Il 31 gennaio 1999-ben ventidue anni fa- Konami donava al mondo il primo episodio di Silent Hill, una delle più interessanti serie horror della storia del videogioco, tanto iconica quanto sfortunata: nel corso di una ventina di anni, la creatura del Team Silent seppe donare al mondo del gaming un universo orrorifico fatto di estetica malata ed estrema, introspezione e sapiente rielaborazione di alcuni topoi delle letteratura gotica e horror di ogni tempo, a partire da un elemento centrale come quello della piccola città americana attraversata da segreti indicibili.
Una figura retorica del genere che Silent Hill ha rinvivito in maniera tanto forte da essere presa a modello da almeno altre due saghe storiche del videogioco.
Per celebrare l’anniversario, ecco una lunga speculazione/analisi narratologica della serie e del suo elemento centrale. Pronti? Partiamo!
Silent Hill, un’allegra città di provincia (maledetta)
La storia della saga di Silent Hill è quella di una città maledetta, un posto sperduto nella nebbia e fuori dal mondo in cui fin dalla sua fondazione (e anche prima, se guardiamo alla storia delle tribù di nativi del posto), nella quale sono avvenute cose orribili a causa dell’azione del dio Samael e dei suoi spietati seguaci.
Il lavoro di scrittura nella costruzione di questo mondo appare ancora oggi davvero notevole: il Silent Team non ideò solamente un’ottima formula di gameplay, fatta di una miscela esplosiva fra survival horror, detection e racconto introspettivo, ma soprattutto una backstory stratificata e complessa, fatta di dei cosmici e terribili, sette segrete dai riti aberranti, forze malvagie che riescono a cibarsi degli incubi di coloro che visitano la città.
Uno scenario horror colossale, fatto di luoghi terrificanti e personaggi memorabili e, soprattutto, credibili.
Come molte altre ottime storie, tuttavia, Silent Hill era soprattutto una serie con degli ingredienti tematici forti e potenti, radicati della letteratura e nel cinema di genere americani.
Se Resident Evil, all’epoca concorrente di Silent Hill, si caratterizzava come un sci-fi horror, Silent Hill si riagganciava a una storia del soprannaturale molto più radicata nel foklore e nelle leggende, nel lato più “fantastico” e “metafisico del genere” (un argomento di cui abbiamo parlato qui).
E cosa c’è di più “americano” del tema della città maledetta?
Città di tenebra
Fin dalle sue origini, l’horror americano ha sempre giocato con il fondamentale elemento della città dannata, raffigurata come una località in apparenza normale e anzi alfiere della “american way of life” ma in realtà sede di segreti inconfessabili.
Anche se quando la visitiamo Silent Hill è già “caduta”, la città immaginaria di Konami ha molte di queste caratteristiche: la sua struttura è quella di una classica cittadina di provincia, con una geografia formata da un intreccio di vie che collegano luoghi fondamentali della comunità (l’ufficio dello sceriffo, le scuole, la tavola calda…), viste però da una prospettiva distorna e inquietante, il suo passato è scosso da eventi straordinari e terrificanti ma, soprattutto, la sua cittadinanza è una comunità corrotta dal male, sede di segreti che hanno portato morte e disperazione (l’ordine di Samael).
Tutto il male incontrato da Harry, da James e dagli altri protagonisti della serie altro non è che il riflesso dei peccati originali della comunità (almeno in parte), che portano a un pesante fardello sulle spalle dei discendenti dei colpevoli.
Gli esempi di questo tipo nella letteratura, nel cinema e nelle serie tv sono tantissimi: si va dalle città lovecraftiane come Arkham e Innsmouth (preda di orrori cosmici e antichi segreti) per arrivare fino a ispirazioni marcate di Silent Hill come Twin Peaks (in cui le stranezze della città sconfinano in una dimensione onirica spaventosa e affascinante), passando attraverso romanzi come Le Notti di Salem di Stephen King o film come The Fog di John Carpenter.
In modo diverso e con modalità diverse, tutte queste opere raccontano la stessa storia, quella di un posto “solare” contaminato da qualcosa di oscuro finendo in un modo o nell’altro per essere o abbandonato o distrutto o ancora maledetto.
Una “poetica” che si nutre anche della realtà.
Con la loro immensa estensione, gli Stati Uniti d’America possono vantare miriadi di territori isolati e centri abitati abbandonati da tempo per varie ragioni, dalle epidemie alle catastrofi naturali. Non si tratta soltanto dei resti delle prime città dei coloni, o quelle dei pionieri in arrivo all’ovest, ma anche città di costruzione molto recente come Centralia (Pennsylvania), la città che ha dato ispirazione a Silent Hill nella sua dignitosa controparte cinematografica (2006).
Chi conosce la mitologia della saga nipponica potrebbe essere a conoscenza anche la storia di questa sfortunata città: fondata nel XVIII secolo e strutturata attorno all’industria dell’estrazione dell’antracite, Centralia venne abbandonata nel 1962 a causa di un violento incendio nelle antiche miniere sotto la città. A causa delle condizioni climatiche e ambientali l’incendio non si è ancora estinto, e ha prodotto condizioni insostenibili per i residenti, che nel giro di pochi anni iniziarono ad abbandonare l’area.
