Sin dal giorno in cui Oculus si è mostrato per la prima volta nel lontano 2012, il mondo dei videogiocatori si è diviso in due fazioni diametralmente opposte sulla realtà virtuale: da un lato chi la considerava un giocattolo, una moda passeggera che non avrebbe mai sfondato; dall’altro invece c’era chi dopo tanti anni di sogni vedeva finalmente avverarsi quel futuro fantascientifico che sognava sin dalla fine degli anni ’80.
Nonostante la maggior parte delle aziende hi-tech abbiano sviluppato una qualche forma di VR, in questi anni nessuno era ancora riuscito a spostare l’ago della bilancia da un lato o dall’altro. Poi una bella mattina di primavera Valve si è svegliata, ha sorriso, ed ha deciso di tirar fuori un nuovo Half-Life, in esclusiva VR.
Apriti cielo.
L’intero mondo videoludico ha tremato per giorni dopo l’intervista-annuncio di Geoff Keighley, e con la solita pochezza e mancanza d’informazione tipica di questa generazione di giocatori (e giornalisti), chiunque si è sentito obbligato ad avere una opinione, ancora prima che il gioco venisse anche solo mostrato.
Chi sosteneva la VR si è ritrovato in mano l’equivalente digitale del +4 ad Uno, quella killer app che avrebbe dovuto finalmente consacrarla a nuovo media mainstream, mentre chi sosteneva che la VR non sarebbe mai andata da nessuna parte ha scrollato le spalle, si è seduto sulla riva del fiume, ed ha aspettato che i numeri certificassero il fallimento dell’ennesimo prodotto.
A distanza di mesi dal rilascio di Alyx, con le polveri che si sono finalmente depositate, abbiamo voluto sederci al tavolino per tirare le righe non solo di quello che è successo dall’annuncio ad oggi, ma dell’evoluzione del VR a 360°, sin dalla sua rinascita contemporanea.
Volevamo inizialmente parlare solo del titolo di Valve, ma ci siamo resi conto che il discorso è troppo complesso per ridurre Half-Life ad ago della bilancia.
Abbiamo dunque deciso di prendere la palla al balzo e scrivere un lungo approfondimento sulla realtà virtuale, partendo con un capitolo sulla sua storia, continuando con due capitoli che prendono in considerazioni sia le tesi di chi la supporta sia di chi la bistratta, un capitolo sui numeri, ed un ultimo capitolo che riassume quella che è la mia visione personale.
Vorrei sottolineare sin da subito che parleremo di realtà virtuale con accezione moderna, quindi dei classici Head Mounted Display (HMD), anche se faremo qualche riferimento a sistemi diversi come i CAVE o i video a 360 gradi. Esistono svariate definizioni più o meno inclusive di VR, per questo ho preferito restringere il campo ad un tipo specifico di hardware, perché altrimenti la serie avrebbe dovuta essere tanto, tantissimo, più lunga.
Vi voglio mettere in guardia sin da subito, questa sarà una serie bella lunga, con fonti, numeri, grafici e link ad approfondimenti esterni, tra cui alcuni paper scientifici in inglese.
Nelle prossime puntate parleremo non solo di tecnologia ma anche di psicologia, vedremo quali tratti della natura umana la VR coinvolge e perché possono essere sia un bene che un male. Giuro di aver fatto il possibile per renderla leggibile e comprensibile, ma c’è un limite sotto cui non si può scendere per avere una serie esaustiva. Spero vivamente che sia bastato.
Negli articoli che ho scritto finora ho sempre lasciato fuori quello che sono “io”, ma vista la lunga serie di cose che dovranno essere discusse, credo che sia giusto che mi metta in discussione, e introduca il mio background. Se non vi interessa sapere chi sono e a quale titolo vi parlo di VR, sentitevi liberi di saltare le prossime righe e andare al prossimo capitolo.
Dopo essermi laureato triennale in Informatica Umanistica (vi prego, non chiedetemi cosa sia, ho il rigetto), nei due anni di magistrale ho iniziato a studiare a livello accademico gli ambienti virtuali, partecipando a vari progetti legati al patrimonio culturale digitale (eHeritage, MuraVagando), per poi laurearmi con una tesi sulla semplificazione dei motori 3D per la pianificazione di eventi e mostre in VR.
Tralasciando l’insuccesso della tesi in termini sociologici (gli umanisti proprio non ce la fanno con la tecnologia, chi lo avrebbe mai detto!), dal 2017 sono dottorando in Emerging Digital Technologies, curriculum di robotica percettiva, alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Nell’arco degli ultimi tre anni mi sono occupato di interazione uomo macchina in ambienti immersivi, studiando come le persone reagiscono con la VR, come reagiscono agli altri esseri umani in VR, e infine, come migliorare il design dell’aptica per diventare finalmente qualcosa al passo coi tempi.
Ho anche partecipato a vari eventi, sia come speaker che come audience, tra cui la Develop:Brighton e lo Unite:Berlin. Ho fatto da assistente per il corso magistrale in Ambienti Virtuali all’Università di Pisa, e ho lavorato full time per un anno alla Breda University of Applied Sciences su progetti legati all’inclusività di genere e di razza, oltre che a varie altre cose (tra cui questo fantastico progetto sulla generazione procedurale d’idee).
