Nel corso della precedente puntata di Sezione Aurea abbiamo avuto modo di vedere come Osamu Sato ha lavorato ai primi due giochi della sua carriera, mischiando i sentori buddisti con tutta una serie di corrente artistiche prese dai precedenti cento anni di storia dell’arte del mondo. Oggi andiamo a vedere quella che, a conti fatti, resta anche oggi la più importante opera di Sato e cosa ha combinato dopo aver raggiunto il suo apice.
Prima di lavorare al suo titolo più noto Osamu Sato si è dedicato ad una coppia di videogiochi educativi per bambini portando, nel mondo dell’edutainment, il suo caratteristico stile visivo e le sue intuizioni anatomiche fuori da ogni logica.
Roly-Polys Nanakorobi Yaoki (ローリーポーリーズの七転び八起き) e Roly-Polys World Tour (ローリーポーリーズの世界旅行) sono i videogiochi risultanti da tale esperimento.
Questi due videogiochi sono stati rilasciati, come i precedenti, unicamente per PC e Mac nel corso del 1997 e sono stati sviluppati prevalentemente dalla software house Outside Directors Company con lo stesso Osamu Sato a capo del progetto. Purtroppo i titoli in questione sono stati stampati in copie limitate a causa dello scarso successo commerciale, motivo per cui al giorno d’oggi sono sono praticamente introvabili; la stessa release europea della serie fu annullata qualche mese dopo l’annuncio a causa del disinteresse dei publishers al progetto.
Purtroppo dei titoli esistono pochissime immagine promozionali e qualche sparuto video su Youtube che ne mostra le caratteristiche. Rispetto ai titoli precedenti di Sato ci troviamo con videogiochi più strutturati anche graficamente parlando; le ambientazioni, pur avendo cromie e colori decisamente fuori dai canoni, sono comunque di respiro familiare e sono praticamente assenti i riferimenti alla psichedelia o alle religioni orientali che hanno caratterizzato i precedenti titoli del designer nipponico.
I Roly-Polys alla fine dei conti rimangono dei videogiochi terreni, con ambientazioni verosimili abitate dai tipici personaggi di Sato. Sebbene non estremi come nei due precedenti videogiochi dell’autore, anche la saga di Roly-Polys è abitata da figure oblunghe e colorate in modo surreale. Le figure realizzate dall’immaginazione di Sato sono geometricamente semplice e terribilmente inespressive a prescindere dalla situazione che stanno affrontando; anche in questo contesto più family friendly.
Niente di tutto questo poteva però lasciare immaginare cosa sarebbe accaduto con il successivo titolo.
Il motivo per cui nel 2019 i videogiochi di Osamu Sato sono qualcosa di non esattamente sconosciuto è rappresentato da LSD: Dream Emulator, un videogioco di culto che ha avuto addirittura modo di infiltrarsi all’interno della cultura pop, finendo per diventare protagonista della campagna promozionale per l’uscita dell’ultimo album degli Alt-J.
L’emulatore di sogni ragionato da Sato è stato però concepito non come un videogioco ma, direttamente, come una specie di enorme performance artistica in cui l’autore si è impegnato a mettere su joypad il diario dei sogni tenuto da un suo collaboratore, il pittore Hiroko Nishikawa.
LSD: Dream Emulator in tal senso è estremamente lontano dal come i videogiochi venivano intesi sino a quel momento poiché non esiste una narrativa, il gameplay è praticamente solo accennato e non c’è alcun sistema di punteggio.
Modernamente potremmo chiamare LSD: Dream Emulator un Walking Simulator poiché il linguaggio ludico con cui il titolo comunica al giocatore è esattamente quello; tale classificazione purtroppo non rende giustizia a ciò che davvero caratterizza il titolo, motivo per cui la critica mondiale consiglia di approcciarsi al raro videogioco per Playstation senza alcun tipo di preconcetto.
LSD: Dream Emulator è più un happening, una performance artistica, un esperimento folle su CD-ROM. La grafica è al 95% composta da modelli poligonali texturizzati, ciò che non è rappresentato attraverso la terza dimensione è spesso uno sprite disegnato con lo stile folle delle opere di Sato piene di forme semplici e di colori saturi, le texture sono alle volte slavate, alle volte inseguono il gusto della materia del materismo pittorico.
Le ambientazioni di LSD: Dream Emulator hanno permesso alla follia cromatica di Sato di prendere definitivamente il sopravvento; nel corso del titolo ci ritroveremo a viaggiare per abitazioni rassicuranti, in pieno stile nipponico o in infiniti campi erbosi sovrastati da un cielo blu scuro.
Come in ogni sogno che si rispetti avremo l’occasione di arrivare a saggiare la grandezza di un safari nella giungla africana, l’emozione del viaggiare all’interno del cavo intestinale di non si sa quale gigante, la possibilità di camminare su caleidoscopi di colori solo per farci poi salutare da una gigantesca luna dotata di volto, che nel contempo ci vomiterà addosso raggi e fasci di luce.
Spiegare l’aspetto visivo di LSD è quantomeno complicato perché non esiste un’interfaccia sulla quale basarsi, non esiste un qualcosa a cui fare appiglio; proseguendo avanti con l’esplorazione e con le ore di gioco, l’engine messo a punto da Sato inizia a complicare le cose.
LSD:Dream Emulator inizia a giocare con chi ci sta interagendo man mano che si prosegue nella sua esperienza, modificando texture e iniziando a confondere le carte in tavola, esattamente come quando ci si ritrova consapevoli della natura del proprio sogno; così facendo ci si ritroverà a osservare edifici con volti umani, cieli che sembrano fatti di cioccolata e luoghi che finiranno per diventare le ambientazioni per i vostri incubi più cupi.
