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Speciali

Dov’erano i videogiochi di Indiana Jones e dove andranno?

Il mondo del videogioco ci ha abituato a clamorosi ritorni di brand celebri come Star Wars o Il Signore degli Anelli, e l’altro giorno è toccato a Indiana Jones.

Solo poche ore dopo la notizia della nascita di Lucasfilm Games (ne abbiamo parlato qui) lo studio e il developer Machine Games hanno annunciato la produzione di un nuovo videogioco ispirato al celebre archeologo-avventuriero dopo vari anni in cui il personaggio sembrava essere stato dimenticato dall’industria.

Poco sappiamo ancora del nuovo gioco, ma per celebrare degnamente la notizia abbiamo deciso di inoltrarci fra le pieghe del tempo e raccontare la storia del rapporto del buon Indy col mondo del gaming digitale.

Una storia che in parte parla anche dell’evoluzione di alcuni generi videoludici.

E ora, sigla.

Indiana Jones fra cinema e videogioco

Creato nel corso degli anni ’70 da George Lucas, Indiana Jones è uno degli eroi del cinema pop che più hanno segnato l’immaginario collettivo fin dall’esordio del primo film a lui dedicato, I Predatori dell’Arca Perduta (1981), per continuare ad aver fortuna per i successivi trent’anni grazie a tre sequel (Indiana Jones e il Tempio Maledetto, Indiana Jones e l’Ultima Crociata e Indiana Jones e il Regno del Teschio di cristallo), un serial televisivo (Le avventure del giovane Indiana Jones), qualche gdr, librogame e serie di romanzi dedicati.

Indiana Jones e l’Ultima Crociata (1989)

L’idea di fondo di Lucas (e di Steven Spielberg, che accettò di dirigere i film scritti dall’amico/collaboratore mentre questi si dedicava a terminare il lavoro su Star Wars) era quella di costruire un franchise che omaggiasse la letteratura e i serial cinematografici d’avventura statunitensi degli anni ’30 e ’40. Storie col gusto dell’esotico, ambientate ai quattro angoli del mondo e incentrate su rocambolesche avventure a base di fantastoria, esotismo, action e mistery.

Un po’ grazie alla forza intrinseca in questo modello, un po’ per la buona caratterizzazione del buon Indy da parte di Harrison Ford e ovviamente per il talento di un professionista del cinema d’intrattenimento come Spielberg, la serie fu un successo e confermò il talento di Lucas come produttore di brand miliardari.

Un piccolo trionfo che, complice l’esplosione del fenomeno gaming, portò all’approdo di Indiana Jones nel mondo del videogioco.

La straordinaria sequenza d’apertura de I Predatori dell’Arca Perduta (1981)

L’esordio risale al 1982 su Atari 2600 con Raiders of the Lost Ark, un action tratto ovviamente da I predatori dell’Arca Perduta, seguito da titoli basati su storie originali come Indiana Jones in the Lost Kingdom (1985) e dalle trasposizioni degli altri due film del brand.

Il rapporto fra Indy e il gioco digitale sembrava del tutto analogo a quello di decine di altri marchi famosi trasferiti nel mercato videoludico, ma a partire dal 1989 la storia ha una piccola ma interessante svolta.

Gli anni ’90 e la meraviglia delle avventure grafiche

Nel 1990 Lucasfilm Games diventa LucasArts Entertainment Company, una divisione del tutto rinnovata del comparto gaming delle aziende del buon George. Forse per puro amore per lo sperimentalismo narrativo, forse per strategia commerciale, fin dai primi vagiti LucasArts si butta in peno nel campo delle avventure grafiche, un genere neonato che Lucasfilm Games aveva già fatto suo fin dal 1986 con Maniac Mansion di Ron Gilbert.

Indiana Jones and the Fate of Atlantis (1992)

Mentre Indiana Jones e Star Wars cominciavano a dominare le classifiche degli action/adventure, a vedere la luce fu anche Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure (qui una bella retrospettiva sul gioco), versione punta-e-clicca del terzo episodio della serie cinematografica, seguito da Indiana Jones and the Fate of Atlantis, ovvero una delle produzioni principali dell’azienda assieme ai giochi di Monkey Island.

Costruito su una trama del tutto originale che vedeva l’avventuriero/esploratore sulle tracce del conti perduto di Atlantide (ovviamente), Indiana Jones and the Fate of Atlantis è ancora oggi un piccolo classico per molteplici ragioni.

Anzitutto è passato alla storia come un titolo capace di fondere con successo il classico stile delle avventure LucasArts dell’età d’oro (di fatto, il gioco è uscito subito dopo The Secret of Monkey Island) con quello delle avventure dell’archeologo, un fatto che è riuscito a dare al gioco un’identità forte e decisa. Se a questo aggiungiamo anche la capacità del designer e sceneggiatore Hal Baarwood (autore di Sugarland Express e coautore di Incontri ravvicinati del terzo tipo, entrambi di Steven Spielberg), ci troviamo davanti un gioco in grado di dare agli appassionati una storia assolutamente in grado di reggere il confronto con quelle dei film della serie. Di fatto non sono pochi gli appassionati del brand che per via della sua componente artistica reputano The Fate of Atlantis una sorta di quarto episodio “non ufficiale” della serie di Spielberg.

