Final Fantasy VII Rebirth è uscito, Final Fantasy VII Remake ha fatto il suo corso, Final Fantasy VII base è ormai morto di vecchiaia: lunga vita al re, lunga vita a Cloud Strife e soci, perché la strada che Tetsuya Nomura e soci hanno tracciato per loro è molto meglio di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi qualche anno fa, quando in tanti sono stati “scottati” dal diciottesimo capitolo del primissimo remake.
Questa recensione di Final Fantasy VII Rebirth è stata tutto fuorché facile da portare a termine: da una parte avevo a che fare con un gioco di un brand che amo particolarmente e a cui sono anche particolarmente legato, dall’altra invece avevo a che fare con il seguito di un videogioco per me particolarmente deludente, almeno dal punto di vista narrativo.
Lo ammetto: quando ho giocato e finito Final Fantasy VII Remake ho avuto bile in corpo per un grande quantitativo di tempo. Dentro di me albergavano contemporaneamente diverse lamentele: da una parte l’idea che Square Enix avesse condotto in maniera quasi truffaldina una gigantesca campagna di marketing per poi vendere una cosa che Remake non era, dall’altra il livore per aver visto il personaggio di Sephiroth mutilato brutalmente, trasformato in un oggetto mentale per il fandom, più vicino alle sue bastardizzazioni da compilation of final fantasy VII che al gustoso equilibrio orrorifico messo in piedi dal videogioco originale.
L’elefante nella stanza, anzi, gli elefanti nella stanza però avevano ulteriormente messo a dura prova il mio rapporto con questo prodotto. I numen e il capitolo 18 di Final Fantasy VII Remake, a più riprese, sono stati da me definiti come due grandi errori nella storia della saga.
Fortunatamente, come sempre accade nella vita, non c’è fortuna più grande che accorgersi di essere arrivati troppo presto alle conclusioni e iniziare a prendere le distanze da certe dichiarazioni, fatte proprio senza accendere il cervello.
Tutto quello che ho detto sopra rimane valido se non fosse che Final Fantasy VII Remake faceva bene a identificare nei numen i nemici del party perché questi altro non sono che la vecchia fan base, inacidita e insopportabilmente nostalgica, incapace di lasciar proseguire avanti un brand e un videogioco che potrebbe tranquillamente meritarsi una seconda giovinezza, stavolta con un tema centrale più “metatestuale” rispetto al passato e sicuramente meno voglia di prendersi sul serio.
Il mio approccio con Final Fantasy VII Rebirth parte proprio da questa presa di coscienza: per apprezzare questo gioco o parzialmente anche soltanto capirne parte dei messaggi e delle idee è necessario lasciare da parte il numen, il fanboy rabbioso, che alberga dentro ogni videogiocatore in favore del bambinetto interessato a vedere “qual è la prossima cosa figa che avviene a schermo”, con buona pace per tutti gli altri.
Presupposto questo: cominciamo veramente a parlare di FF7R.
Quando l’aggiornamento ludico è fatto bene
Utilizziamo ora il potere della sterile definizione tecnica per cercare di inquadrare il tipo di videogioco che Final Fantasy VII Rebirth è.
A conti fatti parliamo di un action rpg di stampo nipponico in cui il giocatore, nei panni di Cloud e del suo gruppo di comprimari, viaggia per il mondo di Gaia alla ricerca di Sephiroth, con tutti i ghirigori e gli arzigogolii che ci si può legittimamente aspettare dall’esperienza in questione.
Il videogioco continua sul solco tracciato ventisette anni fa dall’originale Final Fantasy VII e ne ripercorre tutto sommato le orme tra ambientazioni, personaggi e canovaccio narrativo. Chiunque abbia già visto i trailer sa già cosa aspettarsi: c’è Junon, c’è un Gold Saucer più bello che mai, c’è di nuovo Nibelheim e c’è Rocket Town, c’è addirittura Wutai; non manca davvero niente all’equazione del gioco di successo.
In tutto questo percorso che SOMMARIAMENTE segue il gruppo di Cloud fino alla fine del primo disco dell’originale videogioco Playstation 1, la software house ha, brevemente:
- allungato dungeon;
- compresso situazioni;
- rivitalizzato situazioni;
- arricchito ambientazioni;
- tributato il videogioco passato;
- integrato nel gioco elementi pescati da uno dei mille prodotti di contorno della compilation of Final Fantasy VII;
- ri-pompato nel gioco l’anima dei Final Fantasy “canonici”;
- tagliato cose;
- riscritto elementi;
- impreziosito il già dettagliato mondo di gioco;
- sbagliato qualcosina;
- fatto arrabbiare chi voleva la storia originale.
