di pubblico dominio rispetto a qualche anno fa e ci permette di ragionare in maniera più sfaccettata dell’argomento, e del resto non mancano giochi ad ambientazione fantastica che nel corso degli anni non hanno esitato a toccare temi come discriminazione e violenza mossa da odio razziale (un titolo su tutti: The Witcher, nel suo proporre una versione “fantasy” dei pogrom contro ebrei e altre minoranze).
Le domande che nascono a questo punto sono però altre, e di altro tipo.
La prima, alla quale daremo una risposta, è se i videogiochi abbiano tentato di affrontare il tema (e il responso è molto interessante).
La seconda, conseguente, è se è giusto tentare di continuare osare di più in questo campo.
E poi c’è una terza, che non vi anticipo.
Videogiochi e Shoah: non più un tabù
La prima risposta: sì, corso degli anni il videogioco ha trattato il tema Olocausto (n.b.: parliamo di olocausto “per semplificazione”, senza dimenticare l’opera di sterminio di altre categorie quali LGBT o diversamente abili).
Pochi, in realtà.
Nelle fonti consultate per questa story ne abbiamo trovati tre, tutti relativamente recenti:
- Imagination is the Only Escape (2008, mai pubblicato);
- My memory of Us (2018);
- In maniera diversa e indiretta, Through the Darkest of Times (2020), che si basa sul controllare un nucleo della resistenza impegnato a combattere il regime nazista.
Se la Seconda Guerra Mondiale è stata trattata dal videogioco mainstream in tutti i modi, soprattutto per quel che riguarda l’FPS bellico, non sorprende che al suo lato più doloroso e brutale siano state dedicate poche opere.
Addirittura, nel caso di Imagiantion is the Only Escape, incentrato sulla fuga di una bambino ebreo francese dalla Parigi occupata dai tedeschi, il gioco non vide mai la luce a causa di una sorta di “stroncatura” dell’idea a firma New York Times, in cui si criticava la scelta di raccontare l’orrore attraverso questo medium.
Una situazione che non impedito tuttavia di uscire a My Memory of Us, un adventure a scorrimento con al centro una coppia di amici, uno dei quali perseguitato dai “cattivi” per la sua identità, con l’obiettivo di sfuggire agli aguzzini. Certo, in questo caso a permettere una release troviamo un piccolo stratagemma, ovvero l’immersione della vicenda storica in un universo di gioco onirico e dai contenuti fantasiosi, in cui i nazisti sono raffigurati come robot senza sentimenti e nel quale ogni riferimento palese alla realtà storica è trasfigurato. Tuttavia, nel gioco sono presenti vari elementi stilistici che rimandano con la mente a Schindler’s List, come l’utilizzo dell’alternanza colore/bianco-e-nero.
Nonostante lo stratagemma fantastico, quindi, My Memory of Us è a tutti gli effetti un gioco sulla persecuzione, sulla violenza contro gli ebrei, sull’olocausto. Un gioco visionario, tenero, potente, che invita alla riflessione attraverso la forza delle immagini. Nel gioco siamo due bambini che fuggono da qualcosa di terribile. C’è una metafora, ed è un metafora estremamente attinente alla realtà e alle sue rappresentazioni artistiche.
Comprendere l’impatto di opere del genere non è facile, e sarebbe importante capire il rapporto dell’utenza con queste opere e se un gioco di questo tipo possa essere inserito all’interno di un discorso di sensibilizzazione e in che modo, tuttavia già la scelta di produrre un gioco così non può che dirsi “coraggiosa”.
A questo punto la domanda è: possiamo fare di più?
Quali sviluppi? Quale il confine lecito?
A questo punto, la situazione si complica.
Servono nuovi giochi sul tema? Serve un utilizzo più forte? Un gioco più elaborato e di impatto rispetto a un piccolo semi-indie con l’obiettivo di arrivare a delle nicchie?
La risposta, indovinate un po’, è difficile.
Senza dubbio, una presenza diffusa del tema all’interno di un medium pop sarebbe interessante e forse anche bella. Del resto, costruire un doppia A da console che riesca a raccontare la Shoah e sensibilizzare una massa di giocatori avrebbe un valore molto alto, e permetterebbe l’esplorazione di territori inediti.
Occorre vedere in che modo.
Costruire un videogioco “popolare” d’avventura sull’esperienza di un fuggitivo dall’olocausto, con tanto di cutscenes e meccaniche action, appare estremamente di cattivo gusto e complesso.
Costruire però per esempio un gioco narrativo, con bivi morali, situazioni da risolvere con l’astuzia e qualche enigma (per intenderci, qualcosa alla TellTale) sembra già più accessibile, e una struttura del genere indicata per un videogioco capace di portare il giocatore a emozionarsi, riflettere e ragionare.
Quali i vantaggi? A chi gioverebbe giocare un titolo sulla Shoah?
Di sicuro non andrebbe pensato come un gioco con “intenti educativi”, destinato ai ragazzi. Impostare un’operazione del genere in questo modo sarebbe già una piccola sconfitta, una banalizzazione abbastanza mediocre e svilente di quegli eventi.
Se però vediamo un’opportunità del genere per creare un’opera artisticamente matura, e in grado di dare voce a un tema scottante, le cose si fanno più interessanti. Non va infatti sottovalutato l’impatto che la somma fra valore storico-la capacità di trasmettere notizie, informazioni e concetti-e valore artistico può avere fra i giocatori adulti.
Quante discussioni avete fatto ragionando sulla trama di The Last of Us-Parte II e sulle sue implicazioni morali? E quanto quelle stesse strutture narrative-basate sulla sapiente miscela di ingredienti emotivi-potrebbero costruire efficaci mezzi di “storie per riflettere”?
Tematiche umanitarie e videogioco: una sfida necessaria
Posso sentirvi, e in parte posso anche capirvi: state pensando “Ma perché questa tiritera su un argomento del genere? È proprio necessario coniugare videogioco e Shoah o imbarcarsi in una discussione del genere?”.
La risposta secondo me è “sì”, e il motivo è che delle evoluzioni in questo ambito farebbero maledettamente bene al videogioco come mezzo di comunicazione e di espressione.
E ho le prove di ciò, anzi la prova: Maus, graphic novel di Art Spiegelman della fine degli ani ’80, opera che ha dimostrato al mondo come anche il fumetto-medium ritenuto “per piccoli” (sic, vallo a dire ad Alan Moore…)-potesse raccontare l’orrore dei campi di sterminio utilizzando un mix perfetto fra metafora e cronaca storica.
In realtà, Maus non dimostrò che il fumetto potesse trattare anche temi adulti e scottanti, ma che il fumetto fosse un medium a tutti gli effetti, un mezzo di comunicazione in grado di parlare di grandi temi utilizzando un codice all’epoca sottostimato.
Non è un caso il fatto che dopo quel passaggio il fumetto abbia cominciato a raccontare sempre più spesso storie sull’Olocausto, che sono entrate in modo sempre più preponderante anche in serie “mainstream” come X-Men (ricordate la backstory di Magneto?), con il risultato ultimo di aver fatto crescere quel mezzo espressivo.
E dunque, la domanda finale è: se il racconto per immagini sequenziali ce l’ha fatta, perché il videogioco non potrebbe?