E’ difficile parlare di un classico, perché non sai mai da dove partire. Puoi attaccare tentando di ricordare quanti anni siano passati da quel gioco e cosa esso abbia rappresentato per te o per il medium in generale, puoi parlare del suo lascito, o cercare di scavare nella memoria alla ricerca di un aneddoto. In ogni caso, spesso ti ritrovi ad arrenderti di fronte all’evidenza: è difficile parlare di un gioco significativo, soprattutto in occasione del suo decimo anniversario e soprattutto se quel classico ha da poco avuto un sequel altrettanto osannato.
Ecco perché, parlando di Red Dead Redemption, uscito negli Stati Uniti il 18 maggio 2010, chi scrive tenterà di cominciare esattamente da quel memorabile lancio.
E’ difficile da immaginare, ma quando Red Dead Redemption venne fuori Rockstar Games non era quella che conosciamo oggi.
Intendiamoci, era comunque la grande multinazionale del videogioco che aveva ridefinito gli standard dell’open world con Grand Theft Auto e che era riuscita a sviluppare un nuovo rapporto fra videogioco e cinema (pensiamo solo all’utilizzo di attori famosi come Samuel L. Jackson o Chris Penn-fratello di Sean-in GTA: San Andreas). Ma, più che questo, Rockstar Games era sulla bocca di tutti per il suo essere ma casa di produzione di “giochi-violenti”, ed era difficile pensare che questo stato di cose sarebbe cambiato.
Eppure, è proprio quel che successe a partire da quel giorno: Rockstar cominciò a diventare adulta, almeno per i parametri del “mainstream”.
E fu una rivoluzione, ragazzi, una vera rivoluzione.
Già il primo impatto dei giocatori con RdR fu strano. O almeno, fu strano quello di chi scrive.
Venendo da Grand Theft Auto IV (che credo sia in assoluto una delle più grandi delusioni videoludiche che abbia mai provato, ma questa è un’altra storia), mi aspettavo di trovare nient’altro che una versione di GTA ambientata in un altro secolo, con i cavalli al posto delle macchine e il deserto di Sergio Leone al posto delle sconfinate città di San Andreas. E invece no.
Invece, quello che i giocatori di allora si ritrovarono davanti fu un open-world con una caratteristica principale straordinaria e di impatto. Più della splendida e sconfinata mappa, più del gameplay divertente e piacevole, più della sua capacità di rielaborare in modo perfetto l’immaginario western, Red Dead Redemption convinceva perché per la prima volta Rockstar ci dava la responsabilità di guidare un personaggio in grado di decidere se apparire come spietato criminale o come salvatore e protettore dei più deboli.
Insomma, John Marston arrivava in città, scendeva da cavallo, entrava nel saloon e aveva quasi totale libertà di approccio. Poteva mettersi a sparare senza pietà oppure proteggere un povero cittadino vessato da un attaccabrighe, mettendoci nelle mani la possibilità di plasmare la sua fama all’interno di un mondo aperto. Nulla che non fosse già stato accennato anche da altre produzioni, sia chiaro, ma inserito in uno dei generi americani più basati su concetti morali, il western appunto, il tutto acquistava un significato molto più profondo.
John non era il protagonista di un western. John poteva esserne tanto l’eroe assoluto quanto il tetro antieroe.
Un concept potente, che si rifletteva alla perfezione in un gameplay open-world che faceva dell’esplorazione immersiva il suo piatto forte.
Un motore grafico spettacolare, l’uso del campo lungo di leoniana memoria, la presenza di centinaia di quest secondarie e incontri casuali sparsi per la mappa erano un invito al giocatore a lasciarsi andare per ore fra lande desolate, dead cities, cimiteri spettrali, praterie vaste e lussureggianti. Un modello di gameplay abbastanza innovativo per l’epoca, che portava il concetto di “esplorazione” a un altro livello.
Il tutto con lo scopo di divertire, certo, ma anche di raggiungere un livello di intensità perfetto per raccontare una storia destinata a entrarci dentro. E a rimanerci.
Molti sono i giochi in grado di coinvolgere emotivamente il giocatore, tanto addirittura da straziarlo e portarlo ad associare il ricordo di lacrime a una determinata scena, o ancora di lasciargli l’amaro in bocca per anni, ma pochi sono stati i titoli in grado di lanciare delle riflessioni usando quella capacità di commuovere.
Fatico a pensare qualcosa di più straziante del finale di Red Dead Redemption (eccetto forse quello di… beh, ovvio, quello di Red Dead Redemption II), non solo per la sua tristezza, ma soprattutto per il messaggio che lanciava. La fine della vicenda di John Marston era la fine del far-west di fronte alla modernità, una modernità ricca di contraddizioni.
Di fatto Red Dead Redemption era riuscito a riflettere sull’America e sulle sue contraddizioni quasi come avevano fatto classici del cinema della controcultura come Soldato blu, Il mucchio selvaggio o come un capolavoro di crepuscolarismo assoluto come il nostro C’era una volta il west attraverso una parabola umana scritta con maestria, che avrebbe consegnato a molti giocatori un nuovo eroe da mettere sul proprio pantheon personale.
Per concludere, sarebbe difficile non porsi qualche domanda su cosa Red Dead Redemption abbia lasciato a una o due generazioni di giochi basati anche e soprattutto su concetti come open-world, libertà di scelta e tendenza all’immersività.
Lasciando perdere l’ovvio Red Dead Redemption II, un sequel colossale che è riuscito nella straordinaria impresa di perfezionare una formula già perfetta, chi scrive crede che ci sia qualcosa dell’intensità (intensità sia a livello ludico che emotivo) di RdR in tanti, tantissimi giochi.
C’è un po’ delle sue intuizioni in molti open-world successivi (non ultimo The Witcher 3, con le sue mappe ricche di punti d’interesse), c’è un po’ della sua intensità narrativa in buona parte delle produzioni successive (The last of Us, per esempio), c’è la sua tensione per il gigantismo ad aver indicato la strada degli anni 2010 e aperto il varco a GTA V (il gioco più venduto di ogni tempo).
E proprio per questo credo che non ci dimenticheremo mai di lui, né di John Marston.
This post was published on 18 Maggio 2020 16:32
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