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Speciali

Letteratura vs videogioco: un duello eterno?

Il mondo è fatto di luoghi comuni, purtroppo, alcuni semplicemente ingiusti, altri curiosi, altri ridicoli.

Anche la percezione del videogioco fra “i grandi”, per molto tempo, è stata basata su un’infinità di preconcetti e di idee sballate su cosa fosse e su come impegnasse il tempo delle persone, quasi sempre erodendo il tempo per quella che doveva essere la principale attività di una persona attenta alla cultura, ovvero leggere.

Col passare dei decenni per fortuna il luogo comune che vede libro e videogioco come media in contrapposizione ha perso forza, e oggi, meraviglia delle meraviglie, questi due mezzi d’espressione sembrano aver stretto una straordinaria alleanza, in più e più modi.

Vi invitiamo a seguirci in un viaggio singolare, fra videogiochi, libri, librogame e molto altro, alla scoperta degli splendidi ponti fra questi passatempi.

Pronti? Partiamo!

The Witcher 3: IL gioco “libresco” per eccellenza

Fra libri e videogiochi

Fin da quando ero piccolo, la mia casa ha ospitato una folta biblioteca di libri, riviste, fumetti, graphic novel e, dall’avvento del Kindle, di ebook pieni zeppi di storie. D’inverno poi adoro buttarmi sotto le coperte a leggere, soprattutto quando fa freddo e la postazione console assomiglia più a un terribile patibolo che a un luogo di relax.

Romanzi di genere fantastico, horror, di fantascienza riempiono gli scaffali della mia casa e fanno da graditissimo e fantastico intermezzo fra una giocata di ruolo e una con la fida PS4.

Da qualche anno, più o meno da quando ho ricominciato a giocare e a leggere con assiduità dopo l’università (periodo di stanchezza, stress e testa fra le nuvole per antonomasia), ho cominciato a riflettere su come due dimensioni così diverse come il gioco digitale e le pagine di un tomo possano in realtà avere molto in comune.

Metro, uno dei post-apocalittici più significativi degli ultimi anni, è tratto da una fortunata serie di romanzi made-in-Russia

È stato come un istinto, maturato durante quei lunghi periodi in cui alternavo una giocata a The Witcher 3 all’ennesimo horror trovato su Amazon a due soldi. Un istinto forse dato dalla voglia di esplorare, contaminare le passioni, ragionare su come spendo il mio tempo e sulle mie passioni.

A livello superficiale, se mettiamo sullo stesso piano e in correlazione questi due mezzi, quello fra libro d videogioco non sembra proprio un match perfetto: il libro è un medium “freddo” (non sapete cosa sia un “medium freddo” e cosa un “medium caldo”? Leggete qui!) nel quale il lettore deve sforzarsi di apprendere una storia, immaginarla e costruire un rapporto con lei. Al contrario il videogioco è in teoria puro bombardamento di pixel, suoni, colori e, soprattutto, interazioni: forse il medium più “caldo” e avvolgente che ci sia. 

L’impressione è che siano due tipi di esperienze diversissime, figlie di generazioni distanti, modi di rilassarsi e divertirsi opposti, persino di “tempi” lontani fra loro, l’uno addirittura antecedente al ‘900 e l’altro precursore del 2000.

Eppure, nella mia personalissima caccia alle analogie fra due passatempi tanto amati, ho trovato un tratto condiviso che non mi lascia dubbi sulla parentela dei due mass-media più distanti e contrapposti nella storia della comunicazione.

Discworld: Terry Pratchett sbarca nel mondo del gaming

Parola chiave: immersività

Cosa facciamo quando leggiamo?

Di fatto, scegliamo di isolarci dal mondo, perdendoci fra veri e propri “fiumi di parole” in grado di “cullarci” e rilassarci e al contempo di mettere alla prova la nostra creatività: leggere è un’attività estremamente attiva, nella quale siamo chiamati a recepire degli input scritti, a farli nostri e a immaginare qualcosa in base alla loro spinta.

È un’attività immersiva, nel quale tutte le nostre risorse celebrali sono impegnate a “decifrare” e decifrare un testo scritto. Un’attività che non a caso continua a essere alla base dell’apprendimento a scuola e della trasmissione della cultura, in quanto esercita e sviluppa le nostre capacità di comprendere il mondo attorno a noi e di costruire significati.

Che facciamo quando giochiamo?

In apparenza, come detto poco più su, non facciamo altro che lasciarci andare a una serie di stimoli dati dalle diverse aree di gioco che i programmatori hanno preparato per noi. In teoria, un’attività del tutto opposta a quella di immergerci nel libro: non dobbiamo decifrare nulla, gli input sono chiari e presentati in modo da dare al giocatore una dimensione di assoluto “comfort”.

