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Speciali

Essere critici fa schifo, eppure vogliamo esserlo tutti

La vita sa sempre come sorprenderci. Potremo aver preso le batoste più impensabili, trascorso le giornate più improbabili, assistito a dei litigi degni di un film del maestro Mario Merola: ogni volta che crederemo di aver visto tutto, arriva quell’evento che sposta l’asticella, certe volte verso l’alto, tante altre verso il basso.

Nel mio piccolo posso dire che, nell’ultimo mese e mezzo, sono state parecchie le volte in cui questa asticella si è spostata, lascio a voi indovinare in quale direzione.

Alle battute finali della current gen, Sony ha rilasciato ben due esclusive: The Last of Us Parte II e Ghost of Tsushima. Come spesso accade per videogame di questa caratura, entrambi hanno generato tantissime discussioni, anche se non tutte del tipo che sarebbe lecito attendersi.

Tra le tante polemiche che hanno accompagnato questi ultimi giorni, un tema è emerso con tutta la sua forza: la sfiducia nei confronti della stampa di settore nostrana, con una menzione speciale per i recensori.

Sembrerebbe proprio che questi due titoli abbiano messo a nudo, una volta per tutte, l’inadeguatezza della critica, di quei loschi figuri che mettono i “numerini” ai videogame, magari al soldo di questa o quell’azienda.

Lo scopo di questo articolo non consiste in un semplice sfogo (anche se un paio di sassolini dalla scarpa me li toglierò al momento opportuno) o in un’analisi di questo “attacco frontale” alla categoria (troppo complesso e sfaccettato da analizzare), ma nel cercare di capire cosa ci sia alla base di questa diffidenza, e se essa abbia realmente senso di esistere.

TLOU 2 e Ghost of Tsushima: due casi a confronto

Due casi diversi ma, paradossalmente, molto simili tra loro.

Sin dai primi momenti in cui ebbi modo di mettere le mani su The Last of Us Parte II, ebbi un’unica certezza: il gioco avrebbe diviso in due la fanbase. I motivi alla base di questa constatazione erano tanti: una narrazione non lineare e capace di farci vestire i panni del “cattivo”; la scelta di spodestare Ellie dal trono di protagonista indiscussa e, soprattutto, la difesa a spada tratta della libertà creativa, evitando quella “minestrina riscaldata” che forse avrebbe fatto contenti i fan, ma non tutti coloro che avevano speso anni della loro vita nella creazione del più impegnativo dei sequel.

Per creare un capolavoro, si sa, bisogna osare, correndo anche il rischio di scontentare qualcuno. Forse non tutti si aspettavano che questa massa di “qualcuno” andasse a mettere il più basso dei voti sulla pagina Metacritic del gioco, o che inondasse i social con post di ogni genere, ma quanto ora detto rientra tra le “strane sorprese” di cui sopra.

Ciò che, più di ogni altra cosa, ha infiammato le polemiche è stata la discrepanza tra le valutazioni date a TLOU2 dalla stampa italiana e quelle conferite da quella estera; se, nel primo caso, ci sono stati diversi perfect score, alcuni siti stranieri (tra cui spicca IGN Japan) si sono orientati su giudizi più critici. All’internauta medio è bastato questo: la critica italiana è “pagata”, mentre quella estera ha la schiena dritta!

Anche io mi sono beccato una dose di “lezioni di giornalismo totalmente gratuite e non desiderate” a causa della mia recensione (che potete leggere qui), ma erano state ampiamente messe in preventivo.

Con Ghost of Tsushima, invece, la situazione è andata esattamente all’opposto. Come il buon Michele Longobardi ha avuto modo di scrivere nella sua recensione (che trovate qui), il titolo Sucker Punch ha i suoi indubbi pregi, ma anche delle lacune che non gli consentono di raggiungere l’eccellenza.

In questo caso, la stampa italiana si è orientata su voti compresi tra il 7 e l’8, mentre all’estero non pochi siti hanno esaltato il videogame in questione, che è riuscito addirittura a guadagnare l’agognato 40/40 di Famitsu.

