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Speciali

La dura vita dello sviluppatore di videogiochi

Quando l’altro giorno mi è balenato in mente di scrivere una guida su come diventare un game developer, mi sono tornate in mente tutte quelle volte in cui, raccontando di cosa mi occupo, la risposta è stata “Ah che bello il tuo lavoro, sembra così divertente!”. Certo, il mio lavoro mi piace e non lo cambierei con nessun altro mestiere al mondo, ma posso assicurare che di tutte le cose che può essere, divertente non è una di queste.  Sviluppare videogiochi è stressante, molto più di quanto possa sembrare dall’esterno, e prima di illustrarvi come farne la vostra professione penso che sia necessario mettervi in guardia sui motivi per cui potrebbe non essere il lavoro per voi. Lungi da me volervi scoraggiare, sia chiaro, ma prima di buttare anni della vostra vita inseguendo un sogno è bene che sappiate cosa vi potrebbe aspettare. E nel caso in cui tale idea non vi sia mai neanche balenata per la mente (non ci credo!), spero che questo articolo vi possa aiutare a capire meglio cosa succede nella vita di chi i vostri giochi preferiti li ha sviluppati.

DISCLAIMER: questo articolo parlerà principalmente degli aspetti negativi della vita del game developer. Ci sono ovviamente anche molti aspetti positivi in questo lavoro e li vedremo progressivamente nei prossimi articoli. Per il momento concedetemi di trascurarli e di guardare solo al lato oscuro del GameDev.

Posto fisso, questo sconosciuto

Un anno fa Gamasutra ha pubblicato un articolo dal titolo “Il grande esodo” nella quale spiegava come moltissimi sviluppatori stessero abbandonando l’industria a causa, tra le altre cose, della mancanza di stabilità e prospettiva futura. Il motivo di tale instabilità è intrinseco del “ciclo di vita” del videogioco: si inizia solitamente da un concept, un prototipo di piccole dimensioni che serve a capire se il gioco può potenzialmente divrtire il pubblico e se è tecnicamente fattibile rientrando in certi criteri, sviluppato da poche persone. Una volta ricevuto il via allo sviluppo, il progetto rimane nascosto fino a quando non è praticamente pronto, quindi annunciato e a stretto giro di vite rilasciato.  Escluse alcune persone che continuano a mantenere il progetto in vita, la fine di un progetto crea una forte instabilità: una volta terminato il progetto, non è detto che ci sia un seguito o che esso venga messo in lavorazione immediatamente dopo il rilascio del primo titolo. E anche se il titolo vende bene, potrebbe non essere abbastanza! Negli ultimi anni abbiamo assistito a casi in cui studi di un certo livello (leggasi TellTale) sono falliti nell’arco di una notte, lasciando decine di persone disoccupate, alcune persino assunte da pochi giorni. Tim Schafer e la sua Double Fine avrebbe subito lo stesso destino senza l’intervento provvidenziale di Will Wright, come spiegato dallo Schafer stesso in un commovente discorso durante la GDC 2018. Insomma, anche trovando un contratto a lungo termine, non è detto che duri.

Questo problema è più comune nei piccol-medi studi, i quali sono molto pù soggetti a chiusura a fine progetto, soprattutto se il titolo non ha raggiunto i risultati di vendite sperati. Le grandi case dal canto loro hanno quasi sempre qualcosa in lavorazione e possono facilmente spostare personale da un progetto all’altro. Questo porta però ad un altro problema, la mobilità. Prendiamo Ubisoft come esempio: la casa francese ha sedi in praticamente tutto il mondo, dal Canada alla Francia, passando per Singapore, Hong Kong e persino Ucraina. Per evitare di perdere il posto potreste essere costretti a muovervi dall’altra parte del mondo, letteralmente.

Sedi Ubisoft. Speriamo che vi piaccia viaggiare

La salute dopo di tutto

Rimanendo in argomento grandi sviluppatori, negli ultimi anni sono state pubblicate molte storie di (spesso ex) dipendenti i quali rivelavano pratiche scorrette, abusive, e alle volte persino lesive, per controllare i propri impiegati.

