Chissà se nell’istante in cui il grafico stava salvando il progetto del suo protagonista, battezzato genericamente “guy” (ragazzo), dando vita a quel primodiale file guy.brush, con l’estensione del programma di disegno, lo stesso avrebbe mai potuto immaginare di avere tra le mani uno dei personaggi più iconici e leggendari di tutta la storia dei videogiochi. Quasi 27 anni dopo, innumerevoli titoli, citazioni, parodie, imitazioni dopo, siamo ancora qui a parlare di quel gioco, del Gioco per antonomasia. Monkey Island, il Re di tutte le avventure grafiche.
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Il sistema di gioco di quelle avventure della LucasArts, era già molto solido e collaudato. Si avanzava su fondali a scorrimento, attraverso l’uso di un cursore mobile e della selezione del punto di interesse verso cui spostarsi. Quando con il cursore si passava su un oggetto interessante, sotto di esso appariva il nome e vi si poteva interagire. C’era poi una griglia di azioni che permettevano le interazioni con l’ambiente. Dal neutro osservare, al combinare gli oggetti, raccogliere, usare, parlare. Una serie di verbi che, usati nei modi giusti, ci permettevano di proseguire con gli step successivi della nostra avventura. Da questo punto di vista nulla di nuovo sotto al sole, dopo i successi di Maniac Mansion, Zan McKracken, Indiana Jones e l’ultima crociata e Loom. Monkey Island però ottiene un successo che nessuno dei predecessori aveva mai ottenuto.
Se infatti gli altri giochi della Lucas mettevano al centro del proprio focus l’avventura, quella voglia dell’utente di scoprire cosa sarebbe successo proseguendo con la storia, questo Monkey Island prendeva una direzione decisamente più scanzonata e ironica. Tutta la struttura del gioco era basata sul continuo ripetersi di gag e momenti divertenti, ponendo la storia e l’avventura stessa su un piano molto meno centrale. “Sono Guybrush Treepwood, e sono un temibile pirata”. Inizia così la nostra parabola nei mari dei Caraibi.
Una paroba che ci vede nei panni di un pirata tutt’altro che temibile o temuto. Un protagonista goffo e dalla lingua più affilata della spada. Dal primo incontro con una vedetta cieca e mezza sorda, che già ci dice tutto sullo stile del gioco, ci troveremo a conoscere pirati orrendamente sfigurati da partite a freccette, cocktail pirateschi in grado di dissolvere le tazze, duelli a base di insulti e quant’altro. Una storia che quasi subito lascia il passo ad uno stato d’animo che vuole scoprire fino a che punto si possono essere spinti i programmatori, in quello che diventa vero e proprio meta-game.
A farla da padrone sono sicuramente i dialoghi, con il classico sistema di scelta a risposta multipla. Qui, per ogni discussione, avremo tre o quattro possibili risposte, di cui, in genere, l’ultima sempre non sense o fortemente ironica. Una tentazione irresistibile quella di degenerare in conversazioni senza senso, con domande e risposte spesso inutili ai fini del gioco ma divertentissime. E’ praticamente impossibile ricordare o raccontare tutti gli improbabili dialoghi di questo gioco. Mi basta citarne un paio.
Il primo, quando ci metteremo a parlare con un cane nelle prime fasi di gioco. Si passa dal poter scegliere tra risposte quali “bau bau” a “wooof“, passando per “grooowh” e altri versi senza senso, finché nel mezzo non escono parole e titoli di giochi. L’altra è la memorabile conversazione su quanto legno può rodere un roditore se un roditore rodesse il legno. Il gioco di parole, in inglese, è assolutamente geniale e spiega più di ogni altra parola quanta pura idiozia ci sia in questo titolo memorabile.
Le situazioni paradossali e surreali sarebbero diventate, di lì in poi, dei veri e propri cult per tutto il mondo dei videogiochi. In uno dei primi dialoghi, ad esempio, scopriremo che il nostro eroe ha la capacità di trattenere il respiro sott’acqua per 10 minuti. Ovviamente, finiremo in acqua legati con una pietra al piede. Tutto intorno a noi, irraggiungibili, forbici, coltelli e qualsiasi strumento atto a tagliare una corda. Se aspettiamo 10 minuti, il nostro eroe assumerà un colorito verde e i verbi del gioco si trasformeranno in scritte macabre e illeggibili.
