Mi stavo preparando a scrivere il consueto articolo settimanale, che poteva riguardare o no The Evil Within 2, quando mi sono imbattuto in un pezzo pubblicato su una nota rivista che, da appassionato delle opere del Solitario di Providence, mi ha fatto un po’ gelare il sangue e mi ha spinto a correggere il tiro, puntando sul rapporto tra il primo The Evil Within e Lovecraft.
È così, cari lettori, che l’appuntamento numero 29 della rubrica della Tana dell’Orso riguarderà il primo capitolo della serie firmata dal creatore di Resident Evil, Shinji Mikami, e pubblicata da Bethesda Softworks nell’Ottobre del 2014, per PC, PS3, PS4, Xbox 360 e Xbox One.
Il casus belli ruota attorno a una frase in particolare, in cui viene scritto che The Evil Within affonda le proprie allucinate radici nelle opere di H.P. Lovecraft.
Chiariamo subito questo aspetto: no, non è così. E non è soltanto la mia opinione da quattro soldi: è lo stesso ideatore del gioco a confessare, in un’intervista pubblicata su Wired, che se c’è un’eventuale influenza lovecraftiana si tratta semplicemente di una coincidenza. Diversa è la situazione che riguarda le atmosfere di Resident Evil, sempre a detta dello stesso Shinji Mikami, e forse da lì qualcosa è sgocciolato in The Evil Within.
Ma no, The Evil Within non ha subìto alcuna influenza diretta dalle opere di Lovecraft. Almeno, non consapevolmente.
Perché le vie oniriche e le entità occulte, che lurkano appena fuori dal campo visivo e svaniscono quando le scorgiamo per un istante con la coda dell’occhio, sono sempre in agguato e, in un certo senso, fanno parte della nostra memoria collettiva.
Si parte da una situazione apparentemente normale: degli investigatori di polizia vengono inviati in un manicomio, la scena del crimine di una serie di efferati delitti. E fin qui niente d’insolito.
Ben presto, però, iniziano le visioni e le apparizioni decisamente weird, nell’accezione lovecraftiana del termine. Quasi subito la squadra si disgrega, e ci ritroviamo soli, disarmati, terrorizzati e impotenti dinanzi alla malvagità che alberga dentro l’essere umano. The Evil Within, appunto.
Certo, gli orrori che incontriamo in un primo momento sono ben visibili e tangibili, ma all’inizio non possiamo affrontarli: la nostra unica possibilità di salvezza è rappresentata dalla fuga più precipitosa e disperata.
Ok, fin qui ci sta. In fondo è un gioco del genere survival horror, in cui alla fine dei conti è possibile sconfiggere il Big Bad Evil Guy, mentre nelle opere di Lovecraft c’è l’orrore più puro e atavico, quello contro cui l’unica difesa possibile è il gelido abbraccio della follia.
Quanto potrebbero essere terrificanti le figure scaturite dall’immaginario di Howard Phillips, come uno Shoggoth o addirittura un Grande Antico, se potessimo vederle alla luce del Sole e soprattutto potessimo affrontarle armati di tutto punto, insieme a una squadra di nostri alleati?
«Tekeli-li! Tekeli-li!»
«Eat lead!» [Raffica di .223 Remington]
+100 punti Player se avete colto la citazione da Tropic Thunder.
Se bastassero due o tre colpi di fucile a pompa, o addirittura un quadrello di balestra tra gli occhi, per buttare giù l’orrenda creatura che ci insegue in un corridoio buio e asfissiante, allora probabilmente oggi nessuno leggerebbe più i Miti di Cthulhu.
Se un lanciarazzi riuscisse ad avere ragione dell’orrore cosmico che assedia i recessi più oscuri della nostra mente, allora non avremmo motivo di stare qui a discutere di aria fritta.
Quindi sì, fidiamoci di Shinji Mikami quando dice che l’influenza lovecraftiana qui è del tutto accidentale. Eppure qualcosina c’è. Vediamo insieme cosa riusciamo a trovare.
Nel corso del gioco ho individuato una serie di tematiche e topoi narrativi ricorrenti, che possono essere individuati anche nelle opere di Lovecraft.
Si va dall’indagine dell’occulto che conduce alla follia, fino alle allucinazioni e alle visioni di tempi passati, passando ovviamente per gli orrori inspiegabili e per gli scambi di coscienze con annessi viaggi nel tempo e nella mente.
