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Speciali

[Dietro le Apparenze] La bellezza nell’umiltà delle piccole cose

Il mondo dei videogiochi, soprattutto nelle ultime generazioni, è andato incontro ad una diversificazione ed un’evoluzione senza precedenti. Più binari paralleli si sono dipanati nel condurre il giocatori su viaggi verso destinazioni diametralmente opposte sia dal lato tecnico che dal punto di vista contenutistico. Ci troviamo in una situazione in cui c’è un gioco, piccolo o grande che sia, passando da titoli mediocri fino ad arrivare a capolavori senza tempo, per tutti i gusti. Ed è proprio questa biodiversità che va conservata, sostenendo anche le piccole produzioni delle realtà dei publisher di titoli con valori produttivi medi o AA e gli studi indie che riescono a portare sul tavolo portate ricercate, raffinate o squisitamente naif. Per questi motivi vorrei spingervi a riflettere sul perché non bisogna bastonare determinate produzioni, ignorarle o bollarle come roba di altra generazione o non degne di attenzione.

L’abito non fa sempre il monaco

Innegabilmente il colpo d’occhio, soprattutto in un’epoca di sviluppo tecnologico come il nostro rispetto ai mezzi disponibili soltanto a dieci o quindici anni fa, vuole sempre di più la sua parte e rivestire un ruolo importante in una produzione. Ben venga quindi, soprattutto in titoli con certe ambizioni, aspettative ed investimenti dietro, il voler puntare ad una raffinatezza tecnica, al fotorealismo senza cascare nel baratro dell’uncanny valley e a soluzioni avveniristiche per abbacinare lo spettatore. Risulta quindi legittimo pretendere di vedere i muscoli da console e PC che si fanno pagare una certa cifra e dotate di un hardware di un certo livello. È altresì vero che, nonostante i mezzi esistenti al giorno d’oggi, non tutti gli studi sono in grado, spesso per limiti economici e/o di forza lavoro, di offrire comparti tecnici avanguardistici. Ciononostante il risultato finale che raggiungono queste produzioni è altrettanto notevole e degno di nota.

 

Spesso, non solo per esigenze ma anche per specifiche scelte stilistiche, si opta per sentieri differenti. Low poly, Cell Shading, Pixel Art, 2D-hand drawn, Anatomia Toon-like e super deformed, non sono per forza di cose da inquadrare in un armistizio nei confronti della tecnologia, in pigrizia nel completare il progetto con il minimo sforzo, in un “hipsterismo” esasperato. La pochezza di poligoni e di dettagli, un preciso cromatismo spiccato, la scelta di disegnare a mano i fondali o di proporre uno specifico stile, sono parti integranti del gioco per poter comunicare qualcosa di specifico al giocatore, per suscitare specifiche emozioni e per toccare specifiche ed intime corde. Ed è così che prodotti come la “poverà” descrittiva sul lato grafico di Ashen o il minimalismo e il potenziale evocativo di prodotti come Monument Valley o SuperHot diventano valori aggiunti notevoli piuttosto che motivi di scherno per queste produzioni.

Ashen riesce a valorizzare la propria “grafica scarna” trasformandola in un suo tratto identitario affascinante

È un assunto sbagliato considerare un prodotto superiore ad un altro in senso assoluto in nome del solo livello tecnico. Non deve accadere nella musica, quando un grezzo punk o grunge riesce a creare riff inossidabili e a trasmettere sensazioni e messaggi ben precisi in modo “altrettanto” valido rispetto ad una squisita composizione jazz. Non accade nel mondo dell’arte quando nel pantheon delle opere pittoriche trovano posto cubismo, fauvismo e dipinti naif al pari della perfezione tecnica classica nella ricerca del vero. Non succede nell’universo fumettistico dove si siedono al tavolo dei vincitori un melting pot di stili che spaziano dalla rappresentazione realistica, al linguaggio visivo nudo e crudo di opere come Maus al ruvido e al violento Milleriano.

Una grafica essenziale e minimale come quella di Journey riesce ad essere estremamente evocativa e funzionale

Ed è per questo che la veste grafica e stilistica non è solo specchio del budget, ma è identità e elemento finemente caratterizzante di un’opera che, senza quello specifico comparto visivo cucito su misura, avrebbe tutt’altro senso e sapore. Ed è per questo motivo che determinate opere non vanno paragonate e non sono paragonabili, soprattutto se il metro di paragone assoluto per descrivere il livello qualitativo di un’opera si limita solo ed esclusivamente al livello tecnico raggiunto, ignorando contesto, scelte stilistiche e forze in campo.

Perfezionare il vecchio, sperimentare il nuovo

Il sottobosco che popola le produzioni dal basso e dei titoli AA è un bioma interessante ricco di specie che strizzano gli occhi a varie epoche di gioco. Parliamo di titoli in grado di spaziare in più epoche ludiche e di riportare in auge specifici generi esprimendosi secondo declinazioni nuove. Parliamo di un manierismo positivo, di presa a modello di grandi classici di un passato remoto coadiuvato da innesti, contaminazioni di altri generi, in cui gli allievi superano i maestri come è giusto che sia. Ed è così che generi come il metroidvania, il run and gun ed il platform più puro ritrovano nuova linfa vitale in queste produzioni.