A tutto questo malloppo si aggiungono due Erasmus (Londra e Taipei) e vari lavori da freelance e corsi sul 3D che ho tenuto. Però ve lo giuro, di persona sono molto più simpatico di quanto non sembri!
Innanzitutto, non sarà una guida per acquistare il vostro visore.
Ci sono già decine di articoli sparsi per il web che vengono aggiornati giornalmente con tutti dettagli, le schede tecniche, i costi divisi per nazione, e le recensioni. Noi trattiamo raramente di hardware, e non abbiamo le risorse per valutare tutti i caschetti o confrontarli in prima persona.
Non sarà neanche una guida agli acquisti per i giochi.
Certo, molti giochi tra cui quelli più famosi veranno nominati, ma saremo più interessati all’aspetto economico o tecnico che a quello ludico. Guarderemo al loro design, a cosa comporta una esperienza di un certo tipo piuttosto che di un altro, e guarderemo quanto certi titoli hanno venduto, ma per le recensioni, vi rimanderò direttamente a quelle che abbiamo pubblicato in passato.
Okay, direi che le necessarie premesse sono state fatte.
Se siete arrivati fin qui, vuol dire che avete una forte curiosità e siete ansiosi di partire per un lungo viaggio in questa nuova tecnologia. Bene, possiamo cominciare.
Prima di arrivare al nocciolo della questione, penso che sia importante fare un breve viaggio indietro nel tempo, capendo come è nata la realtà virtuale e come si è arrivati alla sua commercializzazione contemporanea.
Partiamo col dire che una vera e propria storiografia della realtà virtuale ancora non esiste, o meglio, non ne esiste una condivisa. Ogni libro pubblicato sulla realtà virtuale da una infarinatura generica, ma senza davvero proporre una linea di demarcazione netta.
Personalmente, mi piace dividere la realtà virtuale in tre fasi distinte: la genesi, l’epoca buia, e l’età contemporanea.
Queste tre epoche, per me, riassumono perfettamente la storia della realtà virtuale, che viene prima esplorata in ambiente accademico, fallisce, viene ripresa anni dopo in contesti estremamente settoriali e con nessuna intenzione di diventare una tecnologia di massa, e che una mattina grazie al genio individuale diventa invece un fenomeno mondiale. Esistono delle aree di passaggio, e queste epoche, come ogni periodo storico, possono essere divise ulteriormente, ma non vorrei annoiarvi troppo con dettagli e discussioni. Vediamo i punti salienti di ognuna di esse.
La nascita della realtà virtuale viene solitamente associata con l’invenzione di Sensorama da parte di Morton Heilig, un regista cinematografico con la passione per gli effetti speciali, tra il 1957 ed il 1962.
Sensorama è stata una piattaforma multimodale, in cui l’utente poteva sedersi e vedere, tramite due enormi schermi, un mondo 3D stereoscopico estremamente rudimentale. La piattaforma aveva anche una base semimovente, audio spazializzato, e persino un simulatore di odori. Purtroppo nessuno investì su un progetto così utopistico, anche perché di base Heilig non riuscì mai a costruire un prodotto davvero soddisfacente in termini di video e audio 3D, e Sensorama venne presto dimenticato.
Sempre intorno al 1960, Heilig propose un altro dispositivo, il Telesphere Mask, che come potete vedere dall’immagine qui sotto, ricorda davvero davvero tanto i visori contemporanei. Telesphere però a differenza dei visori moderni, non era in grado di tracciare il movimento della testa, cosa che riusciva invece a Headsight, un visore sviluppato dall’esercito americano per il controllo remoto (e quindi, tecnicamente, non realtà virtuale).
Tra tutti gli HMD, quello che può essere considerato il primo vero esperimento riuscito, e quindi il padre di quelli moderni, è “La Spada di Damocle“, un visore di realtà aumentata in cui semplici figure geometriche venivano rotate sulle lenti in base al movimento dell’utente. Tanto pioneristico quanto difficile da gestire, visto che a causa del suo peso l’HMD doveva essere tenuto attaccato al soffitto con cavi d’acciaio. Un fantastico proof-of-concept, che non è mai uscito dal laboratorio del MiT dove è stato sviluppato.
Mi piace chiamare questo periodo epoca buia, perché ricalca quella che nell’immaginario collettivo è l’idea del medioevo, un secolo di ignoranza e caos, ma che in realtà ricco di una voglia di scoprirsi e migliorarsi che ha di fatto portato alla nascita della civiltà moderna. In questo periodo l’innovazione nell’ambito VR è stata forte e continua, con numerosi tentativi da parte di varie industrie per uscire dal laboratorio e arrivare nelle case, senza però ottenere un vero successo. Gli unici dispositivi VR venivano utilizzati in ambito industriale/militare, costavano migliaia di dollari, e fondamentalmente erano nascosti al pubblico.
Uno dei successi più interessanti è il VITAL, un casco per simulazioni realizzato dalla McDonnell-Douglas, una delle più grandi compagnie aeree militari del secolo scorso.
La vera pietra miliare di questo periodo è però poggiata sull’inizio del 1984, anno in cui Jaron Lanier, uno dei padri della VR, fondò “VPL Research”, una compagnia che studiava il mezzo e vendeva dispositivi hardware VR adattabili a varie funzioni. Purtroppo anche questa soluzione fu un buco nell’acqua, e brevetti innovativi come il DataGlove, la DataSuit o l’EyePhone (già! Non è una invenzione di Futurama) vennero acquistati dalla Sun Microsystems, che non ne fece nulla a livello di mercato customer.
