Cyberpunk 2077 è finalmente arrivato sui nostri schermi riportando nel mondo del gaming atmosfere di classici come Neuromante, Blade Runner o il gioco di ruolo che l’ha ispirato.
Oggi, per continuare a celebrare l’ultima fatica CD Projekt Red (cosa che abbiamo fatto negli speciali sul alcuni dei migliori videogiochi dal tema analogo e in uno quelle che secondo noi sono le migliori opere appartenenti al genere), abbiamo deciso di raccontarvi qualcosa di un grande ma poco conosciuto gioco del passato, che già nel 1988 ci calava in una storia di cyborg umanoidi, realtà virtuale e città sovraffollate.
Seguiteci quindi alla scoperta di Snatcher, visual novel a tema cyberpunk di Hideo Kojima uscita nel lontano 1988, del suo rielaborare in maniera incredibile il canovaccio del già citato Blade Runner e soprattutto del suo anticipare in modo curioso alcuni temi di Metal Gear Solid.
Storditi? Sorpresi? Incuriositi?
Tranquilli, è solo l’inizio.
1988: Hideo Kojima, ventisettenne programmatore di ottime speranze attivo in Konami, ha da poco visto arrivare sugli scaffali Metal Gear, il gioco che gli darà la gloria e farà id lui uno dei game designer padri del genere stealth, nonché uno dei creativi più influenti nella storia del medium.
Dopo il riuscito lancio della prima avventura di Snake, è per lui il momento di ricominciare a programmare. Per farlo, Hideo-San compie un’operazione che già gli è riuscita con Metal Gear: se nel suo primo capolavoro Kojima aveva destrutturato e gamificato il cinema d’azione U.S.A. (e in particolare 1997-Fuga da New York e Terminator), per il suo nuovo gioco l’autore giapponese decide di affrontare un vero mostro sacro del cinema.
Snatcher di fatto non è altro che una intelligente (o furba?) variazione sul tema di Blade Runner, la storia di un mondo futuristico e corrotto nel quale l’umanità è minacciata da un nuovo tipo di macchine altamente sofisticate, gli snatcher, che mirano a infiltrarsi nelle società umane per poi poter prenderne il potere. Per far fronte alla minaccia viene creato JUNKER, un reparto operativo della polizia di Neo Kobe City.
Al centro della vicenda di Snatcher c’è com’è ovvio uno degli agenti del reparto, Gillian, da poco vittima di un episodio che gli ha generato un’amnesia piuttosto estesa che l’ha portato anche al divorzio da Jamie, sua moglie. All’inizio dell’avventura non sappiamo molto di quale strano evento lo abbia condotto in questa situazione, se non che è certo che abbia a che fare con gli Snatcher.
Dal punto di vista del gameplay Snatcher è una visual novel dai chiari intenti citazionistici, nel quale Gillian si ritrova al centro di una tipica storia da noir cyberpunk ricca di misteri, segreti e complotti, ma anche di una vicenda dai tratti inquietanti e, ovviamente, tipicamente kojimiani.
Al giocatore del 1988, piuttosto che un semplice omaggio a Blade Runner, Snatcher si rivelava essere qualcosa di un po’ più particolare.
L’indagine sugli androidi porta presto Gillian al centro di un racconto con atmosfere da guerra fredda. Veniamo a sapere che gli Snatcher sono stati il frutto di un progetto segreto dell’Unione Sovietica per sovvertire l’ordine mondiale, e che Gillian e Jamie erano spie impegnate a distruggere il piano dei russi e in seguito messi a tacere da un sonno criogenico dal quale è derivata l’amnesia di Gillian.
In poche parole, Snatcher lasciava già intravedere uno dei temi fondamentali di Metal Gear Solid, ovvero il rapporto fra potere oppressivo e distopico (se ci pensiamo il complotto della diffusione degli snatcher non è altro che una prefigurazione di quello dei Patriots in MGS) e individuo. Al contempo, Snatcher era già un simbolo della passione di Kojima per l’alta tecnologia, per le tematiche bioetiche e per la fantapolitica.
In fondo, l’autore Kojima non è altro che un game designer figlio di un decennio letteralmente bombardato da influenze cyberpunk e dalla fascinazione per il futuro propria della cultura pop, influenze alle quali si sommava la sensibilità tipicamente nipponica di un giovane giapponese nato nel post-seconda guerra mondiale.
Se lo guardiamo in prospettiva, Snatcher altro non era che il secondo tassello di un discorso che Kojima aveva appena iniziato con Metal Gear e che ha continuato nei successivi trent’anni di carriera, declinato in tutte le sue forme e affrontando varie branche della fantascienza, da quella tematicamente più vicina al manga e agli anime giapponesi (Policenauts) al warmovie con una spruzzata di sci-fi (Metal Gear Solid, ovviamente), fino a quella più esistenziale e autoriale (Death Stranding).
Il “cyberpunk di Hideo Kojima” è a conti fatti un simpatico omaggio a un classico del cinema che ancora oggi, dopo quarant’anni, rimane a ispirare creativi di ogni tipo col suo stile artistico. Snatcher è stato la prima vera trasposizione a videogioco di Blade Runner, un’operazione a due passi dal plagio, condotta con spirito di amore sincero da un giovane programmatore figlio del suo tempo.
Oggi non può che essere considerato un gioco vetusto, ancorato a un’altra era geologica del videogioco e persino difficilmente recuperabile, ma proprio per questo è il simbolo di un’epoca in cui il videogioco era per certi versi più libero, tanto da poter senza problemi rielaborare la trama di un grande film di Hollywood e farla franca.
Un’epoca culturalmente straordinaria, in cui temi “anarcoidi” come il cyberpunk riuscivano a contaminare opere differenti, a unirle, a creare ponti fra cinema, videogioco e romanzo in maniera più genuina e quasi avventurosa.
La folle speranza al termine di questo scavo nei ricordi?
Che il ricordo di quell’anarchia vi guidi a Night City, vi immerga fino al midollo nel giusto mood per un tuffo in un futuro che sa (anche) di anni ’80, di sperimentazione, di fascinazione per la musica di allora, il cinema di allora e, ovviamente, per il videogioco di quel decennio fantastico.
This post was published on 11 Dicembre 2020 13:00
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