Il programma mette in atto un input, un nemico attacca, noi reagiamo sferrando un colpo in risposta al quale viene data un’altra risposta dall’AI. Nel frattempo la colonna sonora ci accompagna, gli effetti meteo simulati rendono i movimenti più complessi, i PNG reagiscono a ciò che facciamo.

Ehi, fermi: siamo sicuri che la soglia di immersività di un’attività del genere non sia praticamente la stessa che possiamo toccare con mano nel caso della lettura?

Se mettiamo l’interazione in-game a confronto con la “difficoltà” della lettura di un romanzo, notiamo che in realtà il grado di coinvolgimento non è così tanto diverso. Ciò vale per esempio per generi come l’open-world, l’avventura grafica, ma anche alcuni action-adventure con forte narrativa ambientale.

Nicholas Eymerich, Inquisitore: La Peste ha portato nel mondo videoludico la serie di romanzi fanta-horror di Valerio Evangelisti

Il mondo di gioco, in questi casi, diventa spesso un gigantesco “libro aperto” (passateci il bisticcio semplicistico) da leggere, analizzare, persino interpretare, cosa che succede quando esploriamo una catacomba in Rise of the Tomb Raider, o quando entriamo in una locanda di Skyrim o The Witcher 3 e ci ritroviamo a chiedere e ricevere informazioni.

Un’attività in cui siamo chiamati a interagire costantemente con una storia, ad analizzare molti degli elementi che ci vengono posti avanti con sguardo critico (“Okay, sto guardando un antico manufatto, ma cosa nasconde? Cambia qualcosa se lo guardo da un’altra prospettiva?”). Cosa non scontata, molte volte giocando siamo chiamati a leggere, come quando durante l’ennesima esplorazione ci ritroviamo fra le mani l’antico manoscritto di una razza estinta, il diario di un sopravvissuto da poco finito sbranato da un branco di infetti, o i dati salvati all’interno di un computer sepolto in una base militare abbandonata.

Letture di testi brevi, certo, che chiamare “letture” è sbagliato e fuorviante, ma che pochi altri mass-media ci permettono di fare.

Gioco e libro: sempre più in contatto

Il rapporto fra gioco digitale e libro sembra quindi più stretto di quel che pensiamo, più forte di un rapporto spesso di pura derivazione e analogia fra i due mass media che hanno fatto la storia del ‘900, romanzo e cinema.

Una vecchia e gloriosa avventura testuale

I punti di contatto fra libro e gioco digitali sono stati molti, del resto: la nascita di una vasta praletteratura  spin-off di giochi famosi (due esempi su tutti: Dragon Age e Mass Effect) in grado di espandere il lato narrativo di svariati titoli e di portare le avventure dei protagonisti sugli scaffali di librerie e biblioteche, la nascita di interi brand videoludici basati su serie letterarie (The Witcher, Metro, Discworld, il recente Black Sad, e la lista è lunghissima) e infine il coronamento di questo rapporto: i vari meticciamenti “tecnologici” fra libro e gioco.

A partire dal librogame (di fatto, uno strano antenato del gioco digitale in grado di rendere un’avventura narrata un’attività interattiva), passando per le avventure testuali e poco dopo per le avventure grafiche, libro e gioco si sono scambiati input esattamente come il nostro PG scambia input con l’ambiente che esplora, si sono sovrapposti e hanno trovato convergenze sempre più grandi, forse consci di somigliarsi e di correre su due tracciati paralleli dalle caratteristiche simili.

Lupo Solitario, celebre serie librogame, nella sua incarnazione digitale del 2013

Il mondo è fatto di pregiudizi ingiusti, incardinati nelle convinzioni, luoghi comuni abbastanza tristi che si nutrono di pressapochismo. Per fortuna, a volte alcuni preconcetti cadono e passano, e lo fanno in modo convincente.

Se visti al microscopio, se analizzati dal punto di vista delle esperienze e delle emozioni che ci danno, libro e videogioco hanno punti di contatto che forse non credevamo neanche di trovare, ponti che da molto tempo li tengono uniti in un dialogo costante e che probabilmente hanno contribuito al loro successo, li hanno alimentati, hanno dato ispirazione a decine di creativi dei rispettivi campi.

E probabilmente, visti i progressi della narrativa videoludica, sempre più in grado di emozionare, raccontare e mettere il giocatore al centro di storie sempre più ambiziose, questo è solo l’inizio.

This post was published on 16 Dicembre 2020 13:10

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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