Questo 2019 è stato senza dubbio uno degli anni più prolifici di sempre dal punto di vista prettamente videoludico.
Sia il mercato indipendente che quello dei videogiochi ad alto budget hanno popolato gli scaffali fisici e digitali di noi giocatori, facendoci assaggiare videogiochi che aspettavamo da tempo (Kingdom Heats 3 e Death Stranding, ad esempio), sorprendendoci con qualche nuova IP decisamente interessante (Sekiro: Shadows Die Twice e Control, ad esempio) o riportando dal baratro qualche nome che sembravamo aver dimenticato a causa del passaggio del tempo (Resident Evil 2 e Medievil, ad esempio).
Vediamo insieme quali sono stati alcuni tra i momenti più belli ed emozionanti di questo 2019 videoludico.
Questo articolo contiene lievi spoilers su praticamente tutti (o quasi) i giochi presenti; se dovete ancora giocare determinati titoli o se avete una paura innaturale per le anticipazioni, evitate di continuare la lettura e andate invece a leggere il nostro articolo su The Mandalorian.
Cominciamo.
Partiamo subito con un momento che ci ha fatto imprecare le alte sfere e lanciare i pad in giro per la stanza in preda alla furia. Prima di questa bossfight, Sekiro: Shadows Die Twice ci aveva messo davanti a sfide complicate ma tutto sommato risolvibili.
L’arrivo di Genichiro Ashina sul palcoscenico cambia improvvisamente le carte in tavola mettendoci davanti, per la prima volta all’interno della narrativa e del gameplay, un avversario umano in grado di utilizzare sia la forza bruta che il potere del fulmine, svelato con una cutscene dopo aver eliminato il boss per una prima volta. La maggioranza dei giocatori del titolo saranno arrivati a tale momento stremati dai combattimenti precedenti e, in preda al panico e alla frustrazione, avranno subito un game over piuttosto spettacolare dopo averle prese di santa ragione da questo non particolarmente simpatico avversario.
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Kingdom Hearts 3 è, secondo chi scrive, un buon titolo riuscito a metà. Nelle trenta e passa ore di gioco che sono necessarie per completarlo, le prime venticinque sono sostanzialmente noiose e non particolarmente interessanti con mondi di gioco alle volte geniali alle volte vomitevoli. Dal punto di vista narrativo però, volendo guardare il gioco nel suo unicum, tutto quello serve come un preparativo per quello che è l’incredibile segmento finale di gioco.
Dopo aver completato San Fransokyo, Kingdom Hearts 3 cambia marcia e inizia a pigiare sull’accelleratore mettendo davanti agli occhi del giocatori una quantità di eventi e di personaggi infinita; alcune domande lasciate in sospeso per quasi dieci anni trovano risposta, altre improvvisamente compaiono dal nulla e iniziano a tempestare la mente del giocatore. Nel mentre Sora ed i suoi amici saranno protagonisti di una grande quantità di bossfights, tutte molto sopra le righe e leggermente esagerate. Nonostante la confusione narrativa generale, gli ultimi momenti di Kingdom Hearts 3 si sanno difendere in modo egregio all’interno del gioco tutti diventando uno dei segmenti più potenti emotivamente parlando di tutta la saga.
Control è un titolo tanto affascinante quanto imperfetto, sicuramente uno di quelli con le ambientazioni più riuscite in assoluto tra tutti quelli che abbiamo potuto provare quest’anno. Durante le fasi finali del gioco, dopo aver inseguito il custode della Oldest House in giro per i più assurdi luoghi intradimensionali, la nostra protagoniseta dovrà andare a mettere la parola fine sugli eventi del gioco raggiungendo la sezione denominata ricerche dimensionsali.
Sarebbe una qualsiasi altra sezione vai dal punto A al punto B se non fosse che, tra l’oldest house e la sopracitata sezione c’è un labirinto da superare chiamato labirinto del posacenere. Armati di pazienza e caricati dalla musica degli Old Gods Of Asgard (ovvero i Poets Of The Fall nel mondo fittizio di Sam Lake), nei panni di Jesse Faden, i giocatori dovranno uscire fuori da un dedalo che sembra la pazza fusione tra le atmosfere di Twin Peaks e gli incubi delle geometrie non euclidee, in un segmento di gioco che difficilmente sarà possibile dimenticare.
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Outer Wilds è un videogioco indipendente realizzato da Mobius Digital passato in sordina perché uscito in un anno pieno di grandi titoli e di grandi nomi che merita assolutamente una menzione. Il titolo è un un adventure game concentrato sul permettere al giocatore di esplorare una galassia, con i suoi pianeti ed i suoi misteri in loop temporali da 22 minuti, tutti contrassegnati dalla trasformazione del sole in una supernova come atto finale.
È molto probabile che questo evento non venga visto fin da subito dai giocatori, troppo impegnati a morire per una tra le mille altre avversità che la galassia presenta al giocatore.
State pur certi però che, in caso di presa visione dell’evento, sarà impossibile dimenticarsi l’accaduto.
Se si è nello spazio si può vedere il globo fiammeggiante ingrandirsi progressivamente per poi collassare su sé stesso e sparare via i suoi strati superficiali, ora caldi come solo una supernova può essere. Se ci si troverà su di un pianeta al momento dell’esplosione il momento risulterà ancora più poetico, con l’atmosfera ed il cielo che si colorano di sfumature mai viste per poi osservare prima il buio pesto della notte eterna e poi l’esplosione finale, giusto prima di ricominciare un altro loop di eventi.