Il secondo salto in avanti di questo periodo avvenne ad inizio anni 90, con compagnie di noto successo come Atari (ridete ora, ma nel 1990 era davvero di successo) che investirono milioni nello sviluppo e nella commercializzazione di headset per le proprie console.
Ma non furono solo gli headset a dare un boost a questa tecnologia: parallelamente, una nuova tecnologia chiamata CAVE venne sviluppata in molti centri del mondo. Tramite questa tecnologia, e all’utilizzo di occhialini opportunamente sincronizzati, era possibile vedere in 3D le immagini proiettate su alcuni schermi, un po’ come avviene per il “cinema 3D” ai giorni nostri.
Purtroppo nessuna entità commerciale riuscì mai a produrre un caschetto tanto economico quanto piacevole da utilizzare, le tecnologie erano ancora troppo acerbe, e la VR venne chiusa in un cassetto, aperto solo da chi era pronto ad investirci decine di migliaia di euro per una singola esperienza… Sad music only.
Per quasi vent’anni la VR è rimasta in un cassetto. O meglio, è rimasta nascosta tra università e industrie; studiata, utilizzata, fatta evolvere, ma sempre in ombra. Il grande passo in avanti è avvenuto quasi 20 anni dopo gli ultimi tentativi di commercializzazione, all’inizio del 2010, quando il buon Palmer Luckey, creò un prototipo di caschetto capace di ruotare su se stesso e con 90° di field of view, partendo dai resti di un altro headset commerciale.
Due anni dopo, grazie anche ad una delle campagne di Kickstarter più famose della storia, il primo prototipo di Oculus, denominato DK1 (Development Kit) vide la luce. Per quanto questo prototipo (ed il successivo, il DK2) fossero ancora ben lontani da essere un prodotto per il mercato consumatori – visto che non avevano un buon tracking e non avevano controller integrati – riuscì comunque a dimostrare che la tecnologia era pronta e che era possibile costruire dei caschetti ad un prezzo ragionevole.
Di tutte le compagnie che iniziarono a mettere gli occhi sul VR, Facebook fù la più scaltra, acquistando Oculus per una cifra di circa tre miliardi di Euro.
Quell’evento segna l’inizio della fase di transizione, quella che va dal 2012, anno di inizio kickstarter, al 2016, anno in cui i visori di Oculus e HTC videro la luce. Da qui in poi possiamo parlare di età contemporanea, con giochi dedicati, un mercato aperto, e una tecnologia (più o meno) stabile. Insomma, il mondo della VR come è adesso.
La differenza più grande tra l’epoca precedente e quella moderna non è tanto la parte tecnologica, quanto la prospettiva futura.
Prima solo poche aziende avevano il coraggio di dedicarsi alla realtà virtuale, mentre oggi qualsiasi azienda abbia un reparto legato al 3D anche solo di sbieco ha un piano per sviluppare, supportare o anche solo integrare qualche forma di realtà virtuale. Sony, Valve, Facebook, Google, tutti grandi nomi che hanno investito miliardi in una corsa al nuovo media, rilasciando prodotti che variano per prezzo, specifiche, qualità, e design. Anche chi crea software offre un supporto praticamente totale del mezzo, con i due grandi game engine – Unity e Unreal – che supportano nativamente e in maniera semplicissima, la creazione di qualsiasi esperienza in VR.
Quando penso al perché la VR sia uno strumento con un potenziale enorme, mi viene in mente sempre lo stesso aneddoto: stavamo sviluppando una esperienza di pochi minuti in cui si prendevano degli strumenti da una scatola, si compievano delle azioni come svitare o misurare la tensione, e poi si rimettevano a posto gli strumenti nella scatola.
Durante uno dei test, quando il soggetto – persona con oltre 20 anni di esperienza con la VR – ha dovuto rimettere a posto gli strumenti. Invece di cliccare il pulsante per rilaciarli sul controller, ha aperto la mano, il gesto più naturale per chi ha degli strumenti tra le dita, facendoli cadere.
All’epoca commentò: “inutile, dopo 20 anni, mi bastano ancora cinque minuti per non capirci più niente”. Ecco, questo è l’effetto che fa la realtà virtuale, a prescindere da quanto ci si è abituati.
Questo espediente mi serve per introdurre un concetto fondamentale, quello di presenza. Si tende spesso ad etichettare la realtà virtuale come “immersiva”, ma immersività e presenza sono due concetti separati. Questa differenziazione risale a questo articolo del 1999 scritto da Mel Slater, uno dei padri della psicologia legata agli ambienti virtuali.
Semplificando un poco, l’immersività viene definita come una misurazione oggettiva, qualcosa di quantificabile in relazione a dei parametri che vengono forniti, mentre la presenza è una sensazione soggettiva, misurabile solo tramite le risposte del soggetto (altro articolo qui).
Si può dire che un Valve Index sia più immersivo di un Google Cardboard, ma non si può dire che generi sempre più presenza. Una app coinvolgente per cardboard potrebbe avere più presenza di una schifezza per Oculus, per intenderci. A prescindere dall’immersività dell’aneddoto sopra citato, visti i risultati, l’esperienza presentava un livello di presenza altissimo.
