Che Namco faccia sul serio nello sviluppo di picchiaduro non lo scopriamo certo oggi. L’azienda giapponese ha dato vita a serie storiche come Tekken e Soul Calibur, per poi fondersi nel 1998 con la compagnia di giocattoli Bandai e ampliare i suoi orizzonti nell’universo dei beat ’em up. Nel 2006, in esclusiva su Playstation 2, esce Urban Reign, uno dei picchiaduro – non dimentichiamoci di The Warriors e God Hand – ad aver monopolizzato i nostri pomeriggi dopo scuola. Mazzate senza sosta, gang rivali, criminali senza scrupoli, tantissimi stili di combattimento in un unico indimenticabile titolo.
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Urban Reign presentava una modalità storia e una modalità arcade classica che prevedeva scontri 1vs1 o multiplayer fino a quattro giocatori (con l’utilizzo del multitap). Il cuore pulsante di Urban Reign era ovviamente la modalità storia, formata da ben 100 missioni. Il protagonista della vicenda è Brad Hawk, un picchiatore professionista che viene assoldato da Shun Ying Lee, capoclan di una potente organizzazione che controlla Chinatown.
Le vicende si snodano intorno alle lotte intestine che avvengono tra le varie gang presenti in città. Le cose si complicano quando un membro della gang degli Zap viene rapito e la colpa viene addossata proprio a Shun Ying Lee. Se questo non bastasse, il sindaco, Steve Bordin, per contrastare l’aumento della violenza, emana un decreto che mette in pratica la città in quarantena, tramite la chiusura dei quartieri con grate di ferro.
Il nostro possente Brad Hawk dovrà farsi largo tra le bande criminali della città per scagionare Shun dall’accusa di rapimento.
Urban Reign era un picchiaduro a scorrimento ambientato in livelli totalmente tridimensionali e altamente distruttibili. Le location offrivano un’elevatissima varietà e possibilità di approccio: quartieri malfamati in cui vige solo la legge del più forte, vicoli angusti, palestre, dojo, fabbriche abbandonate, vecchi magazzini, ristoranti, ogni luogo è adatto per menare le mani.
Il gameplay, nel complesso, non era così multiforme e diversificato, ma tutto risultava divertente e mai monotono grazie a missioni mai troppo lunghe, a location, come abbiamo detto, sempre diverse e a un cospicuo numero di bande rivali che potevano fregiarsi di proprie uniformi, segni distintivi e stili di combattimento unici. È proprio quest’ultima componente ad aver reso Urban Reign un vero e proprio paese dei balocchi per gli amanti del genere picchiaduro.
D’altronde, in un titolo del genere vogliamo veder volare le mazzate e se queste possono vantare animazioni e forme differenti è anche meglio. In Urban Reign, Brad Hawk, e noi insieme a lui, era messo costantemente in difficoltà dal numero di avversari su schermo a dal fatto che doveva adeguarsi a stili di combattimento in continuo mutamento da una missione a un’altra. Pensare di portare a termine una missione a testa bassa come in un hack ‘n’ slash qualsiasi portava al game over prematuro.
In alcuni casi, avevamo a che fare con teppistelli che non sapevano andare oltre ai canonici cazzottoni, ma dopo poche missioni capivamo che quella città era davvero il regno delle botte da orbi. Karate, Judo e Taekwondo non erano nemmeno quotate, ma bastava un po’ di gavetta e qualche ruzzolata a terra per prendere le contromisure. Contro contendenti abili nel Muay Thai iniziavano già i problemi, per non parlare della Capoeira che già ai tempi di Tekken mieteva vittime – vero, Eddie Gordo?
Le bande più potenti e organizzate avevano una gerarchia ben precisa che culminavano nel boss di livello. Ad esempio, gli Outlaws, gruppo formato da ex galeotti, erano guidati da Napalm99 che, come suggerisce il nome, aveva braccia esplosive; oppure possiamo ricordare Miguel, capo degli Outsiders, clan latino-americano molto pericoloso. Non solo i nostri arti potevano infierire sul malcapitato di turno. Era possibile usare anche armi ottenibili dallo scenario o dai corpi tramortiti dei nostri avversari.
Oltre ai tasti per attaccare, erano presenti anche il tasto per la presa e quello per la schivata. Quest’ultimo fondamentale contro nemici molto veloci, maestri delle arti marziali più tecniche. Le chicche del combat system era fondamentalmente due: la prima era rappresentata dall’attacco in coppia. In alcune missioni, infatti, eravamo accompagnati da un alleato con il quale potevamo dare vita a combo spettacolari e dinamiche. Di base uno poteva tenere il nemico, mentre l’altro ci andava giù pesante, ma le combinazioni possibili erano svariate.
La seconda particolarità del combat system ci consentiva (ma valeva anche per l’IA) di scegliere una parte del corpo ben precisa da colpire. L’hud di gioco era arricchito da una sagoma umana divisa in tre aree: testa, busto, gambe. Se si colpiva a ripetizione una di queste zone, questa diventava rossa fino a provocare lo stordimento dell’avversario o la sua impossibilità di utilizzare gambe o braccia perché ormai rotte o intontite.
Concludiamo questo amarcord di Urban Reign ricordando una sorpresa inserita da Namco all’interno del gioco. Il roster, infatti, presentava anche due ospiti d’onore: direttamente da Tekken, Paul Phoenix e Marshall Law. Un omaggio a se stessi che all’epoca ci fece davvero molto piacere. Urban Reign aveva una forte personalità e, nonostante a prima vista potesse sembrare poco intenso, dopo poche ore di allenamento faceva trasparire i suoi innegabili pregi, soprattutto giocato in compagnia di amici. Anche in single player, comunque, faceva la sua porca figura grazie a un gameplay con un livello di sfida non frustrante ma che ci chiedeva di migliorarci di missione in missione.
This post was published on 10 Agosto 2018 12:27
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