Forse, per una volta, è stata la stampa italiana ad essere “incorruttibile”? Ma neanche per sogno! Anche qui, il pubblico nostrano si è dimostrato “esterofilo”, ritenendo più attendibili i voti delle testate straniere, anche se più elevati.

A questo punto, è stato impossibile non pormi una domanda.

Qual è stato il momento in cui il giornalista ha perso la sua credibilità?

Il punto più basso mai toccato negli ultimi anni.

In realtà questa domanda mi assale da tantissimi anni, e la risposta che ho trovato richiede di fare diversi passi indietro, tornando ai bei vecchi tempi delle riviste cartacee.

Chi, come me, ha vissuto quegli anni, ricorderà benissimo quanto difficile fosse difficile tenersi informati a 360 gradi sui videogame; essere aggiornati significava attendere l’arrivo in edicola, una volta al mese, della propria testata preferita, godendosela con calma e lentamente, una pagina alla volta, pagando quanto necessario per accedere alle poche fonti di informazione ai tempi disponibili.

Se dovessi individuare dei momenti che, per me, hanno rappresentato il fatidico “inizio della fine del giornalista”, ne avrei due da menzionare: l’avvento di Internet e quello dei social network.

Prima che mi saltiate alla giugulare, è bene che chiarisca una cosa: non ho assolutamente niente contro il web. Solo un boomer potrebbe non vedere i vantaggi che la diffusione a macchia d’olio di Internet ha causato, tra cui un’informazione più puntuale, più completa ed in costante aggiornamento.

L’altra lato della medaglia è però costituito dai cambiamenti che tutto questo ha causato nel nostro lavoro: Internet ha portato in dote sia un nuovo tipo giornalista che un nuovo tipo di lettore.

Il giornalista del web non scrive più per il lettore, ma per i motori di ricerca, rispettando tutto un insieme di regole che premiano la standardizzazione dei contenuti, spesso a scapito dell’originalità.

La nuova generazione di giornalisti, inoltre, è obbligata a muoversi (e scrivere) a velocità pazzesche, per far fronte ad una concorrenza sempre più numerosa ed agguerrita e per cercare di accontentare un pubblico sempre più esigente.

Essere giornalisti nel 2020 significa dover apprendere almeno tre o quattro mestieri diversi, di cui forse la scrittura è il meno importante, e di essere costantemente collegati ad una miriade di social network, su cui ci soffermeremo tra un po’.

Il lettore 2.0

Il lettore del 2020 è costantemente sottoposto a “stimoli social”.

Tuttavia, Internet non ha cambiato solo i giornalisti: anche i lettori si sono “evoluti”. È inutile nascondersi dietro un dito: gli articoli vengono letti quasi unicamente da dispositivi mobile, il che significa che l’utente è in movimento, o addirittura impegnato in altre attività.

Non giriamoci troppo intorno: il lettore del 2020 è un lettore distratto, che non ama cimentarsi in articoli troppo lunghi. Non è un caso che tante testate abbiano inserito dei plug in che indicano il tempo stimato per la lettura di un articolo, finendo col prediligere pezzi brevi e “facilmente digeribili”.

Ma c’è un altro “effetto collaterale” che Internet ha causato: la gratuità dell’informazione.

La possibilità di accedere con un solo clic ad una miriade di contenuti, senza dover pagare alcun “biglietto di ingresso”, ha portato sia al restringimento del budget a disposizione degli editori (che sempre più spesso si trovano costretti a fare le nozze con i fichi secchi), che ad una progressiva svalutazione del lavoro svolto dal giornalista.

D’altra parte, che rispetto si può mai avere di qualcosa che è gratuito? Quale competenza può mai essere richiesta o garantita senza alcun obolo da corrispondere? Entrambe queste domande hanno portato alla considerazione che, per fare il giornalista o il recensore videoludici, basti semplicemente parlare un italiano (più o meno) corretto ed avere provato il giusto numero di videogame.

Mi tocca infrangere qualche sogno di gloria: appassionati e giornalisti sono due cose completamente diverse. Se il primo basa i suoi pareri sul solo elemento soggettivo, il secondo deve attenersi a criteri qualitativi universalmente riconosciuti, andando a scindere il gusto personale dalla fattura del titolo analizzato.