Questa premessa aiuta non solo a migliorare la terminologia, ma ci aiuta a spiegare l’effetto che la VR ha sull’uomo, soprattutto quando si hanno alti livelli di immersività e presenza (argomento che avevamo trattato già in questo articolo sull’utilizzo della VR con le mucche!).
L’efficacia della realtà virtuale nel generare un forte senso di presenza è stata dimostrata varie volte, e negli ultimi anni diversi studi comparativi hanno provato (empiricamente) che le stesse azioni compiute in VR sono memorizzate più facilmente dall’utente rispetto alla stessa esperienza svolta al desktop (qui la fonte).
Insomma, sapevamo che il cervello umano tende a percepire gli ambienti virtuali come reali, ed ora sappiamo anche che questo fenomeno è persino più marcato in ambienti immersivi.
Questo punto è particolarmente significativo non solo perché implica che la realtà virtuale può essere utilizzata come strumento sostitutivo in una serie infinita di circostanze, ma perché ciò potrebbe indicare che anche le interazioni con altri agenti all’interno di ambienti virtuali possono venir percepite come reali. Di questo argomento mi sono dedicato personalmente qualche mese fa in questo articolo, lavorando sulla categorizzazione dei cosiddetti “Virtual Humans” in ambienti immersivi.
Studiando le fonti, è venuto fuori che la presenza di esseri umani non è un elemento di contorno, ma che risulta fondamentale per creare ambienti coerenti che vengano percepiti come reali e dinamici.
Ogni ambiente è popolato da esseri umani qui sulla terra, e quando mancano, il nostro cervello ci segnala una incongruenza. Ma c’è di più: non solo il nostro cervello li richiede, ma li percepisce anche come reali, e ci porta ad interagire con loro come se stessimo interagendo con persone vere.
Un altro fattore a favore della realtà virtuale è che non è solamente uno strumento ludico, ma ha dimostrato di essere efficace in moltissimi tipi di terapie, dalla riabolitazione al trattamento delle fobie (Qui e qui per curare la fobia dei ragni, qui per curare la claustrofobia, qui per la paura di parlare in pubblico, e si potrebbe continuare a lungo).
Per quanto si consigli sempre la supervisione di un medico nel processo di trattamento, non è difficile ipotizzare in un prossimo futuro degli strumenti personalizzati tramite cui le persone possano compiere delle terapie mirate per il superamento di determinate fobie, direttamente dal divano di casa.
Come si può intuire vedendo gli anni di pubblicazione delle fonti sopra citate, la maggior parte degli esperimenti è avvenuta in era “pre-moderna”, o meglio, prima della nascita di Oculus nel 2012.
I visori di nuova generazione non hanno fatto altro che rendere questa tecnologia accessibile, economicamente e tecnicamente, in tutto il mondo.
Paradossalmente, nonostante sia quello più importante per il mercato, l’aspetto ludico è solo una evoluzione di una tecnologia che nei laboratori non ha mai smesso di essere studiata e utilizzata. Quello ludico è però un aspetto imprescindibile se si vuole credere che la realtà virtuale possa un giorno avere la stessa diffusione dello smartphone o del computer.
È difficile immaginare questa sezione, tra tutte, come la più recente, eppure è così. La realtà virtuale è entrata nel mondo dei videogiochi solo dal 2016, quattro anni fa, e nonostante il poco tempo trascorso ha già dimostrato di essere economicamente sostenibile, soprattutto per gli sviluppatori.
Come vedremo in maniera più approfondita nella sezione sui numeri, ben oltre 20 giochi hanno superato il milione di dollari di guadagno, un mercato fertile visto che chi possiede la VR vuole evidentemente comprare giochi nuovi. Nel mercato AAA quattro anni non sono abbastanza per sviluppare un gioco, figuriamoci in un mercato emergente, con pochi strumenti, e con rischi enormi, ed i primi grandi nomi solo ora stanno facendo capolino tra le nostre recensioni.
Il fatto che così tanti giochi siano stati ben recepiti è fantastico, perché incoraggerà gli sviluppatori a produrre sempre più giochi. La speranza è che tutto ciò possa tradursi in una spirale virtuosa che dia sempre più risalto a giochi dedicati.
Un ultimo punto a favore, anche se più in prospettiva che guardando allo stato attuale delle cose, arriva dagli eSport e dall’ambito simulativo. Molti sport, tra cui la Formula 1, hanno dato vita ad un campionato virtuale durante la pandemia, facendo correre piloti reali, guest, e professionisti degli e-sport. Tra i vari partecipanti ai gp virtuali c’era anche Jimmy Broadbent, di professione YouTuber, e pensate un pò, appassionato di VR. Quotandolo – prendendo le parole di praticamente ogni suo video – “wow, nulla da l’impressione di guidare davvero come in VR”.
Se vi avvicinate ad un qualsiasi forum o gruppo sul sim-racing, e chiedete che tipo di visualizzazione sia migliore, la risposta sarà sempre e comunque VR, anche meglio dei canonici 3 schermi. Il sim-racing è una nicchia, certo, ma è un settore in cui la VR sicuramente sta facendo numeri importanti, e si può pensare che l’uscita del nuovo Microsoft Simulator, con la VR che dovrebbe essere implementata poco dopo l’uscita, vedrà molti appassionati infilarsi in testa un caschetto.
