In Italia un inconveniente può diventare un’Odissea, ma non ci si scontra con Ciclopi poco furbi e sirene dal canto ammaliante. I temibili antagonisti degli eroi di tutti i giorni sono l’introvabile voglia di lavorare di certuni e le mani legate di chi dovrebbe garantire un servizio impeccabile… mani che miracolosamente diventano libere da catene quando c’è da arraffare.
Può accadere che la connessione internet faccia le bizze, soprattutto in alcune zone del nostro paese in cui davvero sembra di essersi fermati all’inizio del secolo scorso. Io sono della provincia di Napoli e spesso mi è capitato di dover far fronte a problemi tecnici che mi tenessero lontano dal mondo della rete, ma mai nulla di duraturo.
Voi non l’avrete notato, ma dal 24 giugno al 6 luglio non sono usciti miei articoli su Player.it. Perché? Perché la mia connessione Internet (Fibra Infostrada) è evaporata, così, all’improvviso. Me ne stavo tranquillo ad aggiornare la guida di Harry Potter: Wizards Unite, quando vedo che WordPress non salva più la bozza. Il mio occhio cade sul modem alla mia sinistra e noto la sparizione dei led link, internet e phone che indicano la portante, la connessione e la linea telefonica.
Ho iniziato a sudare freddo. Ho pagato le bollette? Sì, e pure salate. Chiamo l’assistenza e mi viene detto che c’è un problema (ma va’, pensavo fosse tutto ok) e che avrebbero aperto una segnalazione. Non arriva alcun sms con numero identificativo, chiamo il giorno dopo e scopro che quel consulente non aveva inviato alcuna segnalazione. L’operatrice rimane interdetta dal comportamento del suo collega e chiede scusa (be’, è un passo in avanti).
Ve la faccio breve: il guasto si sarebbe dovuto risolvere entro il terzo giorno lavorativo, ne sono passati dodici… DODICI… 12!!!
Nel mentre ho minacciato di denunciare tutto all’Agicom, i tecnici affermavano di essere venuti a cambiare cavi e quant’altro, ma con un sorriso beffardo, i centralinisti mi hanno descritto 14.000.605 possibili cause del guasto (tra cui tesi complottistiche che millantavano l’agire dei Servizi Segreti), i responsabili di Infostrada erano irreperibili e impossibili da contattare, come semidei a cui gli umani non è consentito affrontare il loro sguardo.
L’agonia è finita l’8 luglio, quando un tecnico – che io ho guardato come Romeo guardava Giulietta – è venuto a controllare la centralina nei pressi della mia abitazione. Il mio cavo era stato inserito nell’ingresso sbagliato, quello di un altro operatore. Gli alieni? Un folletto dispettoso? Boh, ma ci sono voluti dodici giorni per capire il problema e risolverlo.
Eppure, in quelle due settimane non ci sono stati né morti né feriti – e poi dicono che non ho pazienza – grazie ai videogiochi che mi hanno tenuto occupato. E qui, finalmente, arriviamo al punto della questione: che fine avrei fatto se non fossi stato un accanito sostenitore del single player?
Il single player salva vita e sanità mentale
Io con internet ci lavoro, non posso non essere perennemente connesso, ma fortunatamente questa mia dipendenza (non patologica, ma lavorativa) da internet non riguarda i videogiochi. Sono un single player, non nel senso che non ho la fidanzata – non ce l’ho, in effetti – ma nel senso che gioco solo ed esclusivamente ai videogiochi in modalità single player.
Ho un’idiosincrasia nei confronti del multiplayer online – non che quello in locale mi faccia impazzire – ma non ho avuto traumi e non sono avvenuti eventi nella mia vita che me l’abbiano provocata. È carattere: sono un misantropo, non tollero la presenza altrui mentre gioco, né a pochi metri da me né a chilometri di distanza. Voglio giocare da solo! Per me un videogioco è un’esperienza personale, introspettiva, che deve essere in grado di regalare emozioni forti.
Gameplay e storia devono andare di pari passo, un videogioco deve farmi riflettere, ho bisogno di entrare nelle vite dei personaggi, e queste dinamiche appartengono ai videogiochi in single player.
Io non sono un terrorista delle innovazioni, come si potrebbe pensare leggendo la mia filippica contro Google Stadia, ma ritengo che questa debba riguardare i videogiochi stessi, in quanto mezzi espressivi e comunicativi senza pari, e non il modo in cui questi vengono distribuiti e elargiti alla popolazione dei gamer. A me le cose come sono ora stanno benissimo e non sento il bisogno di paroloni come cloud e streaming per godermi appieno l’esperienza di un videogame.
Immaginate ora come avrei potuto passare indenne dodici giorni di mancanza di connessione internet, se fossi stato un fautore del multiplayer e se fosse successo in un’epoca senza console fisiche. Come minimo avrei dovuto fare l’insano gesto: uscire di casa. Un’attività che non consiglio.
E invece ho avuto la possibilità di continuare a giocare a Judgment, inviatomi dalla redazione per la recensione – che potete leggere qui – investigando tra le luci al neon di Kamurocho, e di perdermi tra le nebbiose e arcane vie di Oakmont nel lovecraftiano The Sinking City (leggete la nostra recensione). Ma il titolo che maggiormente mi ha fatto ringraziare di essere un single player, non uno schiavo della connessione internet, è stato Marvel’s Spider-Man che ho recuperato durante gli sconti del PSN di qualche settimana fa.
Dopo aver finito la storia principale, nell’attesa che un tecnico si degnasse di controllare la mia situazione, mi son detto: “Ma sì, prendiamo tutti gli zaini”, poi è stata la volta delle fotografie per accumulare i gettoni simbolo, poi sono passato alle sfide di Taskmaster, ai covi di Fisk, dei detenuti, dei demoni e agli avamposti della Sable. Pian pianino ho raggiunto quasi il 100% della campagna e proprio mentre provavo un nuovo costume sbloccato, il tecnico, ieri, mi ha fatto la grazia.
Grazie al single player, operatori, consulenti e familiari – che non c’entrano nulla, ma i raptus sono imprevedibili – hanno avuto salva la vita, mentre io ho salvaguardato la mia sanità mentale. Poi dicono che i videogiochi fanno male.
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