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Speciali

Memorie di un videogiocatore #3 | Kingdom Hearts 2

Per me i videogiochi sono pane e vita quotidiana da quando ho 3 anni. Da bambino passavo i miei interi pomeriggi dietro a titoli come Crash Bandicoot, Spyro, Gran Turismo, Age of Empires 2 o Final Fantasy VII, nonostante le barriere linguistiche e le mie limitate capacità di comprendonio non mi aiutassero a completare questi giochi spesso troppo grandi per me.

Parlare di un videogioco, o meglio del primo videogioco che mi abbia ispirato è dunque più difficile del previsto, per me. In parte perché ho giocato un quantitativo abbastanza imponente di svariati titoli nel corso degli anni che ormai non riesco quasi più a ricordarli tutti, dall’altra perché proprio per questo motivo esistono davvero pochissimi titoli che mi abbiano toccato nel profondo in un modo completamente nuovo o unico, ed è quindi per me quasi impossibile sceglierne uno rispetto agli altri.

Se dovessi sceglierne uno forzatamente, con una pistola puntata alla tempia, direi istintivamente Kingdom Hearts 2. Ho cercato di analizzare questa mia risposta, cercando di capire che cosa si nasconda dietro alla mia esperienza con questo titoli, di come mi abbia influenzato e se effettivamente si tratti del primo videogioco che mi abbia davvero toccato nel profondo.

 

 

Giocai Kingdom Hearts 1 tra la seconda e la quarta elementare, in un’età in cui avevo già imparato a leggere in un modo abbastanza scorrevole ed in cui le mie capacità di comprensione e risoluzioni di problemi, videoludici o meno, probabilmente erano superiori a quelle che ho attualmente.

Con calma e perseveranza, divorai il titolo di Square Soft innamorandomi del concetto di un mash-up tra i protagonisti della Disney e quelli dei Final Fantasy, tra i quali spiccava Cloud Strife che ho riconosciuto immediatamente dai miei anni PS1. Inutile dire che ero più che hypato per il suo finale a cliffhanger, e in un’epoca in cui l’informazione non era così tanto accessibile come oggi, non avevo la minima idea di quando avrei potuto rivedere i Sora&Friends.  

Quando vidi per la prima volta lo spot pubblicitario italiano di Kingdom Hearts 2, nel settembre del 2006, non feci in tempo ad elaborare la cosa che mi misi ad urlare dentro casa, eccitato come non mai. Fu un chiodo fisso, ma non chiesi ancora ai miei di acquistarmelo perché sapevo che prima di Natale non avrei visto un bel niente.

Come un fulmine a ciel sereno, invece, mio padre riuscì a “procurarsi” una copia e me la fece trovare al mio ritorno da una giornata di scuola.

 

 

Ricordo ancora le prime note di Sanctuary ed il filmato di apertura di KH 2, che riassumeva in parte la storia del primo capitolo e di Chain of Memories, titolo di cui ignoravo completamente l’esistenza e di cui quindi non sapevo proprio niente. Quando vidi Roxas per la prima volta mi sentii dunque un po’ estraniato, perché non avevo ancora capito cosa fosse successo a Sora e chi fosse quel nuovo protagonista.

Fortunatamente il lunghissimo prologo del titolo era riuscito ad aggiornarmi in parte sulla situazione, e grazie agli inquietanti flashback/sogni di Roxas capii a grandi linee che Sora era scomparso e profondamente legato al nuovo protagonista. Deciso a voler capire cosa ci fosse dietro a tutti gli strani eventi di Crepuscopoli, non mi diedi per vinto e continuai a giocare al titolo, stringendo un forte legame col Nessuno di Sora che, piano piano, stava iniziando a spezzarsi sotto al peso della verità.