Purtroppo anche per la VR vale quel detto per cui se qualcosa è troppo bello per essere vero, probabilmente non lo è (o non lo è del tutto).
Nonostante gli innegabili risvolti positivi, ci sono molti motivi per cui bisognerebbe andar cauti con la realtà virtuale, sia per il suo utilizzo attuale che per la prospettiva futura. Alcune di queste le avrete già sentite, in quanto vengono tirate fuori a più riprese durante ogni discussione sulla VR; altre invece sono di natura più tecnica e non fanno abbastanza notizia per finire sulle prime pagine dei giornali. Restano tutte problematiche importanti, e vanno capite per capire come la VR si potrà evolvere in futuro.
Quello che forse più di tutti viene nominato, e che avevamo già trattato in questo speciale dedicato, è il motion sickness, ovvero “quella sensazione di disorientamento o nausea che può colpire un soggetto durante o nelle fasi immediatamente successive all’utilizzo di un Head Mounted Display”.
Come avevamo già discusso, la motion sickness non ha una causa unica ma può derivare da un insieme di fattori. Quelli che influenzano principalmente l’esperienza possono essere:
Insomma, se siete di quelli che ogni tanto hanno un giramento di testa o che si sentono solo spaesati all’inizio, ci sono buone possibilità che riusciate ad adattarvi, altrimenti avete un problema. E per l’amor del cielo, non iniziate subito con le montagne russe.
Un secondo fattore che contribuisce a mettere la VR in cattiva luce è legato alla motivazione di chi lo acquista. In realtà questo è un discorso generico che affligge ogni tecnologia emergente, ma per la VR sembra essere molto più accentuato. Secondo la psicologia, esistono due tipi di motivazioni: intrinseche ed estrinseche.
Quando si segue una motivazione intrinseca, l’azione che vogliamo compiere è basata su un bisogno interno, qualcosa che viene da noi. Quando si segue una motivazione estrinseca invece, l’azione che andiamo a compiere, o l’oggetto del nostro desiderio, è generato da un elemento esterno.
Facciamo un esempio con due app per smartphone che ben conoscete: Runtastic e Pokemon Go. Entrambe richiedono di svolgere una attività motoria per il loro funzionamento base. La differenza però è che Runtastic è un qualcosa che viene scaricato dietro una forte motivazione intrinseca, in quanto deriva dalla voglia di migliorare le proprie prestazioni, Pokemon Go invece viene scaricato in quanto parte di un brand conosciuto che fa leva sui sentimenti e sui ricordi.
Risultato? Runtastic è cresciuta nel tempo, con gli utenti attivi che salivano giorno dopo giorno (fonte), mentre Pokemon Go, dopo il botto iniziale, è andato calando (fonte). Questo problema si è presentato anche con la VR: molte persone hanno acquistato un headset seguendo l’onda, ritrovandosi per un prodotto che non le interessava, finendo per mettere l’headset su ebay due ore dopo.
Un problema che coinvolge la scienza ma che sembra non toccare minimamente ne i produttori di visori ne il pubblico è l’effetto che l’utilizzo prolungato della realtà virtuale può avere sull’uomo.
Abbiamo già visto come la VR sia in grado di “parlare” col corpo umano dando l’impressione di essere reale, e ciò è molto bello quando si hanno nobili scopi come il training o la riabilitazione. Ma quando si ha a che fare con prodotti di intrattenimento, qual è il limite che ci si deve porre? So che può sembrare un problema più filosofico che pratico, ma non è affatto così.
Facciamo un esempio pratico: uno dei giochi più venduti al mondo è SuperHot VR, un gioco in cui per far scorrere il tempo ci si deve fisicamente muovere. Se si sta fermi, il mondo è fermo, se ci muoviamo, il gioco si muove. Divertente, vero? Si, ma.
Cosa succede al corpo, dopo che per ore si è giocato ad un gioco in cui la fisica non segue le regole della fisica reale? Purtroppo, a causa della natura sperimentale del mezzo e delle possibili conseguenze, trovare una commissione etica che abbia il coraggio di approvare studi di questo tipo è praticamente impossibile.
Se si riuscisse a dimostrare che l’utilizzo prolungato nel tempo di certe applicazione può provocare danni ai riflessi delle persone si rischierebbe una causa legale ai danni di chi lo studio lo ha organizzato, e non c’è contratto che tenga.
E’ per questo motivo che i produttori di VR hanno stabilito un minimo di 13 anni per l’utilizzo dei caschetti, voglio evitare che eventuali problemi motori che insorgono intorno ai 10-12 anni possano essere ricondotti ad un utilizzo precoce della VR. Se c’è qualcosa che potrebbe essere la pietra tombale per la tecnologia, è proprio questa.
Stiamo straparlando?
Possibile, ma senza studi a riguardo, il dubbio deve rimanere.
Rimanendo sui problemi fisici, la VR è tristemente nota anche a causa del disorientamento che crea. Capita anche ai migliori infatti, di venir trasportati durante una esperienza, finendo per non sapere più dove ci si trova nella stanza, e verso quale lato si è rivolti.