Hollow Knight è un perfetto esempio del passato che ritorna protagonista alla grande grazie al mondo degli indie

Ci troviamo quindi di fronte a nuove opere che conservano la memoria storica videoludica, rendono generi appetibili e innovativi con aggiunte che rinfrescano generi che, potenzialmente considerati i contesti attuali, non hanno molto da dire a questa generazione. I titoli indie e a basso e medio budget sono quindi ciò che spesso è in grado di soddisfare le nicchie. A fronte di specifici sforzi economici e necessari ritorni d’investimento, appare molto difficile che un titolo che riguardi una specifica ambientazione, che tratti particolari tipi di tematiche o che offra soluzioni di gameplay sperimentali, futuristiche possa essere presente in modo particolarmente rappresentato nel mondo dei AAA e delle grossissime produzioni.

È caratteristica intrinseca dei mercati ad alto budget il non esporre il fianco a conseguenza di manovre ardite e l’inserire novità a piccole dosi. Inoltre parliamo di titoli che devono, per forza di cose, andare incontro alla soddisfazione del palato di una platea molto vasta e che quindi devono rimanere in certi canoni. Sicuramente tutto ciò, questo conservatorismo, non è necessariamente da etichettare in ottica negativa. Il mercato dei AAA, infatti, trova sempre il mondo di uscire dallo staticismo, e riesce comunque a reinventarsi pur portandosi addosso il fardello di far quadrare i conti e di dover piacere a tutti.

Viaggi unici e particolari

Esperienze sentite e meravigliose come Gris, in grandi produzioni, sarebbero probabilmente impossibili da proporre con lo stesso stile ed efficacia

Se non ci fosse questo mercato, si perderebbe un patrimonio prezioso che è estremamente funzionale per l’evoluzione del media e per l’attività ludica ed esperienziale dei giocatori. Privare il media videoludico di questo effetto prismatico che permette l’indie corrispondere ad impoverire il media sia sul lato prettamente contenutistico e ludico, sia per quanto riguarda la prospettiva culturale e sociale. Sarebbe quantomeno ingiusto togliere ai giocatori quello spettro di emozioni che solo i prodotti di nicchia riescono ad offrire.

Senza questa fascia di prodotti non avremmo mai infranto più volte la quarta parete e riflettuto su tematiche etiche tra umani e mostri nello splendido prodotto di Toby Fox, non avremmo riprodotto la realtà con cubi in grado di tradurre la nostra fantasia nei voxel di Minecraft e non avremmo potuto provare empatia ed immedesimarci con un controllore dell’immigrazione alla frontiera nel meraviglioso Papers, Please.

Ori è il perfetto esempio di titolo “umile” che è in grado di rivaleggiare con i titoli AAA ed emergere con personalità e merito

Difficilmente avremmo avuto modo di viaggiare nel tempo accompagnati dal suono di un violino in Braid o per una lussureggiante foresta cieca in compagnia di Ori. Non avremmo vissuto così intimamente il rapporto di due fratelli o, magari, di due detenuti in opere come Brothers e A Way Out. È improbabile che senza un “mercato di mezzo” avremmo potuto compiere viaggi nel deserto tra voli e canti di Journey o la disillusione di animali antropomorfi specchio di tematiche attualissime. Di sicuro, se non ci fosse stato questo panorama ricchissimo, non avrei potuto scalare una “spaventosa” montagna nelle vesti di una ragazza dai capelli rossi in Celeste, viaggiare dritti verso i sogni in To the Moon.

Non sarei riuscito a vivere la rivoluzione delle IA fatta di quadratini colorati dai nomi e dalle personalità uniche di Thomas Was Alone. Non avremmo potuto vivere drammi adolescenziali tra realtà e sovrannaturale, tra ragazze da capelli colorati e radioline magiche di Oxenfree o vivere il dolore della perdita dei cari in modo così intimo e confidenziale come in Gris. Quindi ben vengano le produzioni umili, imperfette, intime e di nicchia che ci riserva il panorama indie e AA. La bellezza non è solo nella magnificenza delle grandi opere ma, come nella realtà che ci circonda, anche nelle piccole cose.

 

 

 

 

This post was published on 24 Aprile 2019 14:38

Jonathan Campione

Ho ricevuto la mia prima console la notte di Natale del '97. Grazie all'idraulico baffuto di Nintendo ho scoperto la mia passione per i videogiochi. Sono un giocatore eclettico, amo i titoli indie e non disdegno nessun genere o piattaforma. Da un paio d'anni scrivo di videogiochi e cerco di sfatare i luoghi comuni e punto ad offrire spunti di riflessione importanti riguardanti questo settore.

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