Gangster e videogiochi sono due parole che fanno scintille quando accoppiate: ciclicamente, spesso a causa dell’uscita di un nuovo titolo incentrato su gangster, sparatorie e malavita organizzata ecco arrivare proteste da parte di alcune categorie (politici, sociologi e analisti, per lo più) che innescano veri e propri vortici mediatici.
L’ultimo è degli scorsi giorni, quando un esponente della commissione parlamentare antimafia, il Dem Miceli, ha attaccato il gioco mobile MafiaCity con l’accusa di essere uno strumento di propaganda malavitosa. Un caso di cui abbiamo parlato in questa lettera aperta al deputato, ma che sembra destinato a sollevare dubbi anche in futuro (del resto Mafia: The Definitive Edition è dietro l’angolo).
Ci sembra quindi il momento giusto per analizzare la questione della rappresentazione della malavita nel videogioco, tentando di ragionare sul perché condannare il “crime game” non è solo inutile o dannoso, ma anche frutto di clamorose difficoltà di analisi.
Il rapporto fra fiction e genere crime è sempre stato problematico, a partire dai primi esempi di letteratura popolare e fumetto di questa categoria per arrivare al videogioco passando per il cinema e la televisione. A essere messa sotto accusa è sempre la mitizzazione del criminale, la sua positivizzazione, la volontà degli autori di costruire un’empatia con un un personaggio che si macchia di cose orribili, un’accusa che riguarda soprattutto il videogioco, medium “immersivo” per eccellenza.
Le principali critiche di questo tipo sono state quelle a Grand Theft Auto, senza dubbio una delle serie di questo genere più estreme, brutali e anticonformiste rispetto ad altre come Yakuza o Mafia.
Laddove GTA è anticonformista, brutale e abbastanza fuori di testa, Mafia reinterpreta le dinamiche del mafia movie nella sua dimensione più classica, epica e tragica, mentre Yakuza si inserisce nella tradizione dei film di arti marziali a sfondo malavitoso.
Tre modi molto diversi di intendere il genere, ma che focalizzano comunque l’attenzione su un ambiente malavitoso caratterizzato da malaffare, violenza e ambiguità morale, facendo di gang e famiglie malavitose protagonisti.
Ed è a proprio per questo motivo che i novelli censori partono all’attacco, spesso prendendo straordinari abbagli a causa di un grave errore di analisi.
Quel che molti commentatori non fanno è porsi una domanda: “Siamo sicuri che un gioco come GTA V sia una simulazione di crimine organizzato?”
Mi spiego un po’ meglio.
Spesso il fatto che il gameplay di questi giochi preveda di andare in giro per una città gestendo varie attività criminali primarie e secondarie in un’ottica di profonda immersività viene visto come un invito a immergersi totalmente nei panni di un criminale e di identificarsi in lui.
Ciò in parte corrisponde alla verità. Di fatto la nostra esperienza di gioco si sviluppa in un ecosistema di gioco talmente complesso e ricco di opzioni da portarci a pensare di vivere una vita alternativa. Quel però a molti non è chiaro è che non si tratta della simulazione di un contesto di vita, ma della simulazione di un immaginario collettivo ereditato dal cinema gangster, fra i pilastri fondamentali dell’intrattenimento stelle-e-strisce o asiatico.
Qualche esempio. Quando gioco nei panni di Trevor o Michael sto giocando a un titolo che presenta un tono sospeso fra il classico registro assurdo di GTA e un film di rapina di Michael Mann (Heat-La Sfida), quando gioco Mafia mi ritrovo all’improvviso ne Il Padrino di Francis Ford Coppola, quando sono in Yakuza è come se avessi di fronte un Takeshi Kitano d’annata.
Tutte grandi narrazioni cinematografiche sul crimine che si compongono di contenuti sull’uomo e i suoi lati oscuri, sulla società, sugli equilibri di potere e persino sulla città come elemento essenziale del nostro mondo, che i programmatori hanno voluto portare al massimo del loro potenziale narrativo attraverso immensi open-world esplorabili e ricchi di storie.
Guidando un gangster a spasso per la città, il giocatore gioca a imitare il sicario del Bronx o Al Capone, ma ad omaggiare parte del grande cinema del ‘900, in un grande atto d’amore verso alcuni capolavori.
E’ francamente inquietante, ma il concetto espresso sopra-una banalità narratologica che ha a che vedere con elementi quali genere, topos e immaginari collettivi-sembra non arrivare mai a gran parte della stampa non specializzata quando parla di videogiochi.
Le scusanti ci sono, in Italia soprattutto. In un Paese nel quale il crimine organizzato è una piaga nazionale (e non solo nel Sud), è comprensibile che parte dell’opinione pubblica senta il problema della rappresentazione della mafia come vivo, ma se questo porta alla costante confusione fra fiction e realtà da parte dei commentatori e alla mancata presa di coscienza che il videogioco è strumento di storytelling allora significa che abbiamo una grande non volontà di affrontare analiticamente un intero settore dell’industria dell’intrattenimento.
Significa ignorare le sue potenzialità narrative, sottovalutare il suo rapporto con l’audience, evitare di porsi domande su ciò che un videogioco può essere e sul suo ruolo nella società.
E questo, nell’età del digitale, è un grosso problema.
This post was published on 31 Luglio 2020 17:06
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