Sebbene sia quasi scomparsa ai giorni nostri, la saga di Wipeout è una di quelle più culturalmente importanti per il mondo dei videogiochi per una grandissima quantità di motivi: la prima trasposizione del racing game alla F-Zero in tre dimensioni, la prima incursione nel mondo mainstream della musica rave inglese, una delle prime grandissime collaborazioni tra un grande studio di designer e il mondo dei videogiochi.
Lo studio di design in questione si è sciolto qualche anno fa in seguito a problemi di tipo monetario ed è stato estremamente emblematico per moltissimi momenti della scena musicale elettronica inglese legata al genere IDM o alla famosa etichetta Warp Records, nota per essere una specie di portone d’ingresso per un genere musicale di estremo impatto durante gli anni novanta.
All’interno della saga di Wipeout, specie nei primi tre capitoli grazie all’incredibile lavoro del team di The Designer’s Republic, i giocatori hanno potuto saggiare una degli immaginari futuristici più allucinanti mai potuti osservare nel corso di tutta la nostra storia.
In questa puntata di Sezione Aurea vedremo insieme di cosa stiamo parlando e perché lo studio inglese The Designer’s Republic è riuscito a scolpire il proprio nome nella storia dei videogiochi con un unico ma indimenticabile brand.
È impossibile parlare di Wipeout senza prima dare un’ infarinata generale sull’identità e sulle persone che si nascondono dietro il nome di “The Designer’s Republic”.
Lo studio inglese fu fondato nel 1986 dal grafico inglese Ian Anderson per la creazione di volantini promozionali per una band musicale; da lì lo studio si è prima espanso acquisendo al suo interno uno scultore/musicista chiamato Nick Philips, poi si è iniziato pian piano a sedimentare all’interno dell’industria grafica inglese attraverso le loro collaborazioni continue con il duo inglese Age Of Chance, facendo anche arrivare la cover del 12 pollici “Don’t Get Mad… Get Even! (The New York Remixes)” all’interno di alcune classifiche a tema.
Da quel momento il lavoro dei The Designer’s Republic si è andato sempre più a stabilire come un’espressione graficamente impeccabile di una certa controcultura e di una certa attitudine anti-tutto; basterebbe nominare la finta industria Pho-Ku e tutto il messaggio anti-corporazioni attorno ad esso per mostrare la potenza virulenta delle idee dei designer inglesi.
Il concetto stesso della corporation e del futuro distopico determinato soltanto dal capitalismo è uno dei tratti fondamentali che verrà utilizzato maggiormente dallo studio inglese all’interno di Wipeout stesso.
Durante gli anni novanta lo studio, prima di dedicarsi anche al mondo dei videogiochi, si impegnò nel creare e sintetizzare l’identità visiva della copertina di musica elettronica Warp Records (inglesi, con sede a Sheffield) disegnando anche copertine diventate poi immortali: parliamo di massimi nomi dell’ambiente come Autechre o Aphex Twin, ma anche di artisti meno importanti che poi compariranno affiancati allo studio inglese come Fluke.
Lo studio, a metà anni novanta, deciderà di gettarsi all’interno del mondo dei videogiochi lavorando prima su Wipeout, poi sul misconosciuto Hardwar per Pc, continuerà realizzando poster e packaging per il primo Grand Theft Auto uscito nel 1997 e si eclisserà infine lavorando sui successivi capitoli del racing game di Psygnosis.
Fuori dal mondo dei videogiochi lo studio grafico non si fermerà mai; tra i progetti a cui Ian Anderson & soci hanno partecipato troviamo:
Il tutto, purtroppo, si concluderà con una bancarotta nel 2009; questa porterà Ian Anderson a riconsiderare le dimensioni dello studio rimpicciolendo di molto i lavori su cui poi si getteranno successivamente senza però perdere il piglio e l’immaginario che li avevano caratterizzati durante la golden age dei loro lavori.
Fatta questa breve introduzione è ora di tornare a ciò che ci interessa, ovvero il mondo di Wipeout.
È il 1995 e all’interno degli studi di Psygnosis, ora conosciuta universalmente come SCE Liverpool Studios, troneggia il dev-kit della primissima console Playstation. Gli sviluppatori Jim Bowers e Nick Burton decidono di creare un videogioco ispirato ai racing games di Nintendo come Mario Kart o F-Zero cercando di prendere ispirazione da ciò che succedeva intorno a loro in quel momento
Tra il Big Beat, i Prodigy, la scena rave anglosassone e mille altre cose tirano fuori il primo concept per Wipeout.
La storyline del gioco parte dal 2004, anno in cui viene scoperto un modo per ottenere l’antigravità, e serpeggia lungo i due secoli successivi narrando, tramite biografie e infografiche, le storie che circondano le più grandi corporazioni del gioco.
Queste si mostrano vicendevolmente i denti partecipando alle corse su veicoli volanti che hanno caratterizzato da sempre il mondo di gioco e il gameplay di Wipeout.