Senza andare a toccare minimamente le questioni narrative perché per molti il concetto di spoiler è molto labile, ci limiteremo a dire solo una cosa: crediamo valga la pena accompagnare Cloud, Barret, Tifa, Aerith, RedXIII e soci in questo bellissimo viaggio anche e sopratutto se siete rimasti in qualche modo delusi dal precedente Final Fantasy VII Remake.
Perché mai? Partiamo intanto dalle cose semplici: perché il combat system di Final Fantasy VII Rebirth è una versione ulteriormente migliorata e impreziosita del già grandioso combat system del Remake.
Torniamo alla nostra definizione di action rpg di matrice giapponese; FF7 Rebirth prende il sistema di combattimento di Final Fantasy VII Remake (che, per inciso, è forse il miglior ibrido tra l’ATB dell’originale e un sistema action puro a là Final Fantasy XVI) e lo amplia ulteriormente.
Nel fare ciò riesce a donare un maggiore grado di interazione tra Cloud e i compagni, arricchendo i moveset, impreziosendo ulteriormente la profondità del sistema di crescita e cucendo intorno a tutto questo un mondo di gioco da esplorare proprio vedere quanto è profondo la tana del bianconiglio.
Migliorare il già grandioso
Andiamo con ordine: grossolanamente il sistema è sempre quello che abbiamo visto nel videogioco del 2020; Cloud e altri due personaggi combattono avversari attraverso combinazioni di attacchi base, abilità e magie, avendo la possibilità di parare, parryare o schivare i colpi, il tutto in tempo reale.
Abilità e magie si possono utilizzare sacrificando una risorsa chiamata “barra ATB” quest’ultima si carica semplicemente con lo scorrere del tempo e si può accumulare più rapidamente attraverso gli attacchi base, le parate o le schivate dei colpi. Utilizzare abilità e magie, almeno nella modalità attesa, rallenta di moltissimo il tempo permettendo al giocatore di scegliere con calma cosa fare; non manca poi la possibilità di collegare a scorciatoie le abilità o le magie più interessanti per eseguire anche queste in tempo reale.
A tutto questo, inoltre, va aggiunta anche la possibilità di cambiare il leader del party in tempo reale, elemento che trasforma la già notevole profondità del sistema di combattimento in un abisso ancora più intenso da scrutare, visto che ogni personaggio ha un intero playstyle a lui dedicato (Barret attacca a distanza e può velocizzare la ricarica del suo attacco speciale, Tifa ha un attacco speciale di potenza incrementale, Aerith può modificare gli effetti delle magie attraverso moltiplicazione e teletrasporto, Red XIII è improntato sul concetto di punish & parry, Cloud possiede un assetto offensivo e uno difensivo… non basterebbe un articolo per spiegarli tutti).
Già in Final Fantasy VII Remake il sistema si è dimostrato incredibilmente efficiente, permettendo alle alte difficoltà scontri con un grado elevato di tatticismo, dove la composizione del party e l’utilizzo delle abilità giuste al momento giusto permetteva al giocatore di gestire anche le situazioni più spinose; gli scontri coi boss, nello specifico, nel VII Remake si trasformano spesso in vere e proprie battaglie all’ultimo sangue, dove conta veramente l’impegno del giocatore nello scegliere quali tasti premere, come e quando farlo.
Il VII Rebirth a questa complessa equazione, aggiunge pochi ma interessanti ingredienti sotto forma di azioni e abilità sinergiche.
La parola d’ordine è sinergia!
Il significato generico della parola “sinergia” è “rapporto tra elementi o forze operanti al conseguimento di uno stesso fine.” e mai termine più azzeccato nel definire alcune delle finezze aggiunte da SE nel gameplay di FF7 Rebirth.
Le azioni sinergiche sono mosse gratuite (dove per gratuite intendiamo “che non costano barra ATB) che ogni personaggio può eseguire e che possono avere gli effetti più svariati: dall’annullare i danni ricevuto da un attacco a distanza a contrattacchi, passando poi per launcher, attacchi a distanza con personaggi melee e tanto altro ancora.