Per farla breve, se avete scritto un post su Facebook che ha ricevuto un centinaio di like, una ventina di commenti e qualche condivisione, questo non fa di voi dei giornalisti. Checché ne possiate pensare, il giornalismo non è un’arte, ma un lavoro, che deve obbedire a delle regole, e non solo alle sensazioni di chi scrive.

A proposito di Facebook, l’avvento dei social network, se da un lato ha costretto ogni testata a confrontarsi con i propri lettori, dall’altro ha contribuito alla nascita di community sempre più tossiche ed incontrollabili, che non vogliono confrontarsi con il critico, ma sostituirsi ad esso.

Tutto questo per una sola ragione.

Quel maledetto, f*ttutissimo voto

Voto basso, voto alto o nessun voto?

Parafrasando ciò che disse un grande critico d’arte, il recensore “deve essere non angelo custode, ma angelo sterminatore” nei confronti di ciò che valuta. Questo concetto mi ha sempre profondamente messo a disagio. L’idea di riassumere in poche parole il lavoro, durato anni, di un team di sviluppo è già difficile di suo, figuratevi l’idea di poterlo stroncare con una valutazione negativa, con un semplice numero.

Personalmente, non mi sono mai sentito a mio agio nel ruolo di “angelo della morte” e, proprio per questa ragione, ho sempre cercato di accompagnare ogni valutazione negativa ad un’argomentazione capace di spiegare le ragioni di quell’insufficienza.

Ma al lettore del 2020 tutto questo, semplicemente, non interessa più. Lui non ha tempo da perdere a leggere un muro di testo in cui si cerca di toccare il cuore dell’opera, il nostro eroe va direttamente al sodo: il numerino a piè di pagina.

Il voto rappresenta “l’unico anello”, il potere assoluto, quello che più di ogni altro può polarizzare l’attenzione, smorzando gli entusiasmi o gonfiandoli a dismisura; proprio sulla base di quanto ora detto, è sempre più frequente assistere ad utenti che si confrontano direttamente con il recensore, portando il proprio punto di vista (nella migliore delle ipotesi), o attaccandolo frontalmente (nella peggiore).

Sotto questo aspetto, è facile spiegare l’ondata di “0 in pagella” dati a The Last of Us Parte II: si tratta del più classico dei “voti di protesta“, dato da persone che, in alcuni casi, non hanno neanche giocato il videogame in questione, ma basano la propria opinione su video, gameplay e leak visti in rete.

Arrivati a questo punto, perché non abolire il voto finale? Perché non liberarci del problema ed “obbligare” l’utente a leggere tutto ciò che il recensore ha da dirgli?

Volete il mio parere personale? Sarei dannatamente a favore di una svolta di questo genere!

Magari le prime volte l’utenza si troverà spiazzata, ma pian piano si riuscirebbe a farle recuperare il piacere della lettura, nonché la pazienza nello scoprire, parola per parola, l’analisi fatta dal recensore. Forse si perderebbe qualche “culo pesante”, ma sono rischi che varrebbe la pena correre.

Tuttavia, siccome i sogni sono spesso destinati a rimanere tali, la soluzione ideale ai problemi summenzionati rimane sempre la stessa.

Il voto? Fatevelo da soli!

Come costruirsi una propria opinione? Leggendo e… sbagliando!

È arrivato il momento di sfatare alcuni luoghi comuni: i recensori non sono pagati dai “Poteri Fortissimi” per dare le proprie valutazioni e, al contrario di molti di voi, nessuno di noi si è mai voluto ergere ad unico detentore della verità.

È proprio su questo punto che occorre spendere qualche parolina in più. Il recensore, in quanto critico, ha lo scopo di valutare il prodotto sulla base di criteri tanto oggettivi quanto soggettivi, fornendo una valutazione esaustiva e che, al tempo stesso, possa stimolare il lettore a prendere in considerazione un punto di vista diverso dal suo.

Questo significa che, se io recensore dico che un gioco è insufficiente, quel determinato gioco non possa piacere a nessuno? Ma assolutamente no!

Io stesso mi sono trovato ad adorare titoli come Mirror’s Edge, accolti tiepidamente dalla stampa di settore, e ad essere totalmente indifferente nei confronti dei soulslike, osannati da tutti i critici dell’orbe terracqueo.