Da allora, Centralia ha lentamente preso l’aspetto spettrale e spaventoso che troviamo anche in Silent Hill (soprattutto, ripetiamo, al cinema). Un triste destino che, non a caso, sembra derivare da un atto poco chiaro dell’amministrazione cittadina: l’ordine di incendiare una vecchia miniera, un atto estremamente pericoloso (leggi “irresponsabile”) che ha portato disgrazia a un’intera comunità.
È il caso di dire che in qualche modo “il cerchio si chiude”.
Un topos americano
La domanda, a questo punto, è “perché”?
Perché una tematica tanto cupa e in un certo senso “scomoda” come quella della comunità corrotta si è fatta largo in un Paese e in una cultura così conservatrice e tradizionalista come quella americana?
Probabilmente, proprio in reazione a quella cultura. Almeno in parte.
Se è vero che il tema della “città con un brutto passato alle spalle” è roba che risale a Lovecraft, che utilizzava il tema per fini di puro intrattenimento (il buon HP non era certo un progressista), a partire dagli anni ’60 parlare di comunità corrotte da un male antico come fatto da King o Carpenter è diventato un modo per parlare di politica.
Politica, sì.
La piccola comunità minacciata da culti innominabili (Silent Hill), isterie di massa che diventano fondamentalismo (The Mist) o spettri del passato (The Fog) altro non è che la metafora dell’America moderna, nata dall’odio e dalla violenza (la caccia alle streghe, il genocidio degli indiani d’America, l’utilizzo diffuso della forza bruta e per questo portata a essere schiacciata sotto il peso di quei peccati.
La città fantasma e maledetta è dunque uno specchio deformato della normalità, che mette in luce le ipocrisie, gli orrori sottaciuti, le ambiguità e i falsi miti di una nazione che ha costruito sé stessa su di essi.
Certo, Silent Hill non fa “politica”, al massimo rielabora (inconsciamente?) il tema per farne trampolino di lancio per una buona opera di intrattenimento ma, forse senza volerlo, ha dato di nuovo forza al topos, diffondendolo fra le generazioni più giovani.
Non solo Silent Hill
A rimarcare la potenza della figura retorica della città maledetta, pensiamo anche al fatto che Silent Hill non è stata l’unica opera videoludica ad aver portato i giocatori a indagare su misteri soprannaturali od onirici in sperdute cittadine della provincia americana.
Deadly Premonition, investigativo open-world di Access Game per PS3, Nintendo Switch, PC e Xbox 360 uscito nel 2010, azzardava omaggiando all’estremo la trama di Twin Peaks, mettendoci nei panni di un investigatore federale arrivato in una placida cittadina di provincia per indagare sul crudo omicidio di una ragazza.
Una scelta contestata da molti, che vedevano nel tentativo di tributo anche una sconcertante assenza di idee originali, ma aveva l’indubbia capacità di calarci in un’ambientazione accattivante costituita dal classico paese di montagna stelle-e-strisce, con i suoi luoghi fondamentali (il distretto di polizia, l’hotel, la scuola…).
Sempre il 2010 è poi la volta di quella che è considerato uno dei più bei giochi d’avventura mai apparsi su Xbox, ovvero Alan Wake. Costruito sul tipico canovaccio dello scrittore di romanzi dell’orrore rimasto in qualche modo intrappolato nei suoi incubi (un tributo alla letteratura di Stephen King), Alan Wake portava il topos della “città maledetta” a una maturazione straordinaria, permettendoci di esplorare un’ambientazione viva, ricca di segreti e in grado di restituire tutta l’atmosfera dei classici del genere, anche grazie all’animo cinefilo di Remedy Studio.
Infine è della fine del 2020 Little Hope, secondo episodio della serie The Dark Pictures di Supermassive Games. Ambientato in una cittadina sperduta fra i boschi, con un gruppo di sventurati bloccati da una fitta nebbia e da una forza soprannaturale (vi ricorda qualcosa?), Little Hope è una sorta di piccolo sogno per gli amanti dell’american gothic: fra case diroccate, chiese in stile georgiano e segni della caccia alle streghe, i giocatori devono farsi largo in uno scenario da brividi che, nonostante vari inciampi e una durata davvero breve, riesce a omaggiare meravigliosamente sia Silent Hill che Alan Wake, come fosse uno splendido tributo a due colleghi più illustri.
Se è vero che ogni buona storia dell’orrore è anche la storia di un luogo infestato, capace di dare al lettore, spettatore o giocatore un brivido dietro la schiena grazie alla sua storia o al suo aspetto, allora Silent Hill ha avuto il grande pregio di donare al mondo del videogioco uno dei luoghi infestati per eccellenza, tanto spaventoso quanto in grado di incarnare significati profondi-anche “sociali”-del genere.
A provarlo non è soltanto il lungo seguito avuto dal brand (seguito che comunque non ha impedito a Konami di stoppare drammaticamente la realizzazione di altri episodi della serie), quanto il fatto che esso sia stato omaggiato da altri videogiochi più o meno indirettamente.
Ancor di più, Silent Hill e i suoi epigoni digitali sono la prova di quanto il videogioco possa ereditare, potenziare e tramandare con successo topoi fondamentali della cultura pop portati avanti nel corso dei secoli dalla letteratura prima e dal cinema poi, riproponendoli in un’altra dimensione, più profonda e interattiva.
E quindi, Silent Hill, grazie di cuore.
Davvero.