Se c’è un titolo che può essere considerato il punto di riferimento nell’annosa e spinosa questione “violenza nei videogiochi“, questo è senza dubbio Manhunt. Molto più di GTA, il controverso videogioco sviluppato da Rockstar Games ha mandato in pappa il cervello dei bigotti e di tutti coloro che sono convinti della colpevolezza dei videogiochi nei casi di cronaca più disparati e per la cattiva educazione dei loro figli sociopatici.
Non siamo qui, però, per fare polemica, ma per ripercorrere le orme di Manhunt, un vero capolavoro del genere. Sì, perché qualunque sia la vostra opinione sull’incidenza che i videogiochi potrebbero avere sui comportamenti violenti, c’è un dato di fatto: Manhunt fu e rimane tuttora un pezzo pregiato della ludografia di Rockstar. Spero per voi lettori che sia anche il vostro parere, altrimenti dovrò uccidervi e occultare i vostri cadaveri.
Se vi siete persi gli articoli precedenti dedicati al retrogaming potrete ritrovarli comodamente tutti a questo link. Troverete Final Fantasy, Resident Evil, Silent Hill e molte altre chicche raccolte solo per voi!
Il nostro nome è James Earl Cash. Siamo stati molto cattivi… forse qualcosa di più, visto che ci hanno condannato a morte. Siamo quel genere di persona a cui non importa della vita altrui e forse neanche della propria. Attendiamo l’iniezione letale che metterà fine alla nostra criminosa esistenza con indifferenza; d’altronde sapevamo benissimo che le nostre azioni non avrebbero portato a un lieto fine. Eppure… eppure, una seconda chance non si nega a nessuno, dicono.
E così, il nostro caro James da quell’iniezione si risveglia, come tornato alla vita dopo anni di coma. Benedizione divina? Macché, benedizione dei soldi e della fama. I primi sono riusciti a convincere le guardie carcerarie di Carcer City a mettere sedativo nella siringa, la seconda è quella che ci aspetta e che il nostro salvatore vuole per noi e per lui. Nessun angelo sceso dal Paradiso, ma qualcuno che pensa maggiormente al pragmatismo: il regista Lionel Starkweather! Mai sentito nominare, eh? Certo, perché i suoi film non escono nelle sale cinematografiche che siamo soliti frequentare. Lionel è un regista di snuff movies, film illegali e distribuiti attraverso canali “sotterranei”, tipo il deep web, in cui gli attori vengono torturati e uccisi sul serio.
Cosa c’entriamo noi? Be’, macchiarci le mani di sangue non è mai stato un problema. Lionel ha deciso così di salvarci la vita per fare di noi una star degli snuff movie. Ripresi costantemente da una telecamera, il nostro scopo sarà garantire una performance di altissimo livello, quello a cui è abituato il pubblico di Starkweather. Prepariamoci alla caccia, ma attenzione! Un cacciatore può anche diventare la preda.
L’unico modo per fuggire da questo orrore è assecondare le richieste assurde del nostro aguzzino/liberatore. Inizia così una caccia all’uomo che ci porterà a compiere efferati omicidi, immortalati dall’onnipresente e onnisciente cinepresa di Lionel. Le nostre vittime, però, non sono poveri innocenti, ma la feccia più fetida di Carcer City. Non che questo ci giustifichi, ma almeno è una magra consolazione. La metropoli in cui è ambientato Manhunt non è un posticino tranquillo, è controllata da gangs e bande criminali dedite a nefandezze di ogni genere.
Se James Earl Cash è un tipo pericoloso, i membri di queste bande non lo sono di meno. Da cacciatore a preda il passo è breve. Nascosti nel buio, possiamo attirare l’attenzione del nemico per poi stringere il suo collo in una morsa mortale o dare fine alla sua inutile vita usando una semplice busta di plastica, perfetta per lasciarlo senza fiato. Siamo pur sempre soli, però. Uno contro tutti: psicopatici, serial killer, malati mentali, criminali violenti che venderebbero la propria madre per due dollari. Chi dà la caccia a chi dunque? La sensazione è che questo dilemma sia in continuo divenire e trasformazione durante tutto l’arco dell’avventura.