Nessuno, assolutamente nessuno, critico o fan, può azzardarsi a dire che voi non capite niente, ognuno di voi ha il diritto (ed il dovere) di crearsi una propria opinione, ma dite la verità: quand’è stata l’ultima volta che vi siete creati un’opinione in totale autonomia? Quand’è stata l’ultima volta che avete acquistato un videogame senza leggere una recensione, fidandovi solo del vostro istinto? Insomma, quand’è stata l’ultima volta che avete “rischiato”?

Cari lettori, nell’arco di questi anni, ho visto molti di voi impigrirsi sempre più: vi ho visti cancellare prenotazioni sulla base delle valutazioni dello youtuber di turno; vi ho visti vomitare bile su praticamente ogni gioco, adducendo le motivazioni più assurde; vi ho visti sempre pronti a dare addosso ai gusti di chi non era d’accordo con voi, puntando il dito e ponendovi su un piedistallo.

Fermatevi un attimo a riflettere: da quando avere un’opinione che sia vostra è diventato così poco importante? Qual è stato il momento in cui molti di voi hanno smesso di pensare con la propria testa e si sono ridotti a schierarsi con l’opinionista del momento, limitandovi ad esprimere l’omogeneizzato dei suoi pensieri? Da quando i gusti degli influencer sono diventati più importanti dei vostri?

È arrivato il momento convincere l’ “elefante interiore” a smuoversi: giocate un videogame anche solo perché vi attira; sbagliate, prendete anche abbagli colossali; leggete, tanto e di autori diversi; confrontatevi (educatamente e con rispetto) con altri appassionati, o anche con noi direttamente, sui social e sui commenti di questo articolo.

So che tutto questo vi spaventa, ma niente paura: nella peggiore delle ipotesi sarete annoiati, delusi, magari anche incazzati, ma più informati, forse più esperti e sicuramente più “protagonisti” del nostro medium preferito.

Tutto questo in cambio di pochi minuti del vostro tempo; uno scambio equo.

This post was published on 21 Luglio 2020 14:00

Claudio Albero

Nasce a Torre del Greco, una piccola metropoli alle falde del Vesuvio, nei favolosi anni ’80, che già però non avevano più niente di favoloso. Provano ad educarlo con Beatles e musica classica sin dalla più tenera età, ma lui, di tutta risposta, si appassiona all’ heavy metal ed ai videogame , spendendo un piccolo patrimonio in sala giochi, quando queste due parole erano ancora slegate dalle slot machine. Dopo aver mosso i primi passi su Sega Master System II con Alex Kidd, il Super Mario con le orecchie a sventola, si innamora dei platform, degli action/adventure e degli RPG, con particolare attenzione alla saga di Final Fantasy. Inguaribile sognatore con le radici saldamente ancorate nel passato, scopre la sua passione per la scrittura quasi per caso, in uno dei tanti pomeriggi passati tra i corridoi della Facoltà di Giurisprudenza di Napoli, dove si laureerà giusto qualche anno dopo, con una tesi in Diritto d’Autore basata sull’opera multimediale. Dopo aver scritto di attualità e musica su Lacooltura.it , Road TV Italia e Federico TV , approda sui lidi di Player.it , in cui comincia sin da subito ad apprendere e fare domande, guadagnandosi rapidamente il titolo di “ redattore rompiscatole del mese ”. Nonostante sia legatissimo alla grande famiglia di Player, non sono rare alcune sue incursioni su portali come Gameplay Café e Spazio Rock . Musica, videogame, concerti, boardgame, modellismo, fumetti, cinema e serie tv: tanti hobby diversi tra loro, ma collegati da un fil rouge che li unisce tutti: il divertimento . È proprio questo che cerca in un videogame, è proprio questo sentimento che muove le sue dita, ed è sempre il divertimento la sensazione che cerca di infondere nei suoi articoli. Al di fuori del mondo del gaming, indossa giacca e cravatta per mimetizzarsi nel mondo degli avvocati, esercitando la professione forense, con lo scopo di conoscere a fondo le “ regole del gioco ”, nonché di minacciare di far causa a chiunque al minimo pretesto.

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