Retrogaming è una parola magica, soprattutto per un giocatore di più di trent’anni che abbia vissuto l’età d’oro del gaming moderno.
Una parola che ha fascino, che fa sognare e può rievocare nostalgia per l’infanzia.
Una parola che ha stuzzicato anche me per molto tempo, finché, complice varie cose, non ho ceduto a essa, pur se “a modo mio”.
Qualche settimana fa, complice le risorse economiche da tenere sotto controllo, l’assenza al momento di reali IP da comprare a tutti i costi e la voglia di giocare qualcosa di “diverso”, ho riattaccato la mia PlayStation 3 e ho realizzato uno dei recuperi di giochi old-gen che più volevo fare.
Il risultato, però, non è stato quello che mi aspettavo.
Viaggio a Silent Hill
Il gioco in questione non è certo facile da trattare, sia perché si tratta della remastered di un gioco per PlayStation 2 su PlayStation 3, sia perché la remastered in sé ha una cattiva nomea: parliamo di Silent Hill 2 HD Collection, attaccato all’epoca della sua uscita (2012) per la sua terribile opera di restyling grafico che rendeva l’originale PS2 quasi ingiocabile per quanto piena di effetti grafici sbagliati che rendevano ciò che avveniva su schermo confuso.
Per fortuna, una patch uscita qualche tempo dopo la release ha reso la nuova edizione di nuovo godibile da chiunque, quindi dopo essermi ben informato ho deciso di mettere da parte i dubbi, fare i bagagli e partire verso Silent Hill.
I motivi della scelta erano tre: da una parte ricordavo il mio vecchio amico Claudio, che già dieci anni fa mi rimproverava per il fatto di non aver recuperato quello che secondo lui era il gioco più bello del mondo; in secondo luogo, da bravo appassionato di horror e mistery che ha completato Resident Evil 1 e 2 Remake da pochi mesi volevo recuperare anche qualcosa dell’opera di Konami, che mi ha sempre affascinato per la sua lore folk horror e american gothic.
Terzo, il fatto di aver già tentato di giocare a Silent Hill 2 all’uscita della remastered, ma di essermi bloccato a poche ore dall’inizio del gioco e aver smesso per questo (sì, all’epoca ci rimasi male e volevo ritentare, lo ammetto).
Speravo che oggi, con un po’ più di gaming sulle spalle, le cose sarebbero andate più lisce.
Speravo.
Di fronte a una montagna
Due premesse importanti, prima di continuare.
La prima: Silent Hill 2 è un bellissimo gioco, con un valore straordinario e che oggi non può che mettere molta malinconia grazie alla sua atmosfera decadente, introspettiva e psicologica. Un capolavoro che ha segnato la storia del genere, proponendo una formula di survival horror originale in un momento storico dominato dagli zombie di Capcom.
La seconda: di seguito chi scrive si troverà a dover “dare contro” alla giocabilità del titolo, che ritiene troppo distante dalla forma mentis del giocatore moderno. Vi prego però di non commentare il tutto liquidando quest’analisi con un semplice E grazie al *****, stai criticando un gioco di vent’anni fa con l’ottica del giocatore di oggi!, poiché la mia non vuol essere una critica, ma una semplice riflessione sui tempi che cambiano e sull’evoluzione del gameplay.
Allora, vi spiego qual è il problema: ho iniziato Silent Hill 2 da un mese e mezzo circa con tutte le migliori intenzioni di divertirmi e cibarmi dei suoi orrori e misteri ma ancora non l’ho terminato. Lo finirò, so che lo finirò perché ripeto è un capolavoro e un gioco con un’atmosfera meravigliosa, dei personaggi dolenti e un concept di fondo profondissimo, ma procedo a rilento.
Di fatto le mie sessioni di gioco non riescono a durare più di un paio d’ore, l’arrivo in una nuova location mi spaventa più per l’impegno richiesto dall’esplorazione particolareggiata che per gli orrori trovati e a non aiutare è il grado di sfida del gioco, che boh, sto trovando davvero basso.
“Oh no, non mi sto divertendo!”
Ecco, i problemi sono questi due: “spirito” del gioco e bassa letalità.
Non la grafica obsoleta (che anzi secondo me è godibilissima e deliziosamente nostalgica), né il doppiaggio originale estremamente scolastico (sì, lo so c’è un bel ridoppiaggio del titolo con Troy Baker nei panni del protagonista, ma se retrogaming deve essere che sia fatto bene!).
No, il problema è più profondo e triste: mentre esploro le location di Silent Hill 2, splendidi luoghi dell’orrore virtuali, sento sempre un costante senso di non-appagamento dovuto alle dinamiche di gioco.
Non noia, ma non-appagamento. O meglio, un misto dei due: in alcuni momenti è come se l’approccio investigativo “assoluto”, tutto incentrato sul passare in rassegna ogni oggetto e privo di grandi colpi di scena dovuti a una narrativa ormai obsoleta (legittimamente), mi soffocasse e mi spingesse a prenderlo in piccole dosi. In altri momenti il fatto di poter letteralmente sorpassare i PNG nemici arrivando al termine del gioco quasi senza neanche un graffio (sìsì, proprio così) mi addolora in maniera assurda.
A questo punto, fossi uno di quegli spietati critici videoludici pronti a mettere mano a una remastered con la penna rossa pronto a mettere in luce quanto il gioco sia ormai obsoleto e quanto sia necessario lasciarlo lì dov’è per andare avanti e pensare ad altro.
Ma sarebbe un atteggiamento spietato e ingrato, perché la verità è un’altra: non è il gioco ad avere la colpa di essere invecchiato male, perché la verità è che siamo noi ad avere ormai il palato troppo diverso per goderne.
Noi giochiamo per giocare, non per ascoltare storie
Al termine di questo breve scandagliare dentro le mie riflessioni di giocatore, tante sono le idee che mi vengono sull’argomento.
Primo, banale, è che forse non tutti sono adatti per certi viaggi nel passato o hanno una “coscienza videoludica” tale da godersi appeno uno di essi. Al tempo stesso, vero è che non tutti i “giochi vecchi” si prestano a queste operazioni.
La seconda riflessione è che aveva davvero ragione Marshall McLuhan, il padre delle scienze della comunicazione, e alla sua idea che è il linguaggio peculiare di un medium a farne la fortuna. Nel caso specifico del videogioco, un classico può avere il setting e il plot più belli al mondo, ma se la giocabilità non “risponde” al sentire e all’aspettativa del giocatore (aspettativa costituita sia da ciò che desidera nel momento in cui prende in mano il pad che dal “contesto” in cui si gioca) il suo rapporto con quel gioco sarà comunque difficile.
Ogni classico va rispettato, preso per ciò che è, contestualizzato e riverito. Soprattutto, va fruito senza pregiudizi sull’età o sugli aspetti più arcaici. Mentre però col cinema o la letteratura la fruizione di qualcosa di più “vecchio” può risultare meno “traumatico”, il videogioco “old school”, in quanto “esperienza” oltre che “racconto”, rimarrà sempre un po’ più difficile da affrontare, un po’ più difficile da godersi senza fare i conti col modo in cui l’evoluzione del medium ci ha cambiato e ci ha abituato a nuovi approcci e nuove grammatiche di gioco.
E questo ci lascia una domanda enorme: più dell’obsolescenza dei dispositivi sarà la nostra forma mentis di giocatori in costante cambiamento a non permetterci più di recuperare i grandi classici? Col tempo diventeremo tutti troppo abituati a un eterno presente fatto di narrativa cinematografica e comandi responsivi e perfetti, tanto da farci detestare anche giochi di cinque, sei anni fa?