Esistono sistemi di sicurezza che danno una idea vaga all’utente di dove si trova, mostrando un reticolo configurato dall’utente stesso, ma non è abbastanza. Se vi può sembrare un problema di poco conto, qualcosa di divertente persino, dovreste leggere il caso di questo signore, che tre anni fa è deceduto dopo essere inciampato su un tavolino di vetro mentre era in VR.
Arriviamo a quello che è forse il punto che più ricorre tra i detrattori della VR: il costo. Ho fatto un piccolo sondaggio su una pagina Facebook di videogiocatori qualche tempo fa, chiedendo a chi proprio non sopporta la VR quale fosse il motivo, ed il costo troppo elevato è stato il risultato più frequente.
Tralasciando i visori di infima fascia, il costo minimo di ingresso per il mondo della VR di qualità è di almeno 450 euro, che si voglia utilizzare un Oculus Rift S (che quindi necessita di un PC) o un Oculus Quest (versione standalone che non necessita di cavi ma che ha una risoluzione inferiore).
Guardando in casa Vive i prezzi salgono molto, con il kit base non più disponibile, il Cosmos a 1029 euro, ed il pro addirittura a 1219. A tutto ciò, tranne che per il quest, va aggiunto un PC di fascia medio-alta, dal prezzo difficilmente inferiore a 7-800 euro se assemblato.
Finora abbiamo analizzato due schieramenti contrapposti, entrambi con una solida base logica e scientifica per le loro argomentazioni. Ciò che non abbiamo ancora visto sono i numeri, o meglio, i dati di vendita e distribuzione della realtà virtuale.
Per capire se sia è un successo o meno, serve capire cosa dice il mercato a tal proposito: se non vendi, essere innovativi non serve.
Vi anticipo già che non è stato un lavoro semplice mettere insieme questi numeri: al netto di Sony, da sempre molto trasparente sui risultati di PSVR, il resto dei concorrenti è stato vago sin dall’inizio, offrendo cifre complessive e vagamente indicative per i guadagni di software e hardware. Nonostante ciò, molte testate hanno cercato di elaborare i dati per ricavarne numeri più specifici, fornendoci un punto di partenza per la nostra ricerca.
IMPORTANTE: i dati del Q1 2020 sono poco indicativi: ogni anno segna sempre un calo nelle vendite di prodotti tecnologici che vengono acquistati nel periodo natalizio come regali, e le scorte sono adeguate al trend (quindi bassi stock di prodotto, praticamente le eccedenze natalizie).
In periodo di COVID la domanda è salita alle stelle, con utenti da tutto il mondo che si sono ritrovati a cercare uno svago per la routine casalinga. Di conseguenza, come per altri prodotti, il risultato è stato un sold-out mondiale e un falsamento delle stime di questo periodo, con domanda altissima ma vendite nella media.
Iniziamo dalla distribuzione e dalla vendita dei principali headset nel corso degli ultimi anni. L’unico risultato di cui si può essere certi è quello di PSVR, che ha annunciato di aver superato i cinque milioni di device venduti, con una crescita praticamente costante da Gennaio 2017 (come mostra il grafico di RoadToVR), anche se in calo nell’ultimo anno a causa della concorrenza del Quest e all’incertezza riguardante la prossima generazione (si vociferava di un PSVR 2 in bundle insieme a PS5).
Parlando proprio del Quest, secondo questo articolo di Quartz, basato a sua volta su una analisi di Nielens’s SuperData, nell’ultimo trimestre del 2019 Oculus ha venduto 180.000 unità, per un totale di circa 400.000 da quando è stato rilasciato. Credendo alle parole di Zuckerberg, il numero è limitato non dalla domanda, ma dalla produzione. Citando testualmente, “We’re selling them as fast as we can make them”.
Secondo questo report di AndroidCentral, l’impatto del Quest nel mercato è stato altissimo portando i caschetti standalone dal 20% circa a quasi il 50% delle vendite complessive di HMD. Lo stesso report riporta un calo dell’8% dei caschetti PC, motivandolo con la mancata uscita di titoli di rilievo e con l’attesa per la nuova generazione.
Una analisi più approfondita viene offerta da ArsTechnica, la quale analizza il numero di utenti Steam che hanno un caschetto VR collegato al pc.
Bene, tale numero è salito dallo 1.09 percento allo 1.31, il più grande salto in avanti mai fatto registrare dal 2016, anno in cu Valve ha iniziato a raccogliere i dati. Sempre secondo questa analisi, calcolando il numero di utenti attivi di Steam, e aggiungendo gli utenti che utilizzano solo la Oculus Home (che in realtà saranno meno di quanti si creda), si parla di 1.6 milioni di HMD per PC.
E la concorrenza? Trovare figure ufficiali sulle vendite dei concorrenti si è rivelato meno semplice del previsto.
Stando a questo articolo di fool.com, per quanto riguarda HTC Vive si dovrebbero stimare intorno agli 1.3 milioni di caschetti (numero preso nuovamente da SuperData). Non si hanno però numeri sul Cosmos, successore diretto.
E l’Index?
Secondo questo articolo, a Marzo 2020 aveva venduto oltre 100.000 unità, finendo sold-out come tutti gli altri headset. Non male per un caschetto da praticamente mille euro.