Riassumendo con l’accetta, durante il gioco veniamo a scoprire che gli strani accadimenti, gli strani incontri con strane creature, e tutta la strana storia in generale, avvengono in una sorta di mondo virtuale, un’emulazione che gira nel cervello torturato e intrinsecamente malvagio di un certo Ruvik: la figura incorporea, incappucciata e sfigurata che più volte ci viene incontro minacciosa.
Andando a fondo nella vicenda, veniamo a sapere che questo mondo coinvolge più entità: menti connesse tra loro tramite una macchina chiamata STEM; coscienze che condividono memorie, pensieri, fobie, sensazioni e le reazioni biochimiche che, in fondo, vanno a formare la psiche umana.
Le menti connesse sono come dormienti, e insieme sognano quello che, a causa del tormento e dell’odio covati dalla nemesi del gioco, si trasforma in un incubo che peggiora a ogni reiterazione.
Il nostro, quindi, è un viaggio in una dimensione parallela, un po’ come la Terra dei Sogni in cui muove i suoi passi il Randolph Carter del Ciclo dei Sogni di Lovecraft.
Solo che qui, invece dello sconosciuto Kadath e del Caos Strisciante, incontriamo mostri orrendi, terrori nascosti e, soprattutto, iniziamo a scorgere i neri frammenti d’umanità corrotta che si nascondono nella psiche distorta che sorregge la baracca.
Ruben Victoriano, Ruvik per i suoi amici le sue potenziali vittime, è la mente che sogna questo mondo onirico. Vittima innocente dell’odio scaturito dalla lotta di classe, Ruvik si ritrova chiuso in sé stesso, in un corpo e in una mente terribilmente sfigurati dall’incendio che ha tolto la vita a sua sorella.
Nella sua reclusione auto-imposta, il risentimento, l’odio e la solitudine distillano fino a diventare una squisita grappa di follia, che sul palato esplode con note di genialità, crudeltà, l’occasionale omicidio e soprattutto tanta voglia di… sperimentare. Sui pazienti del Beacon Mental Hospital, che Ruvik finanzia generosamente con il patrimonio ereditato dopo aver ucciso i genitori.
Lobotomie, torture, indagini nella mente umana e tentativi di scavare a fondo nella psiche altrui. Fisicamente, con uno strumento aguzzo.
Tutto questo porta Ruben / Ruvik a ideare STEM, una macchina progettata per alterare la realtà e riunirsi alla sorella morta in quell’incendio doloso.
Se non che, come capita spesso, gli Illuminati la Massoneria i Poteri Forti la Spectre l’organizzazione segreta Mobius ci mette lo zampino, Ruben viene agguantato per la collottola e, con una certa brutale efficienza, il suo brillante e precoce cervello viene liberato dal grezzo fardello delle spoglie mortali.
Il cervello di Ruvik si ritrova a essere, letteralmente ed esclusivamente, la mente che sogna il mondo. La sua psiche, e -in misura nettamente inferiore- quella dei soggetti usati in sostanza come plug-in, può influenzare direttamente la realtà percepita e vissuta da chi è intrappolato nel sogno stesso. Tutta la faccenda mi ricorda molto i concetti di Godhead, CHIM e Amaranth di The Elder Scrolls.
Ma torniamo a noi. Ruvik tenta costantemente di scappare dalla sua prigione mentale: cerca di svegliarsi, per tornare nel mondo reale e vendicarsi dei tormenti inflitti dalla Mobius. Se si svegliasse, però, il mondo onirico verrebbe a cessare… proprio come, nelle opere di Lovecraft, succederebbe alla nostra realtà se Azathoth si svegliasse.
Mentre il sonno del Caos Nucleare è salvaguardato dalla sua blasfema corte di danzatori ottusi e amorfi, che lo cullano con il sottile e monotono lamento d’un flauto demoniaco stretto da mani mostruose, quello di Ruvik è legato alla macchina STEM, progettata da lui stesso e ora trasformata nella sua prigione e nel suo tormento.
Il piano dell’organizzazione Mobius prevede la sostituzione di Ruvik, geniale ma crudele e soprattutto pazzo, con il più mansueto e controllabile Leslie.