Ovviamente la soluzione per uscire c’è, e come per il resto del gioco è assolutamente stupida. Ovvero raccogliere il masso e metterlo in tasca, potendosi tranquillamente allontanare a piedi dal fondale. Ovvio no? Questo modus operandi basato sul non-sense rende il gioco quasi sempre imprevedibile e suscita nel giocatore un senso di reale stupore quando arriva ad una soluzione che mai avrebbe immaginato. Un meccanismo che non premia la logica pura ma il pensiero laterale, che in qualche modo stimola la creatività e al tempo stesso ha profondamente segnato una generazione di videogiocatori.
L’altro punto focale di Monkey Island è quello delle citazioni e, sopratutto, delle autocitazioni. Ci sono continui riferimenti ad altre storie, ad altri lavori Lucas, a canzoni e film. Un mondo, spesso autoreferenziale ma che trascende anche l’idea stessa di pubblicità. Il fatto, ad esempio, che il gabbiano che continua a darci grattacapi sia quello di Loom (e sia anche ringraziato nei titoli di coda) o che lo stesso Loom sia pubblicizzato da uno dei pirati della taverna non sono casuali, ma non possono nemmeno essere considerati dei veri e propri spot commerciali. Le citazioni di Indiana Jones come l’odio per i serpenti (qualcuno ha detto porcellana?) o il rispondere allo sceriffo che l’idolo dalla molte braccia dovrebbe stare in museo sono fin troppo chiari, cosi come i riferimenti ad una “misteriosa” coppa da falegname.
Tutto questo poi, finisce nello sfociare nel puro meta-game. Se provate a toccare le “cianfrusaglie voodoo” nell’antro della maga, vi sentirete rispondere che sono schede video (voodoo per l’appunto). L’avvertimento che nessuna scimmia è stata maltrattata nella realizzazione del gioco, i cannibali vegetariani e milioni di altre citazioni ed easter eggs, sono messaggi per il giocatore e non per il protagonista. Come spiegare altrimenti la dicitura: “Questo punto del gioco non è accessibile per il momento, per accedervi inserire il floppy 33-bis e premere ALT-F13“? O altre perle memorabili come l’attivazione dell’acceleratore grafico 3D che in realtà non esiste, e manda messaggi sempre più preoccupati verso l’utente che continua ad attivarlo?
Altro dettaglio, sicuramente non da poco, è il fantastico lavoro fatto con i personaggi. Ogni protagonista infatti ha un carattere ben delinato e, nelle proprie assurdità, assolutamente coerente con se stesso. Guybrush non si può non amare nelle sue sfortune, nel suo essere un eroe un po’ tonto ma di grande cuore, coraggioso ma non senza macchia. Questo personaggio è diventato così famoso da essere citato e ripreso in tantissimi altri titoli, prendendosi il suo posto anche nel covo dei pirati di Uncharted 4.
Stan, il venditore logorroico dalle giacche strambe, è ugualmente iconico, cosi come il pirata fantasma LeChuck, in una serie di richiami a Star Wars, grande catalizzatore di citazioni e rimandi. Anche gli oggetti in Monkey Island hanno un’anima e sono diventati dei cult. Dal pollo di gomma con la carrucola, alla famigerata scimmia a tre teste, che solo noi vedremo e che nessun altro all’infuori di noi saprà che esiste davvero.
Monkey Island è stata la prima avventura grafica a coinvolgere direttamente il videogiocatore, riuscendo a creare un rapporto di feedback bivalente che lo facesse sentire al centro della scena e non mero spettatore. Forse è a questa meccanica che è dovuto l’enorme e irripetibile successo di questa saga. Forse è dovuta ai personaggi, carismatici e divertentissimi. Alle meccaniche solide. All’umorismo, alle citazioni. Forse è un mix, totale, sapiente, di tutti questi elementi, qualcosa che non si è mai più ripetuto nella storia. Monkey Island è la Gioconda dei videogiochi, merita il suo posto al centro della storia e nessuno mai potrà imitarla, né replicarne il successo, perché è un caso unico e irripetibile.
This post was published on 24 Novembre 2017 12:00
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