Indiana Jones and the Fate of Atlantis (1992)

Infine, The Fate of Atlantis è passato alla storia per una caratteristica fondamentale che pochi altri giochi dello stesso genere hanno avuto il coraggio di seguire: arrivati a circa tre quarti del gioco, potevamo scegliere in quale modo proseguire l’avventura attraverso tre diversi “path” che la facevano sviluppare in maniera diversa, come in una bizzarra commistione fra avventura grafica e gioco narrativo.

Purtroppo, The Fate of Atlantis fu l’unica avventura grafica del brand a essere sviluppata nonostante la pianificazione di un sequel, Indiana Jones and the Iron Phoenix, poi cancellato e tramutato nel soggetto di una miniserie a fumetti in due parti pubblicata nel 1993 da Dark Horse Comics.

In ogni caso, The Fate of Atlantis rimane negli annali come una delle migliori e più archetipiche avventure grafiche mai create.

Anni ’90/2000: l’età dei blockbuster d’azione

Per Indy, il resto degli anni ’90 è quindi un susseguirsi di giochi action/adventure , con almeno sei titoli usciti per Nintendo e PC.

Nel frattempo però l’impatto di Indiana Jones sul mondo del gaming si concretizzava anche in altri modi, forse ancora più significativi.

Indiana Jones e la Macchina Infernale (1999)

È il 1996 quando Eidos Interactive pubblica Tomb Raider, un action-adventure che codificava alcuni aspetti del genere: grandi livelli da esplorare, una meccanica di gioco basato sulla combinazione fra enigmi, percorsi accidentati da superare e shooting. Già ai commentatori dell’epoca era chiaro che la nuova IP, basata sulle avventure dell’archeologa e avventuriera Lara Croft (impegnata a recuperare importanti artefatti in tutto il mondo), altro non era che una sorta di “versione 2.0” di Indiana Jones, aggiornato al (quasi) 2000 e costruito su ingredienti più action.

Di Indiana Jones Tomb Raider prende del resto molti elementi narrativi: un’eroina molto diversa ma parimenti carismatica, sarcastica e affascinante, un vagare continuo di continente in continente, degli spietati rivali come nemici. Per ultimo, la propensione quasi naturale per una serializzazione spinta che come sappiamo nel giro di circa venticinque anni ha portato a una lunga saga principale, a un reboot e alla nascita di un franchise forte quasi quanto quello di Indy stesso.

Indiana Jones e la Tomba dell’Imperatore (2003)

Un successo straordinario che evidentemente portò LucasArts a una scelta più che comprensibile, ovvero sviluppare un action/adventure in terza persona dalle meccaniche abbastanza ispirate a quelle di Tomb Raider. Il risultato fu Indiana Jones e la macchina infernale, sviluppato ancora auna volta sotto la direzione artistica di Hal Barwood, mente dietro a The Fate of Atlantis.

Ambientato dopo la Seconda Guerra Mondiale, Indiana Jones e La Macchina Infernale, ambientato durante la Guerra Fredda, ci immergeva nella ricerca della Torre di Babele e vedeva i sovietici impegnati al posto delle solite SS.

Per quanto senza dubbio derivativo rispetto a Tomb Raider, La Macchina Infernale rappresentò un ottimo “level-up” della serie, che ne decretò un discreto successo e ancora una volta il plauso della critica, tale da portare a due sequel, Indiana Jones e La Tomba dell’Imperatore, nel 2003, e Indiana Jones e il bastone dei re (2009), strutturati sulla stessa tipologia di gameplay e atmosfere.

Oggi: un grande ritorno

La trilogia di Indiana Jones anni 2000 ha aperto e chiuso un’età d’oro per il franchise, ma una volta passata quella fase poco è rimasto. L’impressione è che il tentativo della serie di Lucas di entrare nella storia dell’action/adventure contemporaneo si sia concretizzato in una sorta di operazione-cometa, non troppo convinta e senza la forza dimostrata da altri brand.

Indiana Jones e il Bastone dei Re (2009)

Fra giochi LEGO Indiana Jones (due, uno del 2008 e uno del 2009) e un gioco online sulla piattaforma Facebook (2011), Indy sembrava aver abbandonato in punta di piedi la scena e l’apparizione di qualche giorno va ha stupito non poche persone.

Un ritorno che arriva dopo che il videogioco di massa è stato dominato da un altro grande brand ispirato in qualche modo alla saga di Lucas, ovvero Uncharted, tutto costruito sugli elementi fondamentali del “mood jonesiano“: fascinazione per l’avventura, carisma e umanità del personaggio principale, connubio di action, mistery ed esplorazione.

Di fatto, mentre Tomb Raider viveva un periodo di sofferenza poi recuperato, Uncharted ha tenuto in alto il “paradigma-Indiana Jones” nel settore gaming e creato forse il più interessante erede del personaggio di Lucas e Spielberg.

Non sappiamo cosa abbia in sebo per noi MachineGames, e senza dubbio dovremo aspettarci un periodo di sviluppo non brevissimo, ma i motivi per essere fiduciosi ci sono tutti: per almeno due volte la saga di Indiana Jones è riuscita a emergere dando un contributo fondamentale alla storia dell’industria videoludica e alla nostra fame di divertimento grazie sia alla sua forte lore che a una direzione ludica ispirata.

Una cosa è certa: se c’è una cosa che non manca, questa è la curiosità.

This post was published on 15 Gennaio 2021 12:07

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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