Così come per le console, il dato dell’hardware è indicativo e prezioso, ma è molto più importante guardare alla vendita dei giochi, per capirne la sostenibilità sul lungo periodo.
Un primo elemento significativo arriva dall’articolo di AndroidCentral citato sopra: secondo i dati, nell’ultimo anno sono stati spesi 171 milioni di dollari in software per headset standalone (principalmente per il Quest), mentre le stime indicano che per il pc la stessa cifra sia la metà, 86 milioni di euro. Purtroppo non si capisce queste stime se tengano conto dei vari marketplace proprietari (Oculus store e Viveport) o considerino solo Steam, e lasciano più di una domanda.
Ciò che è importante, come sottolineato da questo report, è la risposta che il mercato sta avendo ai giochi VR. Secondo le stime infatti, oltre cento giochi hanno superato la soglia del milione in guadagni netti, con una crescita complessiva del mercato dei giochi VR di circa tre volte rispetto al 2018.
Cifre simili sono riportate anchze da Facebook, con 100 milioni di dollari di contenuti confermati sulla piattaforma di Oculus, e 20 titoli sopra il milione (di cui 10 hanno eclissato i 2 milioni di dollari in vendite).
Uno dei giochi che più ha venduto per VR è SuperHot VR, adattamento con storia indipendente del più famoso SuperHot. Secondo stime ufficiali, il gioco ha venduto oltre due milioni di copie, generando un guadagno maggiore della versione base, secondo un tweet del lead developer Callum Underwood. Risposte positive sono arrivate anche da Bethesda e dal porting dei suoi titoli, i quali, secondo gli sviluppatori, hanno venduto “davvero bene”, senza però specificare cifre.
Tutta questa serie è nata pensando ad Half-Life e alla sua uscita, mi sembra giusto dedicargli almeno un paragrafino. Partiamo da ciò che sappiamo per certo: a Marzo 2020, mese di uscita, Half-Life: Alyx è stato l’ottavo gioco per incassi su PC. Secondo un report di Aprile, il gioco ha prodotto 40 milioni di utile da guadagni diretti (al prezzo di 60$ a copia), per un totale di circa 680.000 copie vendute. A queste vanno aggiunte le circa 180.000 che hanno invece giocato il gioco dopo averlo ottenuto tramite un bundle (era incluso sia col Cosmos che con l’Index). Stando alle stime dell’articolo, una persona su quattro in possesso di un visore ha giocato il gioco. Se prendiamo i numeri di vendita sono sicuramente modeste per un titolo AAA, se pensiamo che il 25% delle persone che ha accesso alla piattaforma lo ha giocato, stiamo parlando di qualcosa di mai visto. C’è un “ma” che va però preso in considerazione, e che viene magistralmente spiegato da questo articolo di CCN: al lancio, ci sono state sei volte più persone a guardare il gioco su Twitch che a giocarlo.
Un numero terrificantemente alto, che però suggerisce una barriera di accesso al gioco, le cui cause possono essere attribuite al costo troppo alto, o semplicemente ad una mancanza di interesse per la VR e da una curiosità nel conoscere la storia di Alyx.
Giusto qualche giorno fa RoadToVr ha pubblicato un approfondimento, valutando l’impatto di Half-Life: Alyx a distanza di qualche mese, ed i risultati sono molto interessanti.
Innanzitutto, la percentuale di utenti con un visore VR collegato al pc è salita a 1.93 percento, un balzo in avanti molto alto rispetto ai numeri riportati sopra. Inoltre, il calo di utenti che ci si aspettava dopo il boom di Marzo è stato leggero e temporaneo, con i numeri di Luglio in linea con quelli dei mesi precedenti (anche se c’è stato un calo a Giugno). Un altro vincitore sul medio-lungo periodo è stato il Valve Index, salito al 14.45 percento di tutti i visori collegati a Steam. La prova che il mercato videoludico è disposto a investire cifre importanti per la qualità, e che l’innovazione paga.
Se ripenso a quando ho preso per la prima volta in mano un visore 4 anni fa, il mondo videoludico mi sembra radicalmente cambiato.
Prima un Oculus era qualcosa che solo gli early adopters avevano il coraggio di avere, e l’attrazione che si poteva avere verso questa nuova tecnologia era totalmente irrazionale e giustificata da una visione sul futuro più che sul presente.
A distanza di quattro anni, il mondo della VR è profondamente cambiato: i numeri di vendita certificano la sua sostenibilità, quando un gioco viene annunciato ci si chiede sempre se lo faranno per VR, e la qualità dei visori è abbastanza alta da far dire “questo è un prodotto che utilizzo oggi, non in prospettiva.
Sei tende troppo spesso a dimenticare come la VR sia una tecnologia nata ieri, almeno nell’accezione ludica che abbiamo noi oggi. I primi caschetti commerciali sono usciti 4 anni fa, un periodo che basta a malapena a rilasciare un gioco AAA, figuriamoci sviluppare giochi di alto livello per un hardware appena rilasciato ed in continua evoluzione, su cui era rischosissimo investire grosse cifre, e senza un minimo di know-how tecnico.
Questi fattori stanno man mano venendo limati, c’è più consapevolezza da parte degli sviluppatori, ed i caschetti hanno una qualità sempre maggiore.