Le abilità sinergiche, invece, sono tecniche estremamente potenti che combinano un elevato output di danni / stress con alcune abilita passive che si attivano per il resto della battaglia / un determinato numero di minuti. Per eseguire un abilità sinergica è necessario soddisfare dei requisiti sotto forma di aver speso almeno X barre con una coppia di personaggi: un requisito che senza dubbio può apparire come esoso ma che ricompensa il giocatore con un potenziamento delle limit, un segmento in più di barra ATB da utilizzare e tanto altro ancora.
La combinazione di queste due aggiunte arricchisce ulteriormente un battle system che viene soltanto impreziosito rispetto il già ottimo risultato del capitolo precedente, portando a un nuovo picco per quanto riguarda una delle possibili declinazioni dell’ARPG di matrice nipponica.
Dare un senso al mondo che ci circonda
Square Enix, storicamente, ha azzeccato poche volti i seguiti diretti ai suoi titoli di maggior successo; Final Fantasy XIII-2 risolveva alcuni dei macro problemi del tredici per poi gettare nella confusione diversi dei suoi elementi caratterizzanti, Final Fantasy Tactics A2 prendeva le basi del primo rallentandone il gameplay e stravolgendone alcuni canoni per un risultato un zoppicante, Final Fantasy XII: Revenant Wings modificava a tal punto la formula del dodicesimo capitolo da renderlo virtualmente prodotto altro dall’epoea di Vaan e soci.
FF7R invece non è niente di tutto ciò: è semplicemente un gran bel prodotto, di quelli che i nostalgici potranno azzardarsi a chiamare final fantasy classico.
Una delle caratteristiche che più di tutte fa emanare a un videogioco il senso di final fantasy classico è quell’impressione di grandiosità che c’è nella mescolanza tra mondo di gioco, esplorazione e avanzamento nella narrativa. Se nel primo capitolo del Remake questo non si è avuto a causa della scelta (sacrosanta considerato lo sforzo tecnico necessario) di non offrire una Midgar completamente e liberamente esplorabile, in questo Rebirth la possibilità di poter esplorare dettagliatamente le pianure, le colline e le montagne che costellano Gaia si rivela essere una scelta vincente.
In un mondo di enormi videogiochi open world in cui perdersi, Final Fantasy VII Rebirth sceglie una strada mediana tra la compattezza del primo capitolo e il dolce mare in cui naufragare alla Assassin’s Creed. Il mondo aperto è grande ma non grandissimo né grandicello; geograficamente parlando riesce a mantenere un certo grado di realismo in termini di proporzione e ha anche un grande rispetto del materiale originale, modificando solo parzialmente la geografia di gaia per renderla interessante al giocatore da navigare, aggiugendo elementi interessanti anche per la narrativa di gioco (come vedremo poi).
La scelta, alla fine dei conti, si dimostra particolarmente azzeccata
L’open world nel videogioco originale, oltre a dare senso alla parte esplorativa e alla narrativa del viaggio, non era altro che il teatro di lunghe sessioni di grinding. Final Fantasy VII Rebirth punta su una proporzione semi-realistica del mondo di gioco in maniera intelligente, evitando il confronto con i videogiochi completamente aperti in favore di gigantesche open map (molto, molto più grandi di quelle di Final Fantasy XVI, per capirci) interconnesse tra loro attraverso dungeon, funivie o altri elementi architettonici.
Tutte le mappe aperte, con immensa gioia, sono costellate di missioni secondarie; decine e decine di compiti da portare a termine per avere accesso a equipaggiamento, scampoli di trama, nuove evocazioni, nuovi oggetti e così via, con nel mezzo chocobo da cavalcare, fermate dell’autobus da riparare, qualche fetch quest, fotografie da scattare, cuccioli di chocobo da coccolare e tanto altro ancora. Il quantitativo di contenuti messo nel gioco è elevato ma non soverchiante, cosa che sottolinea un ragionamento profondo da parte della software house nell’equilibrare l’esperienza di gioco “canonica” con tutto quello che deriva dall’impostazione open world.
Non tutte le attività sono divertenti allo stesso modo, alcune potrebbe essere gestite in maniera diversa (diventando “attive” nel momento in cui si arriva a esplorare un determinato luogo, invece di renderli tali soltanto dopo aver scoperto la quest altrove) e qualche spigolo di troppo nell’esperienza c’è, ma è un nonnulla in confronto alla sensazione di essere di nuovo stranieri in terra straniera, con un segreto o un mistero da scoprire dietro l’angolo o un dungeon nascosto dietro una missione secondaria che sembra “come tutte le altre”
Di tutto questo segmento l’unica cosa che non convince a pieno è il sistema di controllo e di movimento, che per quanto sia lontano dalla bocciatura un po’ stride con la meraviglia che invece è quando parliamo di combattimenti all’arma bianca.