Il mondo di Wipeout è diviso in differenti aziende megalitiche, corporazioni come la Feisar (Federal European Industrial Science and Research), le industrie Auricom, le industrie Qirex e così via.
I vari logotipi e le varie identità visive, oltre ad essere perfettamente inquadrabili all’interno di un periodo storico futuribile, si rifanno allo stile che ha reso famosi i lavori dello studio inglese.
In moltissimi logotipi ed in moltissime scelte visive ci si può accorgere di come The Designer’s Republic abbia scelto di guardare a ritroso e osservare con attenzione ciò che li aveva ispirati nella creazione dell’estetica Warp Records, senza però disdegnare un’ occhiata alla cultura nipponica, agli ideogrammi e al mondo orientale nel suo complesso numero di stilemi.
Per i titoli della serie Anderson sceglierà di utilizzare alcune tipologie di carattere davvero particolari per composizione: aste gigantesche con linee di cesura, discendenti tagliate e/o striminzite, utilizzo libero di glifi e simboli commerciali, morbidezza estrema contrapposta a geometria glaciale: il tutto genere un senso di asettica violenza visiva dove ogni singolo tratto grafico viene utilizzato per generare profitto, esattamente come nell’ottica delle grandi corporazioni.
La tipografia risulta essere solo una delle mille componenti del branding presente all’interno del titolo, dove l’esotismo dei katakana diventa logo, dove le linee di costruzione e le griglie diventano immagine, dove il gioco tra vuoti e pieni si fa prepotente: wireframe, senso di tridimensionalità, colori accesi, bicromie violente, schermi a matrice passiva e decine di altri piccoli riferimenti.
Forse uno dei punti più alti di tutta la produzione wipeoutiana legata al graphic design la si può ritrovare nelle immagini coordinate legate alle varie corporazioni: in primis i loghi delle varie aziende hanno uno stile incredibile, tra freddi angoli rette e sinuose curve matematicamente calcolate; essenzialmente ogni logo potrebbe essere rubato ed utilizzato per la creazione di un azienda nel mondo reale e nessuno riuscirebbe a sospettare dell’origine puramente ludica delle forme usate.
Forse unico punto debole legato a quest’aspetto è l’utilizzo all’interno dei primissimi capitoli del gioco di un’interfaccia piuttosto grande, con ingombri di notevoli dimensioni e non sempre comodissima da usare; nel corso degli anni la stessa è stata pian piano rifinita sino a raggiungere lo zen più assoluto nel corso della modalità zona presente negli ultimi, pregevolissimi capitoli della saga.
La veste grafica del titolo, pur soffrendo un po’ lo scarso numero di poligoni dovuti alla potenza non infinita di Playstation, viene valorizzata in modo totale dalla cura che la The Designer’s Republic ha applicato nella realizzazione dei dettagli del mondo di gioco; cartelloni pubblicitari, segnaletica stradale, frecce disegnate secondo le regole della matrice passiva, pattern di cubi colorati in successione ed una palette di colori intrisa della notte tipica dei rave anglosassoni.
Anche quando le piste sono ambientate all’interno di giornate soleggiate l’atmosfera rimane tra il plumbeo e l’inquietante, con pad boost a terra colore blu oltremare e neon sparsi per l’intera sede della gara; questi ultimi daranno poi accesso al giocatore ad un arsenale di tutto rispetto.
L’unico logo amico in tutto questo discorso appartiene alla bevanda energetica Red Bull, presente all’interno di Wipeout XL su PS1 sotto forma di sponsor per il titolo di Psygnosis; il resto del titolo viaggerà sui soliti colori acidi, su dei bicromatismi violenti, su una resa visiva da futuro allucinato che non vuole né mottegiare il cyberpunk né la space opera lucasiana. Il mondo delle corse futuristiche di Wipeout, a distanza di oltre venti anni, risulta allo stesso tempo retrò e d’avanguardia grazie alle sue soluzioni visive.
La fantascienza architettata dallo studio inglese di Ian Anderson & soci è riuscita nel difficilissimo obiettivo di risultare d’avanguardia superando ogni prova del tempo, schivando agilmente tutte le correnti post come lo possono essere state Vaporwave, Seapunk e compagnia cantante restando unica; non ci sono i viola ed i rosa dei sogni bagnati dalla nostalgia ma ci sono i gialli accesi di chi ha rubato il colore dall’abbigliamento tecnico che si usava per andare a ballare; nessun immaginario neoclassico compare all’interno di questo stile visivo perché non c’è posto per il già visto, c’è posto per soltanto per l’esotico e l’alieno.
Un aspetto grafico a prova di alieni, soprattutto nei concept. Al giorno d’oggi il modo migliore per poter saggiare la follia stilistica del titolo è rappresentato dalla Wipeout Omega Collection per Playstation 4, un capitolo omni-comprensivo che ripropone sulla piattaforma Sony più recente tutte le piste e i veicoli presenti all’interno della storica saga, rispettando in modo egregio il lavoro fatto col graphic design all’interno dei capitoli originali della serie.
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This post was published on 9 Dicembre 2018 17:51
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