I costi continuano ad essere troppo alti, ma se continueremo nella direzione del Quest, la VR diventerà un diretto concorrente delle console, un qualcosa che costa 400 euro e che non necessiterà d’altro per giocare, se non dei giochi stessi. Per ora è ancora presto, e bisogna ammettere che la VR da la sensazione di essere tanto, troppo, PC oriented.
Sarà probabilmente una fase, ma è presto per dirlo. I numeri sono confusi, spesso derivano da elaborazioni complicate e basate su troppe supposizioni.
Ma il mercato si evolve, velocemente, e la VR ha dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio di attrarre una nicchia significativa di giocatori. Certo, la crescita in questo momento sembra lenta, e neanche rimettere in campo un Half-Life ha dato un boost netto come sarebbe stato logico aspettarsi, ma fintanto che c’è crescita, e bollare la VR come fallimento è, semplicemente, ingiustificato.
Scrivendo questo articolo mi è venuto in mente un episodio di un annetto fa: una cara amica si rifiutava categoricamente di giocare a Beat Saber, sostenendo che lo avesse provato dal suo ragazzo e che le aveva dato la nausea.
Ora, è praticamente impossibile che BeatSaber dia la nausea, e dopo qualche tentativo si è convinta. Vi lascio immaginare la mia reazione quando ha esclamato “oh wow, è così fluido, sul PC del mio ragazzo va tutto a scatti!”.
Questo tipo di reazioni sono comuni tanto quanto le opinioni di persone che hanno associato la VR a quelle disgrazie che sono state i vari Cardboard, o ancor peggio i primi DK di Oculus negli anni 2012-2016. Quelle esperienze non hanno nulla a che vedere con la VR moderna, ed è bene che vengano messe nel dimenticatoio il prima possibile.
Questa cosa è stata ampiamente recepita dai produttori, i quali hanno capito che la VR non è e non sarà mai un prodotto per tutti, mandando subito in pensione i prodotti di fascia bassa (come i sopracitati cardboard e Oculus Go).
Questo non vuol dire che la VR scomparirà ne che soppianterà altri mercati. Semplicemente, come i vari store si sono affiancati negli anni, anche la VR resterà, parallelamente a tutti gli altri modi di giocare. La vera forza di questa prima VR è stata dimostrare come il mercato dei videogiochi sia ancora largamente esplorabile: dopo anni di stagnazione con le solite console war, ed il mercato mobile dominato da due soli concorrenti, Oculus prima ed HTC poi hanno messo sul tavolo un nuovo concorrente, che si è ricavato spazion in una nicchia in costante crescita e che non sparirà.
Anche gli ottimisti però devono rassegnarsi: la VR entrerà in molte case in futuro, ma non in tutte. La tecnologia si sta evolvendo, i caschetti portatili come il Quest sono sempre più performanti, e nuovi aggiornamenti tecnici come il finger tracking o l’eye tracking sono alle porte e verranno probabilmente implementati ad un livello soddisfacente nell arco di due o tre anni.
Quando accadrà vedremo un passo in avanti come è stato quello del Quest, che ha eliminato i cavi dando all’utente la possibilità di giocare ovunque, muovendosi a 360 gradi senza paura. Ciò però comporterà una esperienza più immersiva, ma non risolverà i problemi strutturali come il motion sickness o i costi. Quelli resteranno, e terranno sempre e comunque fuori una grossa fetta di utenza.
Siamo arrivati alla fine di questo breve viaggio nella realtà virtuale. Prima di congedarvi, vorrei lanciarmi in una riflessione personale su quella che sarà la VR del futuro – una di quelle predizioni che difficilmente si azzeccano e che un giorno faranno ridere qualcuno.
Secondo me, per i prossimi 5-10 anni i visori VR si muoveranno su due binari che andranno man mano divergendo: da un lato avremo i visori standalone, come il Quest, che diventano sempre più precisi e adattabili, magari con scheda interna che consente di scaricare contenuti in giro per il mondo. Dall’altro lato invece avremo i visori più performanti, stile il nuovo Valve Index. Questi visori saranno più pesanti di quelli economici, e difficilmente si libereranno di tutti i cavi, ma andranno ad offrire prestazioni e hardware sempre più performanti.
Mi aspetto inoltre due novità: un avanzato l’hand-tracking integrato nei visori senza bisogno di telecamere esterne, e un cambio di tecnologia nelle lenti.
La prima predizione è motivata dall’impossibilità di simulare molte interazioni con il controller, che porta spesso a generare una fisica non realistica. Inoltre, i giochi che hanno avuto più successo sono quelli che hanno saputo meglio adattarsi ai vari tipi di controller che chi vende hardware costruisce. Sparendo i controller, anche chi produce giochi avrà una vita più semplice, e si potranno creare interazioni nuove senza doversi inventare combinazioni di tasti. Per il discorso lenti, c’è un limite fisico che non si riesce a superare con gli attuali caschetti. Vero, alcuni visori hanno raggiunto gli agognati 8k, ma la verità è che il pixel si vede ancora, e non c’è trucco che tenga. L’unico modo per perdere la visione del pixel e avere una immagine nitida sarà tirare fuori dal cilindro uno schermo completamente differente.
E voi, dove credete che andrà la realtà virtuale nei prossimi 10 anni?
This post was published on 28 Dicembre 2020 11:02
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