Osamu Sato è un musicista, designer e programmatore giapponese divenuto famoso (per voler usare un’ iperbole) a causa della paternità di LSD: Dream Emulator, uno dei titoli più allucinanti e di nicchia dell’intera ludoteca Playstation 1. Il suo stile onirico e psichedelico è uno dei più caratteristici all’interno della ristretta cerchia di personaggi del settore che si sono immischiati nel nostro mondo, quello dei videogiochi.
Nel corso di questa puntata di Sezione Aurea andremo a guardare dall’alto alcuni momenti della produzione artistica di Osamu Sato all’interno del mondo dei videogiochi osservando quelle che sono state le sue ispirazioni artistiche e andando a dare uno sguardo approfondito a ciò che ha significato Sato per l’industria dei videogiochi.
Buona lettura!
Osamu Sato è un artista giapponese nato il 14 Aprile del 1960 a Kyoto che si è occupato anche dell’aspetto visivo di una serie di videogiochi tra Macintosh e Playstation 1. Durante il 1989 fondò uno studio creativo chiamato Out Side Directors Company dove, nella posizione di direttore, si sarebbe occupato della supervisione e della realizzazione di progetti riguardanti la grafica, l’animazione e la musica.
Queste tensioni creative di Sato nel corso degli anni novanta sono sbocciate in una serie di progetti a sfondo videoludico che attraversano il mondo dei videogiochi per andare a mischiare musica psichedelica, progettazione grafica e cultura onirica. Il primo prodotto legato al mondo dell’informatica che è stato realizzato da Sato è un manuale chiamato “the Art of Computer Design: A Black and White Approach” edito nel 1992. Successivamente l’autore giapponese ha regalato al mondo sette differenti videogiochi tra Playstation 1 e Personal Computer.
Durante il corso degli anni Duemila Osamu Sato abbandona lentamente il mondo dei videogiochi per concentrarsi sulla produzione musicale, altra sua grande passione e in parallelo lentamente rilascia le grinfie dal mondo del graphic design per approdare al mondo della fotografia consegnandosi al lato più artistico delle produzioni creative moderne.
L’Osamu Sato che noi andremo ad osservare è quello che nel corso della sua carriera ci ha regalato una serie di titoli onirici e psichedelici completamente fuori dai normali schemi legati al mondo dei videogiochi; tutti i titoli realizzati da Sato in un modo o nell’altro sono enormemente pregni di quello che è il tratto artistico dell’autore, segno stilistico che si può trovare in mille parametri differenti tra cui l’impostazione delle (folli) identità grafiche.
I lavori dell’autore vivono in bilico tra alcuni sentori del futurismo, i rigori geometrici e i formalismi tipici del Bauhaus tedesco e le cromie dell’avanguardia russa.
Il primo titolo con cui Osamu Sato si introduce nel mondo dei videogiochi è Easter Mind: The Lost Souls Of Tong Nou, una specie di avventura grafica myst-like con cui l’autore mette subito in chiaro la sua poetica e la sua visione del mondo.
Il titolo si presenta immediatamente come un groviglio di stili e di materiali diversi: sprite bidimensionali, fotografie, modelli trimensionali, oggetti animati in claymotion e chi più ne ha più ne metta.
La trama del titolo è già di per se piuttosto curiosa: nei panni di Rin, il giocatore si troverà a dover ricomporre la propria anima viaggiando nei vari settori in cui è divisa l’isola di Tong Nou.
Questo isolotto, localizzato geograficamente nell’oriente più estremo, è letteralmente una fotografia ritoccata e virata su di un verde acido della testa dello stesso Osamu Sato.
L’isola di Tong Nou, nonostante sia essenzialmente composta da un cranio umano e da ciò che lo compone è forse una delle cose più artificiali e oniriche che l’uomo abbia mai partorito.
Come dichiarato dallo stesso Sato all’interno della sua unica intervista fatta in tempi recenti, il titolo è dichiaratamente influenza dal vivere quotidiano dell’artista e dall’ambiente in cui è vissuto. Qui ritroviamo il buddismo, il concetto di reincarnazione, un mondo completamente alieno che ricorda alcuni dei prodotti artistici venuti fuori con la proliferazione della psichedelia durante gli anni sessanta.
Ad un’ analisi approfondita le ambientazioni estranianti dell’isola/testa possono risultare come la materializzazione (quasi secondo i dettami dell’espressionismo) dei processi che regolano la nascita e la morte dei pensieri dell’uomo. La cosa che più sorprende di tali creazioni è che, alla fine, sono semplicemente degli sfondi che servono a mettere in risalto creazioni ancora più allucinate e assurde.