Tra tutti questi problemi il più subdolo e preoccupante è il crunch, ovvero l’incapacità di staccare mentalmente da un progetto, finendo di conseguenza per soffrire di ansia, stress, e persino crisi nervose. Questo problema è stato a lungo sottovalutato dalle case di sviluppo, le quali incoraggiavano i propri dipendenti a restare in ufficio il più possibile, soprattutto in prossimità della data di rilascio del prodotto. Alcune storie riportano casi in cui alcune aziende offrivano pizze e bibite a cena, facendole recapitare ogni sera in ufficio, sperando di convincere gli sviluppatori a rimanere a lavorare. Con sempre più casi di crunch pubblicati nelle riviste di settore, alcune aziende hanno adottato misure di contrasto come ferie forzate o chiusure anticipate dell’ufficio per evitare orari di lavoro inadeguati.

Il trend medio non è affatto positivo. FONTE: Gamasutra

Bisogna comunque evidenziare che il crunch non è solamente indotto dall’esterno, ma in alcuni casi può essere  auto-indotto. Lavorare ad un prodotto videoludico genera un forte legame affettivo misto ad un senso d’identificazione con esso. In alcune persone questo legame diventa così forte da risultare morboso, come nel caso di Phil Fish il quale contemplò il suicidio durante lo sviluppo di Fez.

Il crunch non è comunque l’unico modo che le case hanno per controllare i propri dipendenti. Nei contratti lavorativi viene spesso indicato un periodo di lunghezza variabile in cui al dipendente viene impedito di lavorare nello stesso campo. In altre parole, se vi licenziate o semplicemente vi scade il contratto, non potrete lavorare nello stesso settore per mesi, se non anni. Le grandi compagnie non vogliono assumersi il rischio di trasferire parte delle proprie tecnologie ad un competitor, e ve lo fanno firmare nero su bianco. Inoltre, sempre per lo stesso motivo, viene spesso vietato da contratto di sviluppare giochi nel proprio tempo libero, pena il licenziamento in tronco, come recentemente successo ad un dipendente di Valve.

Ciò che è stato visto non può essere cancellato

Più che un problema, è una maledizione. Più inizierete a studiare i videogiochi, più passerete il tempo ad analizzarli con occhio critico in ogni possibile aspetto, riducendo ogni partita ad una analisi tecnica. Vedetelo un pò come il grafico di Dunning-Kruger in cui avete il godimento al posto della convinzione: dopo aver imparato i primi concetti inizierete avederli ovunque con entusiasmo, ma col passare del tempo diventerete sempre più analitici, fino a quando non riuscirete più a godervi una esperienza senza vivisezionarla in ogni singolo aspetto.

Per fortuna c’è anche il rovescio della medaglia. A furia di trovarvi nella posizione opposta, il vostro livello di empatia verso i colleghi crescerà in maniera esponenziale. Ovvio che ci sarà sempre il gioco che vi farà dire “ma con che coraggio hanno fatto una cosa del genere?”, ma saranno sempre meno. In fondo, quel qualcuno potreste essere voi, e sapete benissimo che per ogni problema c’è spesso una spiegazione razionale.

Il giorno della marmotta

Questo punto è di fondamentale importanza e lo approfondiremo quando parleremo dei ruoli nel mondo del GameDev, ma fare videogiochi è estremamente ripetitivo. Come in ogni squadra che si rispetti, la specializzazione individuale è fondamentale per avere un prodotto di qualità elevata. Negli studi di ridotte dimensioni può capitare che un artista si possa occupare di più ambiti o che un game designer si occupi di mettere insieme sia città che paesaggi, ma all’aumentare della dimensione dello studio aumenta anche il livello di specializzazione che la casa pretende. Non ci credete? Chiedetelo ad Eidos, dove una persona ha lavorato per due anni esclusivamente sul mantello di Batman. Due anni lavorando solo sul mantello. Fate voi.


Due anni, ok. Ma un gran bel risultato!

