È strano come funzionino i ricordi di un videogiocatore: spesso basta l’uscita dell’ultimo episodio di una serie famosa (che magari non giochiamo più da anni), per andare con la nostra mente a momenti della nostra “carriera” per noi particolarmente significativi, in un modo o nell’altro.
È stano, ma a me è successo con Hitman 3, nuovo episodio di una serie che ho amato per anni e seguito per tutta la sua storia, accantonandola poi a un certo punto perché stanco di certe dinamiche e a causa di un costante allontanamento dal mondo del videogioco.
Cos’è successo? Semplice: Hitman 3 mi ha fatto ricordare quanto io abbia amato Hitman, almeno fino all’indimenticabile Blood Money (2006), ma soprattutto a come Hitman mi abbia fatto capire quanto il videogioco fosse bello.
Vi invito quindi a seguirmi in questa breve riflessione/memoria videoludica, fatta di assassini seriali, cinema action e problemi adolescenziali.
Questa storia parla principalmente di due eventi concatenati e molto particolari, uno estremamente personale e quindi difficile da raccontare e l’altro che potrebbe avere un certo valore di “critica videoludica” (per quanto possibile).
Parto raccontandovi la storia personale, non senza un certo imbarazzo l’impressione di portarvi un po’ di noia.
2002.
Avevo tredici anni, ero in terza media e la mia vita di studente non era facilissima, fra professori non proprio “delicatissimi”, compagni di classe un po’ scalmanati e sul ciglio del bullismo e i classici casini adolescenziali fatti di cotte naufragate miseramente, senso di inferiorità e assoluto sballo ormonale.
Me la passavo male.
O almeno credevo di passarmela male all’epoca, non lo so, ma ancor oggi sento davvero molta fatica nel ricordare quel periodo fatto oltretutto di primi lutti in famiglia (fra zii e bisnonne che vengono a mancare) e cose del genere.
Fatto sta che nel pieno della mia tempesta emotiva metto le mani su un numero della rivista ufficiale PlayStation con allegato uno strumento oggi obsoleto, ma che è stato uno dei maggiori veicoli di marketing per Sony almeno fino all’avvento del gioco digitale: un disco di demo promozionali per PlayStation 2, con sopra svariati titoli da provare.
Era novembre (massimo fine ottobre), e Natale era alle porte, e Sony faceva promozione spinta.
Insomma, fra le varie demo c’era anche un gioco che non avevo mai sentito, con in copertina un tizio in giacca-e-cravatta (rossa), pelato, con due pistole in mano. All’epoca avevo appena finito Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, amavo i film di spionaggio e i film di Arnold Schwarzenegger: capirete voi come schifai ogni altro gioco nella demo e mi misi subito a provare il gioco col tizio pelato e la cravatta rossa.
Ricordo abbastanza bene tutte le sensazioni che quella demo mi dette, e in particolare una: sconcerto.
All’epoca non avevo ancora provato un GTA (il III, se non ricordo male, era uscito proprio in quell’annata e Vice City sarebbe arrivato a breve), e d’un tratto mi ritrovai a giocare per la prima volta con un personaggio “negativo”, passando dai panni eroi senza macchie come Solid Snake o 007 a un killer professionista che strangolava i suoi obiettivi o gli sparava in testa a sangue freddo.
Fra i tanti pregi di Hitman c’è sempre stata la sua capacità di saper raccontare una realtà fredda, ambigua, in cui la violenza era una costante. Giocando anche solo un qualsiasi gioco della serie per intero (come avrei fatto io di lì a poco) è chiaro che Agente 47 è un personaggio “non negativo” e in grado di discendere il concetto di “bene” da quello di “male”, ma all’epoca l’impatto era alquanto devastante, anche perché ironicamente quel primo livello provato aveva una serie di caratteristiche abbastanza impattanti.
Era ambientato in Italia (per la precisione, la missione era assassinare un don della mafia nella sua villa vicino Palermo), un ambiente in qualche modo “familiare”, includeva al suo interno la possibilità di assassinare anche degli “innocenti” (fattorini passati lì per caso, giardinieri, la moglie/spasimante del boss), e infine persino la musica d’accompagnamento era molto più “dark” e capace di smuovere sentimenti contrastanti rispetto a quel che poteva fare la soundtrack di un altro gioco.