In Eastern Mind ciò che davvero lascia il segno è il character design, assolutamente sopra le righe e completamente sconnesso da ogni nozione di anatomia o da ogni rappresentazione del reale. Le creature del gioco sono modelli tridimensionali estremamente grezzi dove Sato si diverte ad attaccare nasi, bocche, orifizi, occhi e peli alla rinfusa. Il risultato finale di tale operazione fa rassomigliare i personaggi del designer nipponico ad un incrocio tra il prodotto di una rete neurale malfunzionante e una raccolta di maschere appartenenti alla corrente artistica naif.
Questo titolo, in tutta la sua dissonanza cromatica e nella sua osticità estrema (non solamente limitata al campo visivo del giocatore), è il punto di partenza per Sato che si impennerà con il suo titolo successivo, un titolo dalla gestazione complicata. L’importanza artistica di Eastern Mind: The Lost Souls Of Tong Nou ha fatto finire il titolo all’interno della collezione del The Strong National Museum of Play, uno dei più importanti musei mondiali riguardanti il medium ludico nel suo complesso.
Nonostante il precedente Eastern Mind non fosse diventato un successo commerciale, l’impeto creativo di Osamu Sato andava soddisfatto e l’artista giapponese si impegnò nella realizzazione di un suo seguito spirituale chiamato Chu Teng, unicamente uscito per Macintosh e tristemente scomparso da qualsiasi tipo di scaffale. Se al giorno d’oggi possiamo parlare e analizzare Chu-Teng in qualche modo è unicamente grazie a un manipolo di utenti anonimi della board /vr/ di 4Chan, capaci di grandi cose quando non ci sono di mezzo gli insulti.
La storia di come poi l’internet abbia ottenuto una copia fisica di Chu Teng è meravigliosa ma particolarmente fuori luogo, motivo per cui vi consigliamo di leggere questo articolo di Killscreen.
Osamu Sato, anche in questo gioco, prende, fagocita e rimastica tutto il buddismo che ha potuto vivere nel corso dei suoi anni precedenti per tirare fuori nuovamente un’ambientazione fuori canone: il nostro Rin, reduce dal recupero della sua anima all’interno del titolo precedente, questa volta si dovrà imbarcare in una missione ancora più folle. Salvare il paradiso arrivando al suo centro, chiamato Chu Teng, per ritrovare il volto di Nanshu, servitore del nobile Suinshin. La caratteristica più importante di Nanshu è la sua capacità di immergersi nelle nubi oscure che minacciano l’eterna tranquillità del Chu Teng. L’ambientazione del titolo sembra essere particolarmente ispirata al concetto del Devaloka, ovvero un piano di esistenza comune nelle religioni di matrice indù dove divinità e deva coesistono in una pace eterna.
Stavolta l’ambientazione si sposta nell’etere celeste e con essa cambiano leggermente i toni con cui il titolo viene graficamente e artisticamente costruito. L’impatto grafico diventa più omogeneo perché Sato sceglie di utilizzare quasi in completa prevalenza la grafica tridimensionale con i suoi modelli poligonali; i fondali pre-renderizzati che compongono gli sfondi acquisiscono una consistenza plasticosa, con delle colorazioni in bilico tra il grigio della nebbia ed il viola shocking di alcuni interni; la palette potrebbe essere stata tranquillamente rubata ad un Wassily Kandinsky.
Anche qui dove la follia diventa parte fondamentale dell’esperienza è nel character design, ancora più stralunato, geometrico e impossibile di quello presentato da Sato in Eastern Mind. I personaggi di Chu Teng sono semi-divini, sono esseri in grado di dividere le loro essenze e possiedono le caratteristiche tipiche di un dipinto cubista con differenti prospettive fuse in un’ unica forma. Basta citare, ad esempio, il sopracitato Nanshuu: un corpicino composto da un torso e una testa, entrambi di colore viola e giallo; la testa di tale creature possiede nove occhi disposti a raggiera lungo il bordo del suo “volto” mentre il corpo è composto da un cerchio cavo al cui interno è presente uno strano simbolo, dal colore metallico.
Rispetto al precedente titolo l’identità visiva si bassa maggiormente sulle sacre creature che abitano Chu Teng; le ambientazioni, complice anche l’omogeneizzazione degli stili grafici utilizzati. Gli abitanti del paradiso, almeno nella testa di Sato, sono incredibilmente grotteschi ed esagerati, hanno dalla loro dei vizi e delle movenze che chiaramente li elevano ad un livello superiore di esistenza e creano nelle misere menti degli umani unicamente confusione.
Chu Teng è il secondo titolo di Osamu Sato e risulta essere, artisticamente e visivamente parlando, il più debole; non ci sono i mille stili folli di Eastern Mind e non ci sarà nemmeno la velleità completamente artistica che animerà il prossimo gioco di Sato. Un figlio imperfetto che rischiava di andar per sempre perso nel flusso dell’industria videoludica nipponica di metà anni novanta.
Nel corso della prossima puntata di Sezione Aurea andremo ad analizzare LSD: Dream Emulator e i capitoli finali dell’avventura videoludica di Osamu Sato.
This post was published on 24 Marzo 2019 12:00
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