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Ci voleva Respawn Entertaintment per permettere a Star Wars di avere un videogioco memorabile sul mercato, dopo anni di buchi nell’acqua fatti tirando lootboxes su microtransazioni. Star Wars: Jedi Fallen Order è un action game coi controcosidetti, pieno di spade laser e di stormtroopers da affrontare che ha da noi ricevuto un sacco di complimenti per mille motivi diversi che trovate nella nostra recensione.
Il titolo di Respawn ha dei momenti piuttosto emozionanti al suo interno, tra cui uno estremamente spoileroso che eviteremo di raccontarvi; ciò che invece vi portiamo in esame oggi è l’arrivo del giocatore su Kashyyk con dirottamento di un AT-AT sulle truppe imperiali presenti in loco. Quel momento mette in moto tutta la magia di cui Star Wars è fatto, mettendo insieme furbizia, tecnologia e design per dare al giocatore sensazioni meravigliose.
Con i passi lenti del camminatore, Star Wars si fa spazio nel cuore del giocatore con un momento indimenticabile per gli appassionati del brand; pianeta dopo pianeta il titolo finisce per regalare soddisfazioni sempre più grandi sino ad arrivare a momenti decisamente più iconici più in là con la trama.
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Days Gone è un titolo imperfetto, alle volte noioso, tecnicamente carente e pieno di problemi. Uno dei motivi per cui, alla fin fine, non è un’ opera da bocciare è rappresentata dalla sua narrativa, lentissima a partire ma dotata di un buon boom durante l’ultimo quarto di gioco, capace di attaccare allo schermo il giocatore facendogli provare una lunga serie di emozioni e lasciandogli il cuore palpitante in seguito a determinate scene.
Una di queste scene vede come protagonisti il nostro Deacon St John ed una sua vecchia conoscenza, di nuovo faccia a faccia dopo aver lottato con i fantasmi per i primi tre terzi del titolo. Dopo trenta ore di gioco passate a cercare tracce tangibili dell’esistenza di qualcuno, trovare una conferma è per Deacon ed il giocatore un toccasana e la difficile situazione in cui ci si troverà metterà nuovamente sull’attenti tutti quanti, stavolta alle prese con questioni decisamente più grandi e complicate di quelle prese a cazzotti fin’ora.
Il coronamento di trenta ore di narrativa nelle ultime dieci ore di gioco è una scelta rischiosa per un developer ma che, nel caso di Days Gone, ha pagato lo scotto.
Chi è riuscito a non addormentarsi a causa della storia lenta durante i primi frangenti di gioco è stato ampiamente ricompensato da tutto quello che si è visto succedere dopo.
Untitled Goose Game è stato sicuramente uno dei giochi più sorprendenti usciti fuori quest’anno, sopratutto per il concept con cui è stato tirato su. Quanti avrebbero mai pensato di potersi divertire tanto nei panni dell’oca più dispettosa del mondo?
In Untitled Goose Game il momento più emozionante che possiamo ricordare (e quello che ha fatto fare a questo gioco click nel nostro cuore) è, senza dubbio, l’inizio.
Se si avvia una nuova partita ci si ritroverà su di una radura, quella mostrata in foto con una sola scritta: premere pulsante per starnazzare.
Dal primo starnazzo in poi il gioco è tutto in discesa: c’è chi passa i primi 30 secondi a sentire ogni possibile verso eseguibile dalla nostra simpatica oca, chi passa i primi trenta secondi in preda agli spasmi del sistema di controllo, chi invece capisce che il gioco non fa per lui e chiude il tutto.
Noi, per finire innamorati delle due ore di Untitled Goose Game, abbiamo avuto giusto bisogno del suo caratteristico honk.
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Death Stranding è un gioco che è difficile considerare universalmente divertente, almeno nelle sue primissime ore.
Il gameplay è letargico, l’ambientazione è destabilizzante ed i personaggi che abitano il mondo di Sam Porter ci mettono un po’ ad aprirsi.
Dopo aver superato il prologo ed il primissimo capitolo, il titolo finisce per aprirsi come un libro nei confronti del giocatore accompagnando le peregrinazioni del corriere più famoso delle UCA con una colonna sonora emotiva ai massimi livelli.
Senza voler andare a prendere in merito i momenti legati puramente alla trama, emotivi oltre ogni misura grazie ad un character design e a una narrativa di primissimo livello (come solitamente è per i giochi firmati da Hideo Kojima), possiamo andare a chiamare in causa tutti i reveal geografici che ricompensano le esplorazioni del giocatore con nuove locations, accompagnando il tutto con una colonna sonora perfettamente adatta alla situazione puntando, come un gancio di scuola pugilistica, al povero cuore di chi gioca.
Le note di Low Roar in questo caso aiutano il giocatore in modo importante: la musica malinconica e delicata dell’autore californiano trapiantato in Islanda si adatta in modo perfetto all’america post-apocalittica descritta da Kojima; i suoi pezzi accompagnano moltissime delle scoperte di Sam Porter Bridges, nel suo lungo viaggio da un bordo all’altro di quello che rimane degli Stati Uniti D’America.
Era dai tempi di Shadow Of The Colossus che un videogioco non accoppiava, in modo così emotivo, una colonna sonora e la scoperta di nuovi elementi di gioco; quella di Death Stranding è una specie di geografia emotiva fatta di laghi di lacrime e di sorrisi ampi come le vallate che si visitano, tutti inframezzati dalla giusta colonna sonora per l’occasione.
This post was published on 12 Dicembre 2019 9:30
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