Cloud e l’eventuale chocobo da lui cavalcato può saltare e scalare pareti ma non si capisce in maniera chiarissima quando può scalare una parete in verticale e quando ci si può buttare, senza dimenticare poi di quanto sia facile “inciamparsi” in un ostacolo e perdere tutta la velocità guadagnata col proprio Chocobo. Da questo punto di vista era legittimo aspettarsi di meglio, c’è poco da girarci intorno.
La rinascita del contenuto
A impressionare è veramente il mero quantitativo di contenuti di cui è costellato Final Fantasy VII Rebirth. L’opera di Square Enix riprende in maniera esaltante lo spirito scanzonato del videogioco originale proponendo una miriade di minigiochi tutti diversi, oltre che un interessantissimo gioco di carte ricorrente che rappresenta il triple triad del nuovo millennio.
Per cercare di far sentire il meno possibile la noia della linearità, Square Enix ha deciso di costellare tutta l’avventura di giochi nel gioco che riescono a spezzare la monotonia senza pesare troppo sul ritmo. Soltanto tra Junon e il Monte Corel, facendo un conto rapido ci sono qualcosa come 6 o 7 minigiochi diversi da scoprire, tutti con meccanicamente unici e con dei set di ricompense in grado di invogliare il giocatore a cercare il completismo.
Altra caratteristica fondante del final fantasy classicoTM è la grande varietà di scelte operative che il giocatore può fare durante il corso del playthrough per aumentare il suo power level. Final Fantasy VII originale, ad esempio, permetteva al giocatore di ottenere armi e oggetti potentissimi semplicemente completando nella migliore maniera possibile gli incarichi secondari o rubando gli oggetti giusti ai mostri giusti; in questo Rebirth tale senso di agency sul proprio power level si ha attraverso il completamento dei contenuti secondari e dei minigiochi, che ricompensano il giocatore con accessori, materie esclusive, nuove invocazioni e altro ancora.
In questo caso parliamo di un successo riuscito a metà ma per un motivo che non dipende tanto dal gameplay quanto dal livello di difficoltà generale, che è abbastanza bassino. Nella nostra esperienza Final Fantasy VII Rebirth da il meglio di sé se giocato a difficoltà avanzata, con il quale tutti i mostri scalano al livello del giocatore. In questa maniera le bossfight tendono a risultare sempre interessanti e non si viene troppo penalizzati dal completare tutte quante le missioni secondarie (che prevedono spesso scontri con i mostri, portando quindi alla classica situazione in cui si è qualche livello di troppo sopra i propri avversari).
Final Fantasy VII Rebirth va premiato anche per un altro interessante elemento: è il primo capitolo della saga da più di dieci anni a questa parte (grossolanamente dall’uscita di Final Fantasy XII) che ha dei dungeon interessanti da esplorare.
Per la prima volta da tempo immemore i dungeon di Final Fantasy permettono un qualche tipo di interazione con lo scenario: Barret può sparare agli oggetti lontani, Yuffie può rompere casse e attivare interruttori con lo Shuriken, c’è un rampino utilizzabile per superare determinati ostacoli, etc, etc. A questo si aggiungono poi tutte le golden rules tipiche della costruzione di un buon dungeon, come il ricompensare sempre la curiosità del giocatore tra casse, scorci meravigliosi, hint sul come proseguire, materie e così via.
È chiaro che se siete abituati a giocare ai soulslike di From Software o ai The Legend Of Zelda non troverete niente di particolarmente eccitante nelle miniere, nelle scalate e nelle grotte di Final Fantasy 7 Rebirth; tutti quelli che invece desideravano un netto passo avanti della saga da questo punto di vista con questo nuovo capitolo potranno respirare una sincera aria di novità, con dei semi piantati per un ancora più interessante futuro una volta che arriverà il terzo capitolo della saga.
Sempre rimanendo dentro il macro argomento “cose in cui Final Fantasy VII Rebirth riesce dove i suoi predecessori avevano fallito” troviamo anche Regina Rossa o Queen’s Blood, il minigioco di carte che accompagnerà il giocatore durante il corso di tutta quanta l’esperienza.
