NB: L’articolo contiene spoilers su alcuni importanti snodi narrativi del gioco. Si è scelto comunque di non parlare del finale.
C’è un momento scolpito nella memoria di chiunque abbia giocato Final Fantasy VI: al teatro dell’Opera, i nostri eroi escogitano un piano per impadronirsi del dirigibile di Setzer, noto giocatore d’azzardo nonché unico detentore al mondo di una macchina volante, necessaria ai Ribelli per proseguire la lotta contro l’Impero. Siccome Setzer progetta di rapire la cantante d’opera Maria, di cui è invaghito, Celes, ex guerriera dell’esercito imperiale passata dalla parte della ribellione, prenderà il suo posto sul palco, sfruttando l’incredibile somiglianza tra le due donne. Facendosi rapire volontariamente, potrà prendere il controllo del dirigibile e metterlo a disposizione dei compagni. Non potrà però esimersi dall’esibirsi nell’opera “Maria e Draco”, in modo da ingannare Setzer. Studiato il libretto in tutta fretta, Celes calca il palcoscenico ed intona l’Aria di Mezzo Carattere, in una sequenza di musica e narrativa che ha segnato in modo indelebile la storia dei videogiochi.
Credo sia necessario, a 26 anni di distanza dalla prima pubblicazione del gioco su SNES, ricordare innanzitutto questo momento: è un episodio di intermezzo nel gameplay del gioco, uno stacco netto dalle consuete meccaniche di esplorazione e combattimento, in cui il giocatore è chiamato solo a godersi la messinscena dell’opera (una decina di minuti abbondanti) in modo quasi totalmente passivo – dico “quasi” perché tecnicamente lo si potrebbe considerare un minigioco in cui bisogna anticipare correttamente le battute del libretto che Celes dovrà cantare, pena la ripetizione della scena.
Si tratta, a livello di sviluppo, di uno sforzo di creazione di un’opera intertestuale. Tale sforzo si traduce, a livello musicale, in una suite di stampo operistico (un tour de force per il geniale compositore Nobuo Uematsu); a livello di scrittura, nella creazione di un intreccio narrativo (per quanto estremamente basilare) di secondo livello rispetto alla narrativa di gioco; a livello di design, nella composizione di un set di fondali e sprites animati che mimino l’esecuzione di una performance operistica su un palcoscenico. Insomma si tratta di qualcosa di totalmente inedito nel medium videoludico fino ad allora, che indubbiamente ha segnato l’immaginario di tutti coloro che lo hanno giocato e che non cessa a distanza di anni di essere ricordato con infiniti omaggi, variazioni, adattamenti (un bell’esempio qui sotto, con l’intero segmento narrativo estrapolato dal gioco, a formare quasi un’opera narrativa autonoma).
Era il 1994 e, sebbene su PC la scrittura e la narrativa dei videogiochi avesse già testimoniato un certa certa evoluzione in termini di sofisticazione ed approfondimento (basti pensare alla qualità delle avventure grafiche targate LucasArts, piene di umorismo e continue rotture della quarta parete, oppure alla serie Ultima, iniziata nel 1981, che offriva uno storyworld dal lore fittissimo ispirato ai GDR pen&paper come Dungeons & Dragons), il mercato console era ancora popolato di titoli estremamente basilari a livello di storia e personaggi, per lo più ancorati ad archetipi e canovacci propri di una semplicistica narrativa per bambini o ragazzi (netta divisione tra Bene e Male, buoni e cattivi), con spunti – magari relegati a qualche linea di testo in apertura di una nuova partita – che erano poco più che un pretesto per lanciarsi il più velocemente possibile nell’azione.
Certo, i GDR erano un’eccezione, e la serie Squaresoft aveva dato prova, di capitolo in capitolo, di voler osare dal punto di vista del plot, lavorando ad intrecci mano a mano più complessi, facenti capo a personaggi dalla psicologia sempre più approfondita e provvisti di backstories che fornissero loro motivazioni, sogni, speranze, caratteri. Alla fin fine, però, anche i Final Fantasy non si erano mai discostati troppo da alcuni snodi narrativi molto elementari, che bene o male facevano sempre capo all’esistenza di quattro cristalli, uno per ogni elemento costituente il pianeta (solitamente Acqua, Aria, Fuoco, Terra) e che ne racchiudono l’energia vitale; alla presenza di un malvagio che se ne vuole impossessare per i suoi piani di dominio del mondo; e alla comparsa di un gruppo di eroi profetizzato dalle leggende in grado di sgominare il villain e riportare ordine e pace sul pianeta.
