Il survival horror è un genere che ha vissuto un’epoca d’oro durante la sesta generazione di console. Su Playstation 2, gli amanti del brivido potevano contare su una ludoteca molto corposa, tra titoli che hanno fatto scuola e tanti altri che sono passati un po’ in sordina. A quest’ultima categoria appartiene un videogioco sviluppato da Darkworks e pubblicato da Ubisoft che prende il nome di Cold Fear.
Uscito nel 2005, Cold Fear fu subito accostato a una saga che ha fatto la storia del genere: Resident Evil. La visuale in terza persona, l’atmosfera asfissiante e la tipologia di nemici facevano pensare a una sorta di “clone” del gioco Capcom. In realtà, Cold Fear non imitava proprio nulla, ma aveva uno stile tutto suo. Uno dei punti forte di quel gioco era rappresentato dall’ambientazione: una baleniera dispersa nel bel mezzo dello stretto di Bering. Freddo e mal di mare erano solo piccoli contrattempi nell’esperienza di gioco di Cold Fear.
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Quando una giornata sembra essere iniziata male, non potrà che proseguire nel peggiore dei modi. Ciò deve aver pensato Tom Hansen, il biondo protagonista di Cold Fear. L’ex soldato, ora membro dell’U.S. Coast Guard, riceve un incarico scomodo e non certo facile, ma da qui a essere assaliti da mercenari e pazzi furibondi ce ne passa. La baleniera East Spirit sta navigando senza meta nello stretto di Bering e l‘equipaggio non dà alcun segno di vita. Tom Hansen è chiamato a raggiungerla e a investigare. Qui l’accoglienza non è delle migliori: mercenari armati fino ai denti e membri dell’equipaggio impazziti attaccano Tom senza pietà.
I mercenari sono alla ricerca di un misterioso carico, mentre il personale di bordo sembra essere stato attaccato da uno strano morbo che ha reso i suoi membri violenti e notevolmente più forti. Tom Hansen scoprirà che non si tratta della “banale” epidemia zombie, ma dell’attacco di strane forme di vita chiamate exocelle. Queste sono in grado di prendere possesso delle persone, un po’ come dei parassiti, e trasformarle in creature estremamente pericolose. Un esperimento finito male ha causato questo bel casino che ora Tom è costretto a risolvere, mentre la baleniera ciondola e le gelide onde del mare si infrangono contro l’imbarcazione.
Che cosa ci hanno insegnato i film sugli zombie diretti da George Romero? Per essere sicuri di far fuori un morto vivente, bisogna mirare alla testa. In Cold Fear, come abbiamo accennato, non ci sono gli zombie, ma esseri umani impazziti a causa dell’azione parassitaria delle exocelle. Eppure, la regola del colpo alla testa vale in pieno ed è l’unico modo per sopravvivere. Se in Resident Evil sparare alla testa era un modo per velocizzare la dipartita dei nemici, ma non un atto fondamentale, visto che cinque/sei colpi di pistola o solo un paio di fucile a pompa nel costato avrebbero sortito comunque lo stesso effetto, in Cold Fear o si spara alla testa o si rimane fregati.
Nella mia prima ora di gioco, non sapevo assolutamente come comportarmi, non mi ero minimamente documentato sul gioco, quindi, partii in quarta sparando senza sosta ai nemici che, puntualmente si rialzavano. Finii le munizioni alla velocità della luce e capii che sarebbero stati volatili per diabetici. Decisi, quindi, di fare le cose in modo serio, avviai una nuova partita (tanto non ero arrivato molto lontano) e iniziai a sparare solo ed esclusivamente alla testa. Alleluja, ci ero arrivato.
Quei bastardi erano davvero forti e non si facevano pregare nel suonarti come un tamburo con oggetti contundenti. Erano nettamente più forti e scaltri dei classici zombie che si incontravano nei vecchi Resident Evil. Fosse stato solo quello il problema. La particolarità del gameplay di Cold Fear consisteva proprio nel setting scelto. La baleniera non era semplicemente una collocazione per l’avventura, ma andava a influenzare le meccaniche di gioco. La nave sussultava, oscillava e spesso era in balia di potenti mareggiate di acqua gelida. Ora, immaginate di dover puntare precisamente alla testa di quattro/cinque nemici abili anche nella schivata, mentre il mirino laser non resta fermo un secondo a causa del dondolio della nave.
Riuscire ad andare sempre a segno senza sprecare munizioni era una fatica immane. Cold Fear, infatti, non era affatto un gioco semplice, ma metteva a dura prova i riflessi e la coordinazione occhio-mano del giocatore. I movimenti e la telecamera non erano un fiore all’occhiello, ma erano più o meno in linea con le produzioni del tempo. Cold Fear non prevedeva solo scontri a fuoco, ma anche numerosi enigmi del tipo: trova la chiave/scheda magnetica e apri la porta. In questo, va detto, che l’ispirazione a Resident Evil si notava.
Non mancavano anche mostri più grossi e potenti su cui scaricare tutta la potenza di fuoco fin lì accumulata. Tutto era accompagnato da un contesto ambientale impeccabile. Camminare sui ponti della nave con in sottofondo il rumore della bufera e del mare in subbuglio e girovagare tra gli alloggi dell’equipaggio e la cambusa immersa nell’oscurità più totale, erano azioni in grado di donare sensazioni cariche di atmosfera. I difetti erano tanti, tra cui, possiamo ricordare un eccessivo ricorso al backtracking, cioè la necessità di fare avanti e indietro nelle stesse aree per aprire passaggi che ci erano preclusi.
Cold Fear non era un gioco perfetto, ma fu una piacevole sorpresa nell’immenso parco titoli di Playstation 2.
This post was published on 7 Settembre 2018 12:00
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