Parliamo di un gioco di carte collezionabili (attraverso l’acquisto di piccoli booster pack, il completamento di quest secondarie o la sconfitta di particolari giocatori) che utilizza il framework dei giochi di carte “posizionali” (o con corsie) a là Gwent o Marvel Snap per un risultato finale che finalmente non sfigura di fronte al Triple Triad, pur non avendo questo diretta influenza sul gameplay, al netto di alcune sezioni specifiche della narrativa. L’obbiettivo del giocatore è quello di accumulare un punteggio assoluto maggiore di quello dell’avversario posizionando carte su tre corsie.
Ogni carta ha un suo livello di potenza, permette di emanare mana nelle caselle circostanti secondo un pattern prestabilito e potenzialmente ha anche un’abilità passiva che interagisce con le altre carte del giocatore o con l’avversario, dando modo a chiunque di costruire strategie interessanti e sinergie potentissime. Queen’s Blood è divertente, stimolante e regala momenti di intenso theorycrafting alla ricerca della combinazione giusta di carte per polverizzare il prossimo avversario, riuscendo anche ad avere una curva della difficoltà ben bilanciata per buona parte dell’avventura.
Una festa per gli occhi
Final Fantasy VII Remake è stato un videogioco di prova sotto molti punti di vista ma uno di cui si parla poco è quello prettamente tecnico; il titolo è stato infatti il primo capitolo mainline della serie ad essere sviluppato con un engine grafico non proprietario, ovvero parliamo di Unreal Engine 4.
Final Fantasy VII Rebirth continua con lo stesso motore grafico, ampliando però all’inverosimile la scala delle ambientazioni e sfoderando i muscoli in termini di environment design e art; come già sottolineato qualche paragrafo fa, il mondo realizzato per il titolo è di una bellezza naturale (e non) spesso abbacinante, pregno di scorci meravigliosi e con un generale colpo d’occhio che lascia senza fiato.
In modalità qualità il titolo viene lockato a 30 FPS a favore di un’illuminazione più realistica e di un livello di dettaglio leggermente più elevato; in modalità prestazioni, invece, il framerate diventa granitico e si ferma ai 60 frames per secondo nel 99.9% dei casi.
Durante la nostra prova non abbiamo notato rallentamenti di sorta e, complice la natura action del titolo che predilige riflessi fulminei e buon tempismo, abbiamo fruito dell’esperienza giocando sempre in modalità prestazioni, rimanendo sempre piacevolmente stupiti per la solidità del frame rate nonostante l’elevato numero di modelli poligonali ed effetti particellari a schermo (e fidatevi che quando entrerete dentro Junon capirete il perché di questa nostra affermazione).
Andando a guardare i dettagli, chiaramente, ci sono modelli poligonali con un minor numero di triangoli che un po’ stonano rispetto a quelli che non compongono lo scenario; non mancano poi personaggi secondari che per motivi non specificati non vengono calcolati correttamente dal sistema di illuminazione, risultando quindi con colori innaturali ma questo ha un peso sostanzialmente nullo sul resto dell’esperienza, che tecnicamente su Playstation 5 viaggia perennemente nel magico mondo del magnifico.
Unico difetto che ci sentiamo di tirare in ballo per quanto riguarda il lato tecnico è il sistema di illuminazione, che molto spesso finisce per alterare in maniera innaturale i colori nelle sezioni in esterno, dando un curioso effetto plastica ai modelli poligonali e alle texture.
Come al solito, poi, Square Enix dimostra di essere ancora la migliore di tutto il mondo con le cutscene in computer grafica: rare ma sempre in grado di lasciare a bocca aperta per una combinazione di qualità visiva e scelte registiche; la differenza di qualità, tra le altre cose, è percettibile rispetto al gioco normale ma nemmeno troppo, lasciando ben sperare per il futuro del mondo dei videogiochi (licenziamenti di massa a parte).
E nel dubbio anche una festa per le orecchie
Approfittiamo del momento in cui scioriniamo gli applausi per parlare anche del comparto musicale dell’avventura di Cloud e soci.
Chiaramente quando hai come base una colonna sonora assolutamente immortale come quella di Final Fantasy VII è difficile sbagliare e inutile dire che siano rari i momenti in cui si sentono delle note fuori posto in Rebirth.
Diversi dei temi presenti nel gioco erano stati già fatti sentire durante Remake ma tutto il materiale “riarrangiato” per questo nuovo capitolo è di alto livello, con una ricostruizione sonora che mantiene intatte le immortali melodie Uematsuiane integrandole all’interno di orchestrazioni più stratificate ed elaborate, con un utilizzo sapiente delle armonizzazioni al fine di aumentare la carica emotiva dei pezzi.