Poi arrivò Final Fantasy VI, a dimostrazione che la narrativa dei GDR, e dei videogiochi in generale, poteva offrire molto di più.
Giocare il titolo a 26 anni dalla sua pubblicazione stupisce innanzitutto per la modernità del suo intreccio. Al posto che offrire un’esposizione lineare degli eventi, Final Fantasy VI inizia in medias res, in un cupa atmosfera da scoppio di guerra, con moderni eserciti di fanteria meccanizzata provenienti da una plumbea e rugginosa capitale imperiale che evoca scenari da apocalisse industriale. In poche parole uno shock per i fan, abituati alle atmosfere fantasy della saga influenzate dall’estetica del medioevo europeo.
La trama ruota in parte attorno al tema dell’utilizzo potenzialmente distruttivo della tecnologia, gettando un seme che germoglierà compiutamente in Final Fantasy VII. Ancor più di questo, però, Final Fantasy VI si interroga sull’opposizione tra Ragione e Follia, Ordine e Caos, e lo fa principalmente attraverso un titanico antagonista, Kefka Palazzo. Il generale imperiale, dapprima poco più che un irritante buffone ridanciano, peraltro agghindato da pagliaccio, si rivelerà un soggetto sempre più pericoloso ed incontrollabile, persino dallo stesso imperatore.
Senza fare troppi spoiler, basti dire che sarà lui l’antagonista principale della storia, e qui sta il punto forte del gioco: l’avversario principale non è semplicemente cattivo, bensì completamente pazzo e, in quanto tale, spietato e amorale. Kefka è irriducibile ad ogni tentativo di ammansimento o negoziazione. Mosso unicamente da un’irrefrenabile nichilismo, Kefka anela al potere solo per causare la distruzione assoluta, l’annientamento totale di tutto ciò che esiste. Ciò fa di lui uno dei villain più inquietanti e memorabili della storia del medium, e anticipa alcuni cattivi cinematografici universalmente conosciuti, come il Joker de Il Cavaliere Oscuro.
Lo sviluppo del plot – un’operazione collettiva che ha visto Hironobu Sakaguchi, creatore della serie qui in veste di produttore, ideare il concept; vari membri del team di sviluppo proporre idee e backstories per i numerosi personaggi giocabili; e infine uno dei due directors, Yoshinori Kitase, riunire tutto assieme e stendere l’intreccio vero e proprio – segue con coerenza questa premessa, dividendo nettamente il gioco in due parti: a circa metà gioco, infatti, Kefka trionfa, gli eroi sono sconfitti ed il mondo è devastato da una catastrofe dalla quale sembra impossibile che si riprenda. La vita scivola sull’orlo dell’estinzione, ed ogni speranza di salvezza pare scomparire.
Da qui il giocatore dovrà ripartire, ricostituendo pian piano il gruppo di eroi sparso per le terre di una world map completamente sconvolta (di fatto un mondo da riesplorare del tutto), prima di tentare una riscossa finale. Si tratta di una soluzione narrativa mai vista prima, dal forte effetto drammatico, che nessun capitolo successivo si è spinto a replicare neanche lontanamente.
Un altro aspetto incredibile del gioco, raramente eguagliato anche in futuro, è il numero di personaggi giocabili, ben 14, più qualche aiutante saltuario. In ambito RPG probabilmente solo la serie Suikoden è riuscita a fare di più. Una particolarità è che di questi 14, nessuno può dirsi protagonista esclusivo della storia: certamente alcuni spiccano più di altri in quanto ad approfondimento storico e caratteriale (Terra, Locke, Celes), ma l’intenzione degli sviluppatori, in buona parte riuscita, è stata quella di caratterizzare adeguatamente ciascuno di essi, dando la possibilità al giocatore di poter empatizzare più o meno con tutti.