Dopo uno dei momenti più deprimenti e toccanti (“Looks like my summer vacation is…over” rimarrà stampato nel mio cervello fino alla mia morte) non rimasi deluso: non appena rividi Sora, Paperino e Pippo per la prima volta dopo un anno (che per un bambino è un tempo infinito), mi risentii subito a casa, con un calore dentro di me che mi faceva star bene, qualcosa che andava oltre il mero intrattenimento che i videogiochi mi avevano dato fino a quel momento. Sentivo di aver rincontrato un vecchio amico, e questa sensazione continuò per tutto il gioco.

 

 

Nonostante già all’epoca sentissi un po’ la mancanza di sezioni platform, “enigmi” ed il feeling di gioco che mi aveva dato KH 1, fui estasiato dalle modifiche apportate nel secondo capitolo, dalla velocità e spettacolarità del nuovo sistema di combattimento grazie alle Fusioni e ai Comandi di Reazione, e da tutti i risvolti ed i colpi di scena della trama che all’epoca mi sembravano inarrivabili ed inimmaginabili (sigh). 

Ma il culmine di quest’esperienza arrivò solo alla conclusione del gioco, mesi dopo il primo avvio della mia partita: il tenerissimo finale in cui Sora e Riku riescono a tornare alle Isole del Destino, ricongiungendosi con tutti i loro amici con sotto le note di Passion – After the Battle.

La prima volta che vidi quella scena piansi a dirotto nella mia cameretta, sentendo allo stesso tempo un vuoto siderale ed una gioia immensa dentro al mio cuore. Per me fu la prima volta che versai lacrime non per dolore fisico, non per qualche capriccio, ma per una genuina emozione positiva ed adulta, grazie ad un messaggio ed un’opera che era riuscita a smuovere le mie interiora per la prima volta.

Dopo KH 2 toccò a Shadow of the Colossus, Metal Gear Solid 3, Final Fantasy VII (che rigiocai stavolta con una sufficiente comprensione dell’inglese), Xenoblade Chronicles (attualmente il mio videogioco preferito) e così via. Ma il primo a farmi capire quanto il medium videoludico fosse importante e capace di grandi cose è stato Kingdom Hearts 2. 

 

This post was published on 13 Giugno 2019 11:08

Riccardo Liberati

Classe 1997, cresciuto immerso dai libri, cartoni e videogiochi, ho sempre desiderato e provato fin dalla tenera età a creare storie fantasiose che rendessero un po' più brillante la mia vita monotona. Ho trascorso l'infanzia in solitaria, giocando a quanti più titoli possibili, spaziando dai vecchi J-RPG di Square Enix fino ai più violenti sparatutto su PC, non disdegnando nel frattempo RTS, platform e giochi di corse automobilistiche. Alle superiori riesco finalmente ad aprirmi e a trovare dei compagni con i miei stessi gusti e sogni, e capisco che non amo tanto i videogiochi, quanto la cultura ed i messaggi dietro di essi, gli stessi che ho sempre trovato nei libri, film e qualsiasi altro tipo di medium artistico. Inizio a lottare per questo concetto scrivendo all'impazzata ed accrescendo la mia cultura ancor di più, sia attraverso la scuola che attraverso gli incontri e le persone d'ogni giorno. Questo bel sogno finisce con l'arrivo all'università, periodo peggio di qualsiasi film horror che abbia mai visto e che mi costringe a mollare tutto e rifugiarmi nella mia Fortezza della Solitudine per tre anni, perdendo interesse e linfa vitale per qualsiasi cosa. Nel frattempo ho lavorato in numerosi settori, dall'aiuto vendita al libraio al tutor privato, e nel 2018 inizio a scrivere per Player.it, il mio primo incarico ufficiale come giornalista videoludico e che mi ha formato moltissimo sia nell'ambito dei videogiochi che in quello della scrittura basilare. Oggi ho ripreso a studiare grazie alla scelta repentina ed irrazionale di iscrivermi alla Scuola Holden di Torino, luogo da cui vi scrivo, abbandonando casa per la prima volta ed il luogo natale di ogni mio piccolo successo e grande fallimento. La mia speranza? Quella di poter riuscire a trovare una strada ben delineata, facendo quello che mi piace fare senza dovermi sottomettere a nessuno

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