Anche se il legame fra industria videoludica e politica non è certo di recente creazione, nell’ultimo anno tanti sono stati i segnali di un certo contatto fra essi si sono moltiplicati, a causa delle dimensioni interconnesse del mercato.
Dalle dichiarazioni di Ubisoft e Obsidian di non voler creare videogiochi politici (pur essendovi contenuti attenenti alla realtà in giochi come The Outer Worlds e Watch Dogs) agli interventi delle autorità della Repubblica Popolare Cinese contro il giocatore di Hearthstone reo di aver mostrato segni di solidarietà verso i cittadini di Hong Kong; la politica sembra ormai un tassello fondamentale del discorso sui videogiochi.
Oggi assistiamo a una nuova presa di posizione, che farà discutere: quella di Tim Sweeney, fondatore e CEO di Epic Games.
Per il CEO, l’occasione di prendere il discorso si è presentata durante il suo discorso di apertura al vertice annuale del DICE, summit organizzato a Las Vegas dall’ organizzazione no-profit di professioni del settore videoludico AIAS (Academy of Interactive Arts & Sciences).
Nel suo intervento, Sweeney ha esposto una visione articolata della questione.
Da una parte ha ricordato come l’opera videoludica sia una forma d’arte e che, come tale, possa e debba avere dei contenuti politici. Per farlo è ricorso al paragone con il romanzo Il buio oltre la siepe (1960), fra i primi best-seller dell’editoria americana ad avere al suo interno anche spunti di riflessione politica compiuti e puntuali.
Tuttavia subito dopo Sweeney ha proseguito in modo piuttosto ambiguo, asserendo che se è auspicabile che un prodotto videoludico possa veicolare dei pensieri profondi, questi debbano nascere unicamente dalla volontà del team di sviluppo, non da una mossa di marketing dell’azienda produttrice.
Quasi un’affermazione nobile, giusto?
Tuttavia, subito dopo l’incantesimo sembra essersi rotto: Sweeney ha affermato infatti che non solo il publisher non deve prendere posizioni politiche per scelte di marketing, ma che debba tenersi fuori il più possibile dalla politica, in modo da non entrare in contrasto con le convinzioni dell’utenza e, di conseguenza, permettere ai propri reparti marketing di poter intercettare vari tipi di pubblico.
La motivazione data da Sweeney alla sua posizione è, com’è prevedibile, all’insegna di una sorta di “politicamente corretto”. Ha infatti detto:
“Dobbiamo creare una netta separazione tra chiesa e stato… i dipendenti [dell’industria], i clienti e tutti gli altri dovrebbero essere in grado di esprimersi (…) Noi come aziende dobbiamo separarci dalla politica … le piattaforme dovrebbero essere neutrali”.
Rimanere neutrali per non offendere le sensibilità.
Non prendere posizione per non urtare potenziali clienti.
Includere e non dividere, pur portando sul mercato anche prodotti potenzialmente “politici”. Una posizione nobile ma che, permetteteci la presunzione, assomiglia per lo più a una forma elaborata di giustificazione di un’autotutela.
Il ritornello di Epic Games è del resto riscontrabile in tantissimi settori dell’editoria, con infiniti esempi di editori che si affrettano a spiegare come le opinioni degli autori pubblicati non rispondano perfettamente alle loro.
Una tendenza destinata inevitabilmente a generare ambiguità.
Da una parte Epic Games si dice infatti pronta a difendere la libertà di espressione, come ha fatto condannando le repressioni del dissenso durante l’affaire Blizzard-Cina. Dall’altra, rispondendo perfettamente al suo ruolo di editore (e, dunque, parte terza), fa prevalere la convinzione che un pubblisher non debba in alcun modo intervenire nelle questioni.
Il mestiere di Epic Games è commercializzare, proporre sul mercato, vendere un prodotto in una dimensione globale.
Può essere criticata per la sua politica di equidistanza?
No, se accettiamo il sistema capitalistico globalizzato così com’è.
Quella di Epic è pura strategia di sopravvivenza, che punta alla crescita e al fare bene il proprio mestiere, logico.
Molto meno logico e molto più cinico appare tuttavia il volerlo fare con giochi e prodotti che si prefiggono di prendere posizione, criticare, portare avanti un discorso politico o sociale.
Poniamo un esempio fantasioso che si avvicina a quello di Devotion, gioco horror taiwanese osteggiato da Pechino per i suoi contenuti satirici.
Mettiamo caso che domani il team XXX tiri fuori un gioco critico verso il governo del proprio paese d’origine (ovviamente, immaginiamolo come uno stato autoritario), magari dall’estero, in una condizione di semi-esilio.
Mettiamo caso che il gigante occidentale ZZZ faccia due più due e dica “Forte, un caso Devotion, cavalchiamolo”, acquisisca i diritti dell’opera e la pubblichi worldwide. Mettiamo caso che il gioco in questione sia particolarmente coraggioso e che denunci-in modo realistico o meno- l’esistenza di una realtà sottaciuta (crimini di stato? Reiterate violenze domestiche?), dando vita magari a una campagna virale capace di sensibilizzare i giocatori di varie fasce di età.
Sarebbe davvero morale il fatto che il principale publisher si dissoci da quelle idee, dicendo “Forte, forte ma non è del tutto roba mia”? O sarebbe più giusto, a quel punto, che quel gioco viaggi su circuiti magari più di nicchia e usando mezzi alternativi, ma con la dignità di un’opera con la chiara mission di portare un messaggio e un team di sviluppo convinto di volerlo fare?
Ai posteri l’ardua sentenza. Quel che sappiamo è che qui potrebbe essere in gioco la dignità del videogioco come mezzo di comunicazione. Non una cosa da poco.
This post was published on 13 Febbraio 2020 12:52
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