Passare furtivamente in una zona ci permette di isolare, attirare e uccidere le nostre prede, ma anche di scappare da esse. Un gioco perverso di fuga e rincorsa che ciclicamente prendono il posto l’una dell’altra. Manhunt non è una storia che mette di fronte buoni e cattivi. A Carcer City i buoni hanno ormai alzato bandiera bianca da un pezzo. Nessuno ha ragione, nessuno ha torto, si gioca e basta. E se dobbiamo giocare, facciamolo come si deve. Manhunt offre al giocatore molti modi per uscire indenne da una situazione difficile. Se escludiamo le missioni in cui è obbligatorio fare piazza pulita, a noi sta la scelta dell’approccio che più ci aggrada.
Possiamo decidere di passare inosservati, di sfoltire la zona per poi darcela a gambe oppure di fare un silenzioso massacro. Non è una questione morale, di etico non c’è nulla. È una questione di opportunità. Se uccidere tutti risulta la strada più facile allora lo faremo, se lasciare vivere degli psicopatici ci conduce alla via d’uscita senza intoppi, allora opteremo per quella scelta. D’altronde, noi non siamo dei santi, non spetta a noi giudicare… anche se è divertente farlo. La meccanica di gioco più controversa e discussa di Manhunt è quella che ci permette di giustiziare i nemici. Quando ci si avvicina in modo stealth alle spalle della preda, appare un’icona di lock on. Questa cambia colore in base al tempo di pressione del tasto dell’uccisione. Più lo teniamo premuto, maggiore è l’efferatezza dell’esecuzione.
Le esecuzioni cambiano in base all’arma impugnata. Con un coltello, ad esempio, l’animazione mostrerà James mentre infierisce sul corpo della vittima, con un martello, invece, la testa della nostra preda sarà presto irriconoscibile. Violenza disumana per creare una sorta di “operazione shocking” per far parlare di sé? Non crediamo che Rockstar ne avesse bisogno, anzi, il fattore shock è quello che maggiormente ci convince del fatto che Manhunt debba essere messo su un piedistallo. Manhunt è la sublimazione della violenza gratuita.
L’obiezione che viene mossa più spesso al videogioco Rockstar è che mostri una violenza inutile e gratuita. Possiamo dire con estrema sicurezza che… sì, è così. La violenza di Manhunt è un vero e proprio esercizio di stile, come un colpo di fendente dalle conseguenze splatter di Kill Bill – Manhunt è molto meno gore – o come gli omicidi immortalati da Dario Argento nei film che compongono la sua “trilogia degli animali“. È davvero fondamentale che il killer de L’uccello dalle piume di cristallo infierisca in quel modo con un rasoio sul volto della vittima? Forse no, ma funziona.
Questo voglio dire: l’inutile di Manhunt non è superfluo, è un “inutile” funzionale a ciò che il gioco vuole da noi. C’è un regista pazzo che ci vuole vedere cattivi oltre ogni misura come ricompensa per averci liberato. Bene, diamogli quello che vuole. Diamogli quell’inutile e gratuita violenza.
Due postille prima di chiudere l’articolo. La prima è una nota di servizio: Manhunt può essere recuperato senza problemi dallo store PS4, scaricandolo dalla sezione PS2 Classics. La seconda, invece, è una curiosità: molti fan hanno pensato per molto tempo, prima che Rockstar smentisse, che Jimmy Hopkins, il protagonista di Canis Canem Edit (leggete lo speciale dedicato al gioco), fosse James Earl Cash da giovane. Il cognome diverso sarebbe dipeso dalla “promiscuità” della madre di Jimmy.
This post was published on 19 Ottobre 2018 11:53
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