Per quanto ogni ruolo venga colpito in proporzione diversa da questa maledizione, chi davvero ne soffre sono i tester, più formalmente i QA (Quality Assurance). Capita spesso di invidiare queste figure pagate per giocare il gioco ore ed ore al giorno, ma non c’è nulla di più sbagliato. Chi si occupa di QA gioca 8 ore al giorno ad una porzione specifica del gioco, non al gioco stesso. Facciamo l’esempio del menù opzioni: per essere certi che funzioni, è necessario testare sistematicamente ogni singolo bottone (e/o combinazione di bottoni) all’interno del menù stesso, sia nella pagina principale del gioco sia in game. E se qualcosa non funziona? Si segnala ai tecnici, si aspetta che arrivi un presunto fix, e si riparte da capo, per essere sicuri che il fix non abbia introdotto a sua volta un altro bug. Riuscireste a non impazzire?

E’ tutta una critica

Nessun lavoro è esente da critiche, ma quando si lavora con una platea particolare come quello dei videogiocatori il rischio è molto più alto. Il pubblico dimentica spesso che dietro un prodotto digitale ci sono dalle decine alle migliaia di persone che dietro a quel lavoro hanno sputato sangue in condizioni spesso non ideali. Basti pensare alla reazione di Cory Balrog all’uscita di God of War, e a come il suo pianto abbia dimostrato la passione che stava mettendo nel proprio lavoro. Insomma, per poter lavorare nel mondo dei videogiochi bisogna saper fronteggiare la pressione delle critiche, sensate o becere che siano, lasciando le risposte ai responsabili delegati dalla propria azienda, a costa di dover ingoiare un intero stagno di rospi.

Ma le critiche esterne non sono le uniche che un GameDev deve fronteggiare. Durante tutto il processo di sviluppo idee nascono, vengono implementate, e spesso muoiono senza mai vedere la luce del giorno. Interi giochi vengono completati e mai distribuiti perché ai piani alti la trovano una scelta non appropriata per il marchio!

Una particolare mensione in questo caso la meritano i concept artists, i quali hanno il compito di definire lo stile artistico del videogioco. E’ molto comune che disegnino decine e decine di volti o accessori per un singolo personaggio, in modo da poter favorire la discussione col resto dei team ed arrivare ad un prodotto condiviso. Di decine e decine di schizzi, bozze ed idee solo una verrà ulteriormente sviluppata e alla fine implementata. Capire che le critiche servono a migliorare il prodotto e non sono personali è un passo fondamentale non solo per migliorare individualmente ma anche per evitare di non sentirsi apprezzati.

In un gioco, 9 su 10 verrebbero scartate. FONTE Oscar Napuri ArtStation

Nelle prossime puntate

Vi sentite abbastanza spaventati? Spero onestamente di no. Questo approfondimento vorrebbe far capire che fare videogiochi non è solo divertimento come spesso si tende a credere. E’ soddisfacente, è stimolante, ed è il sogno che abbiamo sempre avuto, ma bisogna anche fare i conti con la realtà e capire che come ogni lavoro ha i suoi aspetti negativi. Se siete ancora determinati ad entrare nel fantastico mondo del GameDev, nei prossimi articoli vedremo nel dettaglio quali sono i ruoli più richiesti e quali percorsi possono essere intrapresi per costruirsi una carriera attorno ad essi. Se avete suggerimenti o domande per i prossimi episodi, non peritatevi a scriverle nei commenti!

This post was published on 3 Agosto 2019 14:20

Riccardo "The Gametist" Galdieri

Da bambino non riuscivo ad addormentarmi senza che mio padre si mettesse vicino a me a giocare al PC. Per forza di cose, negli anni, ho fatto mio questo amore, divorando tutto ciò che poteva stare su un Floppy. Crescendo, questo amore è diventato una professione: ad oggi sono un Freelance Game Developer (con esperienza nell'ambito della gamification legata ai beni culturali) e dottorando in Interazione Uomo-Macchina per ambienti virtuali immersivi alla Scuola Superiore Sant'Anna. Quando non faccio follie come guidare una vecchia macchina da Londra alla Mongolia, vivo di videogiochi. Li creo, li studio, li recensisco.

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