Leslie è, in un certo senso, l’immagine speculare di Ruben: il secondo è impazzito e ha ucciso la propria famiglia, mentre il primo ha assistito impotente all’assassinio della propria, e questo lo ha reso delirante e quasi catatonico.
Nel gioco gorgoglia poche parole, è mentalmente instabile e dimostra più volte un’indole e un comportamento spiccatamente infantili. Nel corso dell’avventura ci sentiamo portati a proteggerlo e lo rincorriamo nel suo inconsapevole avvicinamento al centro della ragnatela: l’occhio di Sauron, il faro della follia che proietta il suo raccapricciante fascio di luce blasfema dal Beacon Mental Hospital. E beacon, letteralmente, significa faro.
Il manicomio in questione, per qualche motivo munito di faro, è al centro del mondo onirico intessuto dalla psiche di Ruvik; al centro dell’universo di Lovecraft, come abbiamo già visto, c’è Azathoth, e se raggiungesse Ruvik anche Leslie diventerebbe un dio cieco e idiota che gorgoglia al centro dell’universo, proprio come il Demone Sultano, il Caos Primigenio che sogna la nostra realtà.
Spoiler alert!
Cosa che puntualmente accade, almeno in parte: nel finale Ruvik riesce a prendere il controllo del corpo di Leslie, forse unendo la propria coscienza a quella dello sventurato paziente, poco prima che il cervello al centro dello STEM, ultimo residuo fisico di Ruben, venga distrutto dal protagonista.
Sogni nei sogni, visioni e scambi di menti, cervelli e coscienze.
Ok, a questo punto posso dire che il metaplot, per così dire, che lega i vari capitoli di The Evil Within mi ricordano parecchio La cosa sulla soglia: manicomi, una misteriosa forza esterna, possessioni di spiriti, scambi di coscienze, entità che cercano di dominare il corpo di sventurati soggetti, eccetera.
Nel racconto di Lovecraft pubblicato nel 1933, leggiamo che il signor Derby, un appassionato di occulto, finisce in manicomio, e l’investigatore di turno scopre che Asenath, la moglie di Derby, era stata posseduta dallo spirito di Ephraim, il padre di lei; quest’entità sinistra stava cercando di impossessarsi dell’occultista, per cui Derby ha cercato di difendersi uccidendo la moglie posseduta.
Lo scambio di coscienze avviene ugualmente, alla morte della donna: Ephraim indossa il corpo di Derby, e lo sventurato si ritrova nel cadavere putrescente di Ephraim.
È proprio questo ammasso di putrefazione che si presente alla soglia dell’investigatore, per chiedergli di uccidere il corpo di Derby e lo spirito usurpatore che lo abita. L’investigatore soddisferà la richiesta e per questo finirà in galera, ma non è dato sapere se il cadavere di Derby sia stato cremato, distruggendo anche lo spirito di Ephraim, o se l’entità sia ancora in giro.
In The Evil Within ci sono parecchie somiglianze: Ephraim è indubbiamente Ruvik, Derby potrebbe essere Leslie ma anche il nostro personaggio Sebastian Castellanos, e l’investigatore è la nostra collega Juli Kidman, che cerca più volte di uccidere Leslie.
Come abbiamo già visto, il simbolo del manicomio, nonché segno della presenza dell’occhio vigile di Ruvik, è l’icona del faro.
Un fascio di luce, quindi una radiazione elettromagnetica, che in The Evil Within porta con sé l’attenzione e la volontà della mente che sorregge la realtà: una volontà folle, che altera il mondo e le menti che riesce a toccare.
Lo stesso vale per le ondate di energia psichica e per le onde sonore emesse da Leslie e da Ruvik: manifestazioni visibili e/o udibili, nonché piuttosto tangibili, della follia che attanaglia le loro menti.
Nel 1928 Lovecraft pubblica The Colour Out of Space, tradotto in Il colore venuto dallo spazio, in cui uno strano meteorite precipita sulla terra. I frammenti prelevati evaporano, svanendo gradualmente nel nulla, e la flora e la fauna dei dintorni iniziano a mutare e a diventare aspri e terribili.
Gli umani esposti alla strana luminescenza del meteorite, inoltre, discendono sempre di più nella follia, finché l’entità contenuta nel meteorite non torna nello spazio, tramite un potentissimo raggio di luce. Una parte dell’entità siderale, però, resta sulla Terra, facendo impazzire anche il protagonista.