LSD: Dream Emulator finisce per chiudere con una bellezza straniante un trittico di videogiochi impossibili da giudicare senza considerare l’aspetto visivo. Il titolo riesce a rendere universali le ambientazioni oniriche descritte attraverso il buddismo dei due capitoli precedenti attraverso il tema del sogno; nel farlo continua a donare agli abitanti di questi mondi per sempre perduti anatomie che non possono esistere e figure che risulta difficile immaginare. Osamu Sato sembra pulire e stranire l’orrore cosmico che tanto abbiamo imparato ad apprezzare nel mondo dei videogiochi attraverso uno spirito tra il naif e il bambinesco.
La mosca bianca delle produzioni di Osamu Sato può essere identificata in Tokyo Wakusei Planetokio, un curioso ibrido tra adventure game e gioco di ruolo uscito sulla prima Playstation durante il 1999.
Tokyo Wakusei Planetokio è un videogioco dalla trama piuttosto demenziale e dallo stile grafico pulito che mai si direbbe proveniente dallo stesso designer che ha dato i natali ai titoli descritti nella precedente puntata di Sezione Aurea.
Spalmato su 3 dischi, Tokyo Wakusei Planetokio racconta la storia di Iken, un fattorino che lavora per un ramen-shop posizionato al di sopra del quartier generale della squadra di difesa chiamata Planetokio, una specie di piccola declinazione dei Super Sentai all’interno dell’immaginario di Osamu Sato. Il nostro protagonista dovrà correre per i vari quartieri di Tokyo alla ricerca degli alieni da abbattere a colpi di una speciale pistola, cercando nel frattempo di completare le consegne tipiche del suo lavoro.
Una trama semplice e molto cartoneesca, spiegata attraverso un sacco di dialoghi (per di più doppiati) con tantissime cutscenes tra un momento e l’altro del titolo; Tokyo Wakusei Planetokio è lontanissimo dai precedenti esperimenti del designer nipponico all’interno del medium videoludico.
Ci sono due frangenti del titolo ove è possibile però riconoscere in modo importante la sua influenza: il comparto musicale, debitore di una certa IDM e di tutta la musica elettronica acido/psichedelica venuta fuori nel corso dei passati anni, e nelle cutscenes, colorate e registicamente imbizzarrite. Queste ultime alle volte sembrano essersi ispirate, in un modo o nell’altro, a quella follia che fu la serie animata chiamata Reboot ed hanno un feeling plasticoso che alle volte sembra richiamare i folli esperimenti fatti con le immagini fisse di Eastern Mind o Chu-Teng.
L’ultimo videogioco realizzato da una software house guidata da Osamu Sato è Rhythm N’ Face, un curioso ibrido tra rhythm game e puzzle game con techno/pop, estetica bauhaus e gameplay votato alla creatività più totale; un canto del cigno niente male per uno che ha fatto della creatività visiva il suo mantra.
Il giocatore avrà il compito di ricostruire, forma per forma, una faccia in un curioso duello tra due personaggi mostrato ai lati dello schermo utilizzando quelle che sono le forme geometriche fondamentali secondo i dettami della scuola di architettura tedesca Bauhaus.
Il titolo chiede al giocatore di fare questo seguendo le indicazioni di uno dei personaggi che compare al lato dello schermo; queste indicazioni vengono date a ritmo di musica e suggeriscono ove posizionare all’interno della griglia un forma ben precisa. Ogni movimento fatto all’interno della griglia farà partire un effetto sonoro generato in base al livello e perfettamente in armonia con la canzone che in sottofondo starà scandendo lo scorrere del tempo.
Rhythm N’ Face finisce per essere, così, un’ antesignana versione di quel capolavoro mizuguchiano conosciuto come Lumines.
Rhytm N’ Face riduce tutto all’essenziale: i massimalismi cromatici di Osamu Sato vengono ridotti a schermate fisse dotate di flash e color cycles selvaggi, vanno via i modelli poligonali e la grafica tridimensionale per lasciare spazio a personaggi disegnati attraverso un gradevole bianco e nero; le animazioni e le composizioni sono semplici, molto squadrate e funzionali alla causa.
Il succo del titolo, una volta tanto, è il gameplay.
L’esperienza di gioco del titolo di Osamu Sato è divertente, gradevole, sorprendentemente fresca anche ai giorni nostri; Rhytm N’ Face si dimostra un piccola viaggio a occhi aperti all’interno di volti nuovi da scoprire di volta in volta, attraverso nuove composizioni tra le tre semplici forme della scuola tedesca.
Impossibile non fare un parallelo con quella che è la produzione musicale dell’autore nipponico, un vortice di forme e riferimenti che sono indirizzati in territori generalmente poco battuti per colori e utilizzi.
Il più grande riassunto del come egli si sia approcciato al mondo dei videogiochi si può trovare all’interno del suo primo libro, chiamato “The Art Of Computer Design”.
“As in music, when using the computer to create graphics you begin with a vague image. You begin to create something, and this is followed by the appearance of various new ideas in your mind. You don’t create by following directions. You create because you want to make something new. That is the wish. Different people have different ways of creating, but the computer is an ideal tool for all.”
Alla ricerca di qualcosa di nuovo, Osamu Sato si è semplicemente divertito con una nuova macchina, senza seguire nessuna direzione prestabilita ed ha dato libero sfogo al suo sentore artistico. La ricerca visiva che già Osamu Sato portava in grembo con questa trilogia di videogiochi ha raggiunto dei picchi incredibili per il medium, sfiorando la psichedelia più assoluta raggiunta in precedenza soltanto da game designer come Jeff Minter.
This post was published on 31 Marzo 2019 12:00
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