Insomma, per farla breve Hitman 2-Silent Assassin aveva il sapore di un gioco per grandi, decisamente difficile, con tematiche ostiche.
Per di più, pensate anche a come la mente di un tredicenne, ancora molto priva di riferimenti culturali forti, possa non avere ancora gli strumenti per comprendere concetti così complessi come “omicidio su commissione”, “malavita organizzata” o “ex-Unione Sovietica”.
Se a questo ci aggiungiamo un po’ di sana cultura familiare di stampo cattolico, nella quale tutto ciò che era “gioco digitale” era passato ai raggi X e visto in una luce “non-proprio-buona”, posso dire tranquillamente che l’impatto fu assolutamente devastante, e credo che un gioco del genere mi avesse davvero colpito.
Ma questo era solo il primo impatto, e solo la scintilla di una consapevolezza.
Oggi, dopo quasi vent’anni da quello strano pomeriggio di gioco, devo dire che quell’impatto brutale assomiglia a una sorta di presa di coscienza.
Anzitutto, se mi guardo indietro con sguardo critico non posso fare a meno di pensare a quanto fossi matto e precoce. Per quanto digiuno di giochi “brutali”, quando presi in mano Hitman 2 Silent Assassin avevo comunque già visto (e amato) molti film “violenti” come gli action di Schwarzenegger o storie ancora più intense come Face/Off di John Woo.
Eravamo una generazione che aveva per la prima volta una grande possibilità di acceso al cinema pop anche solo grazie alla tv commerciale, e ci piaceva, nonostante ci fosse ancora un po’ di demonizzazione. Quindi, per quanto il primo approccio con Hitman 2 fosse stato particolare, non ci misi molto ad amarlo e a immergermi nelle sue atmosfere fantapolitiche e dark.
E allora la domanda che mi faccio è se un gioco come Hitman 2-Silent Assassin possa essere stata la “scintilla” per me come per molti altri giovani giocatori capire non solo che il videogioco poteva essere in grado di raccontare storie “non-friendly”, ma soprattutto quanto fossero sofisticati come mezzi di narrazione capaci di tenere testa ad altri all’epoca ritenuti già più maturi, a partire dal cinema.
Un ruolo avuto anche da altri giochi e franchise, all’epoca. Come nel mio caso a fare da “scintilla” può essere stato Hitman, per altri fu il già citato Grand Theft Auto, che permetteva al giocatore di comprendere come il videogioco non fosse certo solo un mezzo per raccontare storie “innocenti”. E la lista di questi giochi è lunghissima: Manhunt, Carmageddon, The Suffering (questo condito più con una violenza “psicologica” strisciante che con una vera e propria rappresentazione dell’orrore) sono i primi titoli che mi vengono in mente.
Di fatto, potremo quasi scommettere che ogni giocatore di giochi a contenuto “action” di lungo corso ha avuto un suo “titolo rivelatore”, qualcosa che gli abbia aperto gli occhi sulle possibilità del videogioco di affrontare anche gli argomenti più moralmente complessi.
Titoli in grado di rimettere in discussione le stesse coordinate del concetto di “gioco”, avvicinando potenzialmente i giovani a generi e temi narrativi fino ad allora prerogativa dei soli “adulti”.
Fu un passaggio particolare, un passaggio complesso come forse non se ne erano mai visti all’interno dell’industria dell’intrattenimento e come forse mai più si vedrà.
Spesso la stampa mainstream si sofferma sui videogiochi “violenti” additandoli come atti artistici immorali, frutto di menti perverse, senza mai domandarsi come “i ragazzi” li abbiano recepiti, cosa vi abbiano visto, quali significati gli abbiano dato, e soprattutto come abbiano contribuito alla loro crescita artistica e culturale (e non solo).
Forse sarebbe il caso che cominciasse a farlo.
This post was published on 22 Gennaio 2021 17:00
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