Non tutti gli arrangiamenti sono di carattere orchestrale, parliamoci chiaro: i temi di Costa del Sol e del Gold Saucer mantengono quella carica rispettivamente rilassante e giocosa degli originali, ma sono musicati attraverso dei lessici sonori e timbrici che rispondono ai canoni della bossa nova o di certa musica elettronica. Le vere sorprese non mancano comunque, tra incursioni nella musica d’ambiente, sottili nenie acustiche che accompagnano momenti specifici dell’avventura e esplosioni quasi kitsch di musica elettronica per alcune battaglie.
L’elefante nella stanza
Siamo arrivati alle fasi terminali di questa recensione e non abbiamo ancora praticamente parlato del comparto narrativo, l’elemento forse più pericoloso di tutti.
Qui è difficile discutere senza aprire un trattato di dimensioni doppie rispetto a quanto abbiamo già scritto, motivo per cui ci fregeremo del rasoio di Occam e risolveremo il dubbio in una maniera molto semplice: giocatelo anche per la trama.
Final Fantasy VII Rebirth è un videogioco che prende una direzione diversa da quello che gli appassionati si sarebbero aspettati e lo fa in una maniera tanto subdola quanto ben studiata nella stragrande maggioranza dei casi ma riesce a meritarsi il tempo del giocatore e lo fa sempre.
Le modifiche della sceneggiatura, ancora una volta nella stragrande maggioranza dei casi, finiscono per arricchire l’esperienza complessiva dando più contesto a un mondo di gioco di base estremamente forte e che, da tutto questo, ne esce ulteriormente rafforzato.
Ripetiamo: non tutte le scelte operate in questo senso sono prive di punti deboli e anzi, c’è il rischio che chi non sia aggiornatissimo col canone completo della compilation of Final Fantasy VII non capisca alcuni retroscena o alcune citazioni; Square Enix si è comunque premurata di lasciare in giro un sacco di bricioline per permettere ai giocatori di costruire un contesto con cui godere al meglio di questa splendida opera.
A volerci lamentare in maniera sensata bisognerebbe citare la scelta scellerata di costringere il giocatore, in particolari scene, a rallentare enormemente la velocità di gioco tra zoppie e scelte narrative subottimali per il coinvolgimento. Questo è un gran peccato perché Final Fantasy VII Rebirth, per la stragrande maggioranza del tempo, è un videogioco dall’ottimo ritmo e che raramente fa sentire una pesantezza di fondo.
Ah, piccola nota di colore: i testi del gioco sono completamente tradotti in Italiano ed esattamente come per il precedente capitolo l’adattamento è stato fatto direttamente dal giapponese. Questo significa che il doppiaggio inglese (che presumibilmente i giocatori useranno) è particolarmente differente da quello che invece si troverà scritto a schermo!
Non potendo fare molti spoiler non possiamo far altro che consigliare a chiunque sia affezionato ai personaggi e al mondo di gioco di giocare Final Fantasy VII Rebirth perché il rischio di trovarsi davanti una storia coinvolgente nonostante le idiosincrasie è molto più elevato di quello di chiudere tutto quanto per la delusione.
Conclusioni
Final Fantasy VII Rebirth mette assieme una cura spasmodica per i dettagli, un rispetto enorme per il materiale originale e un amore sconfinato per una storia e dei personaggi che aspirano più di tantissimi altri all’immortalità. La risultante di questa concentrazione di emozioni positive e buone intenzioni è il miglior seguito diretto mai comparso nella saga e uno dei migliori capitoli della saga di sempre, con uno dei migliori sistemi di combattimento di sempre per un Action RPG e con una trama che poteva rischiare di più riuscendo comunque a portarsi a casa un numero onestamente sorprendente di twist e soluzioni narrative; la dimostrazione finale che attraverso la qualità è possibile sconfiggere la nostalgia tossica.
PRO
- Sistema di combattimento di una bellezza esagerata
- Impatto visivo di grandissima potenza
- Impressionante quantitativo di contenuti
- Musiche sempre di enorme qualità
- Narrativamente è interessante
- Diverse delle cose riscritte sono ben fatte
CONTRO
- Sistema di movimento che lascia il fianco a diverse imprecisioni
- Livello di sfida bassino per chi ha già giocato il primo
- Il ritmo di alcune scene spezza eccessivamente l'esperienza
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