L’opera prima di Surgent Studio è un piacevole connubio tra essenzialità di gameplay e chiarezza tematica, per una sintesi che punta dritto al cuore del giocatore.
Quando un mio compagno di scuola perse il padre alle elementari, gli crollò il mondo addosso: da un giorno all’altro le sue sicurezze si infransero e dovette imparare a continuare, giorno dopo giorno, senza quella importantissima figura di riferimento. Se è vero che, per dirla alla Freud, “uccidere il padre” segna il passaggio all’età adulta, che ne è di noi se il padre ci viene sottratto dal destino ben prima di quando avrebbe dovuto? Come potremo elaborare tutti gli insegnamenti che ci ha impartito, per non parlare di tutti quelli che non potrà mai donarci? Come potremo rinfacciargli i suoi torti, affidarci al suo giudizio, prenderne coscientemente le distanze per intraprendere il nostro cammino?
Tales of Kenzera: ZAU è il tentativo di rispondere a queste domande da parte di Abubakar Salim, attore britannico di origine africana nominato ai BAFTA per la sua interpretazione di Bayek in Assassin’s Creed Origin, nonché noto attore di film e serie tv quali Raised By Wolves, Napoleon e House of Dragons. Salim è anche fondatore e CEO di Surgent Studio, di cui questo gioco rappresenta il titolo d’esordio, ed è senza dubbio un ottimo primo passo.
L’archetipo della discesa nell’aldilà per riscattare un’anima strappata alla vita troppo presto è presente in molte mitologie antiche e riletture moderne. Tales of Kenzera: ZAU attinge quindi ad canovaccio di per sé classico per imbastire la premessa narrativa delle vicende di Zau, apprendista sciamano che intraprende un percorso iniziatico per divenire Nganga, guaritore spirituale. Accompagnato dal dio della morte Kalunga, si avventurerà nelle vaste e tormentate terre di Kenzera, per liberare dall’afflizione delle potenti anime corrotte e ottenere così il suo lasciapassare per l’aldilà. Lo scopo ultimo è reclamare l’anima del suo baba, suo padre, strappato alla vita troppo presto. Nel corso dell’avventura, Zau diventerà sempre più consapevole del suo potere e della necessità di scrivere da sé la propria storia, rielaborando il legame con il padre e accogliendo su di sé le responsabilità che comportano il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta.
Questo racconto di formazione, così semplice nel suo dipanarsi e forse proprio per questo decisamente toccante, si riflette in una filosofia di game design altrettanto limpida, quasi essenziale: siamo di fronte ad un action-adventure 2.5D in salsa metroidvania, senza particolari eccessi hardcore del genere di riferimento, ma anzi con la precisa volontà di far vivere al giocatore un’esperienza immediata, accogliente, permissiva (senza per questo risultare triviale) e immersa in un comparto artistico ispiratissimo, che riassume elementi di folklore Bantu e suggestioni afrofuturiste in un amalgama raramente rappresentato nei videogiochi, per un risultato fresco e di sicuro impatto.
Tutti i fondamentali del genere action-adventure sono presenti. Nel gioco esploreremo le terre di Kenzera, suddivise in labirintici biomi collegati tra loro in un’unica mappa in puro stile metroidvania, con tanto di scorciatoie, passaggi segreti, teletrasporti per spostamenti rapidi e così via. Non si tratta di mappe arzigogolate fatte di labirinti inestricabili, la strada maestra è quasi sempre intuibile e il gioco non impone backtracking eccessivi a meno di non essere maniaci del completismo. Ogni regione infatti nasconde alcuni collezionabili e stanze di sfide opzionali, che mettono in palio interessanti ricompense sotto forma di bonus passivi, aumenti di barre di salute o spirito (necessario a effettuare attacchi speciali e curativi) e altro ancora.
Esplorare è divertente e la mobilità del protagonista rende l’attività molto immediata e non noiosa, sebbene alcuni scenari tendano a presentare strutture dei livelli ripetitive. In ogni caso, l’ottenimento di sempre nuovi poteri aumenterà anche le possibilità esplorative e, al netto di qualche fase platform resa ostica da un sistema di collisioni imperfetto che porta a morire ingiustamente, l’esperienza è complessivamente soddisfacente e il mondo di gioco abbastanza vasto da potervi intrattenere per almeno una decina di ore, specie se puntate al platino.
Sul fronte dei combattimenti si poteva invece fare di più: nelle fasi esplorative i nemici sono rari e poco minacciosi, mentre all’interno di specifiche arene di combattimento ci attaccheranno a ondate e non potremo proseguire prima di averli sconfitti tutti. Il combattimento prevede una costante alternanza tra l’utilizzo di due maschere sciamaniche, ciascuna deputata a uno stile di combattimento: la maschera della luna permette di colpire i nemici dalla distanza, mentre quella del sole è più improntata al combattimento corpo a corpo.
Le fila dei nemici prevedono poche tipologie di mostri, ma abbastanza variegate da costringerci ad una danza continua di salti, schivate, counter dei proiettili e combo speciali che, specialmente nelle fasi avanzate dell’avventura, costituiscono delle sfide appaganti da completare. Col senno di poi sarebbe forse stato meglio anticipare l’ottenimento di alcune manovre offensive in modo da rendere i combattimenti più divertenti fin dalle prime battute di gioco. Invece bisogna attendere di essere oltre la metà per vivere scontri davvero soddisfacenti. Compensano, comunque, la presenza di tre livelli di difficoltà e le boss fights molto curate, che difficilmente vi annoieranno essendo articolate tutte in più fasi ed estremamente scenografiche. Peccato solo siano pochissime!
Tales of Kenzera: ZAU è un action-adventure bellissimo, nel senso più pur del termine: bello da vedere, bello da ascoltare (la colonna sonora di Nainita Desai, nota per il suo lavoro su Immortality di Sam Barlow, è particolarmente evocativa), divertente da giocare e soprattutto adatto a qualsiasi tipologia di giocatore. Al netto di qualche sbavatura nelle collisioni che genera occasionali frustrazioni nelle fasi platform, e in un combat system che sboccia veramente solo ad avventura avanzata, l’opera prima di Surgent Studio è un delicato racconto di formazione incentrato sull’elaborazione del lutto, nonché una commovente lettera d’amore di Abubakar Salim a suo papà.
This post was published on 28 Aprile 2024 20:45
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