Il faro di The Evil Within rimanda al raggio di luce su cui viaggia, in sostanza, il colore; il frammento rimasto può essere collegato al residuo di psiche di Ruvik, che poi finisce nel corpo di Leslie; il tocco della follia è auto-esplicativo, così come l’influenza quasi radioattiva che muta il mondo circostante; infine anche le creature di The Evil Within evaporano, in un certo senso, sciogliendosi in un liquido che il protagonista usa per vari upgrade.
Nel Ciclo dei Sogni scritto da Lovecraft, il nostro Randolph Carter esplora una realtà onirica alla ricerca della conoscenza ultima; nel finale della saga, scritto da Lovecraft insieme a E. Hoffman Price, Carter si ritrova intrappolato nella mente di un’entità aliena, e riesce a liberarsi soltanto narcotizzando l’ospite e usando uno speciale macchinario per tornare nel presente e sulla Terra.
Il protagonista di The Evil Within, Sebastian, si ritrova intrappolato nella mente di un’entità che scoprirà essere Ruvik, esplora questo mondo onirico per cercare di liberarsi, e ben presto capisce che la via per la libertà passa dalla conoscenza; ricostruisce le vicende di Ruben / Ruvik, in un certo senso con l’ausilio di farmaci e di uno speciale macchinario, e alla fine riesce a tornare nel presente e sulla Terra. Insieme all’entità stessa, ma questi sono dettagli.
Joseph, uno dei due colleghi di Sebastian, a un certo punto ci confida che gli capita di accarezzare il pensiero del suicidio, e quasi di giocarci crogiolandosi nel pensiero di saltare giù da un palazzo, o di gettarsi sotto un treno che arriva.
Anche Lovecraft, come leggiamo in alcune delle sue lettere, fantasticava più o meno sulle stesse intenzioni, arrivando a descrivere in dettaglio i migliori metodi per porre fine alla propria vita.
A trattenerlo, però, non c’è Sebastian, ma il sentimento dell’adventurous expectancy, unito alla consapevolezza che alcuni tramonti del passato, forse vivibili di nuovo nel futuro, potrebbero celare l’accesso a una condizione di libertà e letizia, e una percezione superiore in grado di osservare simultaneamente tutte le forme e le combinazioni di bellezza del cosmo.
La traduzione è mia e può essere approssimativa, ma il senso della lettera è quello.
Anche Joseph è dinanzi a una forma perversa di elevazione: quella che deriva dal malvagio influsso di Ruvik, che lo porta a mutare fisicamente e mentalmente e che, probabilmente, lo spinge verso pensieri suicidi.
Se da una parte, quindi, le tematiche oniriche, l’introspezione figurata, il viaggio verso la pazzia e all’interno di essa, la regressione umana e l’influenza della psiche sulla realtà sono tematiche piuttosto comuni negli scritti del Solitario di Providence, dall’altra gli orrori di Lovecraft non sono tali da poter essere affrontati e sconfitti, salvo che in rarissimi casi.
Ok, Wilbur Whateley viene neutralizzato da un cane, ma di norma gli orrori cosmici non si accoppano con un lanciarazzi.
No, speronare Cthulhu con un battello a vapore non conta come kill, per quanto la cosa possa piacerci.
Se non avete disdegnato The Evil Within e vi piacciono gli ospedali creepy e le atmosfere lovecraftiane, quelle pure e comprovate, vi suggerirei di buttarvi su Call of Cthulhu, il videogame uscito nell’Ottobre del 2018. Ne ho scritto una sorta di recensione criptata, che sfido qualunque lettore a decifrare prima di leggerne la soluzione riportata nella recensione meno weird linkata poc’anzi.
Se invece preferite immergervi nei giochi di ruolo, allora Il Richiamo di Cthulhu, da poco aggiornato da Raven Distribution, è quello che fa per voi. Sì, The Call of Cthulhu e Il Richiamo di Cthulhu sono in sostanza la stessa cosa, ma i nomi dei giochi non li scegliamo mica noi!
A questo punto, com’è ormai consuetudine, non resta che darci appuntamento per il prossimo Mercoledì, e rimandare l’analisi di The Evil Within 2 al Mercoledì ancora successivo.
This post was published on 17 Aprile 2019 19:30
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