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Speciali

Videogame, giocatori over 30 e difficoltà: quando il tempo non basta

I videogiochi oggi sono ANCHE per bambini, sì, perché ormai l’età media dei giocatori si è alzata con tutte le conseguenze del caso. La diffusione del medium tra le varie fasce d’età porta con sé molti temi, tra cui l’eccessiva lunghezza di alcuni titoli e l’accessibilità, non riguardo a oggettive problematiche fisiche e cognitive, ma in termini di difficoltà di gioco.

Sempre più spesso nei videogiochi vengono aggiunte opzioni di accessibilità che rendono più semplice la vita ai giocatori meno “skillati”/con poco tempo/con disabilità, basti pensare alla varietà di impostazioni presente in The Last of Us: Parte II. Non è da meno Ghost of Tsushima, ma ancor più semplicemente, è sufficiente menzionare due parole: Modalità Storia.

In Death Stranding c’è, ad esempio, e Hideo Kojima commentò l’inserimento di questa modalità ‘molto facile’ affermando che era stata pensata per coloro che non avevano mai toccato un videogioco, ma interessati comunque alla storia di Sam Porter Bridges e alla portata cinematografica del titolo.

Già, perché quando si parla di accessibilità non ci si riferisce solo a chi ha degli handicap, ma anche, forse in minor parte, a chi il tempo per imparare perfettamente le meccaniche di gioco non ce l’ha o è impossibilitato a giocare tutti i giorni, dimenticando così anche i comandi base.

Parliamoci chiaro, un ragazzetto di 15 anni aveva e ha come problemi principali la necessità di fare i compiti e di non fare tardi alla partita di calcetto (sì, ok, la sto un po’ semplificando, ma avete capito il concetto). I compiti non possono essere snobbati, studiare è importante, ma la partita di calcetto o la serata in gelateria dopo essersi dati appuntamento davanti alle scale della scuola possono essere barattate con ore di gaming senza che ci siano ripercussioni, a parte gli improperi dei propri amici che il giorno dopo sono più che legittimati a fargli un cappottone.

Un videogiocatore over 30 non può barattare le ore di lavoro con un videogioco, pena il licenziamento e la conseguente impossibilità di mangiare (e, soprattutto, comprare altri videogiochi). Ecco dunque che l’aumento dell’età media diventa un fenomeno sociale molto più complesso di quanto si possa immaginare superficialmente.

Le software house stanno iniziando a capirlo e sono sempre più propense a venire incontro a coloro che, a prima vista, potrebbero sembrare degli scansafatiche, bambini viziati che vogliono la pappa pronta, ma che in realtà hanno bisogno di un momento di relax proprio perché scansafatiche non sono. E se non sono i videogiochi a regalare questo momento di relax, divenendo così sempre più inclusivi, cosa mai potrebbe farlo?

Un esempio che mi è passato davanti recentemente viene da Shadow Warrior 2, videogioco edito da Devolver Digital che fa della frenesia e del caos assoluto i suoi punti di forza. Il team di sviluppo ha inserito una modalità denominata Tiny Grasshopper che recita così: “Per chi non deve dimostrare niente a nessuno e a se stesso, perché tutti hanno diritto a un momento di sollievo dopo una giornata estenuante“.

Inclusività e accessibilità nei videogiochi non sono parametri aleatori da radical chic, devono essere un obiettivo da prefiggersi in modo da estendere il modello all’intera industria. Badate bene, nessuno vuole mettere sullo stesso piano il concetto di accessibilità per disabili e quello di accessibilità per persone che, semplicemente, non hanno tempo, ma se le cose andassero di pari passo sarebbe una vittoria per il medium che ha come traguardo quello di unire, di fare community, e non di allontanare gli uni dagli altri.

Navigando per forum e portali più o meno dubbi alla ricerca di novità, mi sono imbattuto in un post pubblicato su Reddit.

Questo giocatore, dall’età non precisata, ha chiesto se fosse presente una modalità storia in Mass Effect: Andromeda (sì, c’è) perché vuole solo godersi la trama e giocare in compagnia della moglie. Lo imprigioniamo? Gli togliamo la cittadinanza e lo facciamo vagare da apolide vestito solo di stracci? Non è il caso.

L’implementazione di parametri che consentono una fruizione casual non porta con sé l’annullamento della sfida perché quella è garantita sempre e comunque dai livelli di difficoltà più alti, tuttavia spesso avviene un fenomeno alquanto “strano”: se viene aggiunta una modalità più difficile attraverso una patch, nessuno protesta, se invece ad essere incorporata è una modalità più facile, chi vuole una sfida hardcore inizia a dare in escandescenze, nonostante non gli venga tolto nulla.

È pertanto nella stessa community di gamer che deve esserci un’unità di intenti, il fine ultimo di un videogame è divertire, il divertimento è uno stato d’animo in cui si percepisce più piacevolmente il tempo che passa e non può essere avvertito in egual maniera da tutti.

La necessità di creare un microcosmo adatto a tutte le età è proprio di qualsiasi contesto culturale, pertanto anche i videogiochi, in quanto realtà artistica e massmediale maturata tantissimo in questi ultimi anni, devono muoversi in tal senso, e lo stanno facendo benissimo, consentendo un’amalgama generazionale che possa portare alla fusione di due realtà che prima sembravano distanti nell’universo dei videogame, quella dei ragazzi in età scolare e quella dei genitori.


Leggi anche: Il retrogaming impossibile.

This post was published on 29 Luglio 2020 15:23

Michele Longobardi

Laureato in Lettere moderne, scopro la passione per il giornalismo quasi per caso. I videogiochi sono il mio più grande amore e così decido di coniugare le due cose. Il giornalismo videoludico diventa la mia forma finale. Per me i videogiochi sono una forma d'arte e guai a dirmi il contrario. Appassionato di tutto ciò da cui sgorga sangue: cinema horror (registi preferiti Argento e Romero), letteratura gialla e dell'orrore (autori preferiti Christie, Poe e Lovecraft) e ovviamente i videogiochi del genere (Silent Hill e Resident Evil sopra ogni cosa). Il mio videogioco preferito di sempre è Fahrenheit che ho finito un numero non precisato di volte, da lì scaturisce la mia ammirazione per tutti i lavori di David Cage. La mia "carriera" videoludica è segnata da un marchio da cui non sono mai riuscito a staccarmi: PlayStation! In circa 20 anni di gaming, ho completato più di 800 titoli.

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