Ci sono, come detto, dei limiti: un paio di personaggi sono totalmente opzionali, e per questo privi di qualunque approfondimento. Qualcun altro funge da comic relief o da macchietta senza pretese, ed anche alcuni dei principali non si esimono dal ricalcare qualche stereotipo (il tenebroso solitario, il cavaliere senza macchia, l’ingenua sognatrice…). Tuttavia molte quest secondarie ruotano attorno alla scoperta del passato dei nostri eroi, da cui emergono traumi e motivazioni che giustificano la loro indole e le loro azioni.
Ovviamente un roster così ampio si traduce in precise scelte di game design: ogni personaggio infatti ha un’abilità unica che lo distingue da tutti gli altri. Rispetto alle precedenti iterazioni del franchise non si parla più di job system, anche se di fatto ognuno ha la propria specialità: c’è chi è più portato per la magia e chi è un ladro di nome e di fatto, chi gode nativamente del dono dell’evocazione e chi è in grado di imparare le tecniche nemiche. Queste “specializzazioni naturali” dei personaggi da un lato non vietano una certa personalizzazione (ad esempio creare un mago guerriero o conferire doti da curatore ad un personaggio prettamente fisico), dall’altro consentono di mantenere una certa coerenza narrativa e obbligano il giocatore ad un approccio mediamente tattico nella gestione del singolo combattimento e nell’allestimento del party.
In Final Fantasy VI, infatti, il party si cambia spesso, forse più che in tutti i successivi capitoli della serie: motivi legati alla trama di gioco obbligheranno sovente il giocatore a suddividere i personaggi in più gruppi, destinati a prendere momentaneamente strade diverse per riunirsi in seguito. Pianificare le proprie mosse ed allenare tutti i personaggi si rivela quindi vitale per poter proseguire senza intoppi nell’avventura, che offre ancora oggi un ottimo livello di sfida dall’inizio alla fine.
Non avevo mai giocato Final Fantasy VI dall’inizio alla fine. Mi era capitato più volte di giocarne le prime ore, ma per un motivo o per l’altro l’avevo poi abbandonato. Siccome mi è sempre sembrata una lacuna inaccettabile (tanto più che è da molti considerato il miglior capitolo della serie), quest’anno ho deciso di rimediare. La cosa che mi ha subito conquistato è la cura che trasuda da ogni suo pixel: fin dalla scena di apertura, l’art design ricercato, la scrittura non scontata e l’indimenticabile colonna sonora inchiodano allo schermo.
Impossibile non percepire la passione del team di sviluppo che ci ha lavorato e non provare stima e riconoscenza per questi pionieri dell’arte videoludica, che in quegli anni cruciali a cavallo di due generazioni di console hanno gettato le basi del JGDR moderno e hanno contribuito in modo inequivocabile alla maturazione del medium. Sakaguchi-san, Kitase-san, Uematsu-san e tutti gli altri: arigatō gozaimasu!
Al termine della partita, ciò che mi è rimasto di più impresso è il senso di compiutezza: giocare Final Fantasy VI restituisce ancora oggi l’idea di aver portato a termine un’impresa, di aver fruito di un’opera a tutto tondo, similmente a ciò che capita quando si legge un classico della letteratura o si assiste alla proiezione di un film che ha segnato la storia del cinema. Si tratta senz’altro di uno dei videogiochi più antichi per il quale mi senta di dire “Ho vissuto l’esperienza di Final Fantasy VI”. E devo dire che è impressionante il fatto che tale esperienza si mantenga intatta ancora oggi, a 26 anni di distanza dalla sua pubblicazione, pur con tutte le limitazioni (e i piccoli difetti, che chiaramente non mancano, ma passano decisamente in secondo piano) di un gioco dell’epoca.
Si tratta di un gioco che ha segnato in modo indelebile il genere a cui appartiene, e che ha indubbiamente evoluto l’intero medium verso una produzione che non sia solo di intrattenimento ma anche artistica e culturale. Un videogioco dal pieno carattere insomma, la cui importanza come prodotto dell’industria culturale travalica i confini del settore di appartenenza, per radicarsi nell’immaginario di chiunque decida, anche ad un quarto di secolo di distanza, di viverne l’esperienza.
E per concludere, un invito ad indossare un paio di cuffie e a riprodurre il video sottostante: ogni commento è superfluo.
This post was published on 6 Settembre 2020 11:45
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