Chiunque sia stato bambino o adolescente negli anni ’90 ricorderà con particolare affetto The Adventure of Dai: manga ispirato alla celebre saga videoludica Dragon Quest, potrebbe erroneamente essere attribuito ad Akira Toriyama in virtù di quei disegni che sono il suo marchio di fabbrica. In realtà, sebbene l’autore abbia in minima parte contribuito, è stato illustrato da Koji Inada e scritto da Riku Sanjo, entrambi artisti facenti comunque parte di quel Bird Studio fondato da Toriyama stesso.
In Italia il manga è stato pubblicato a partire dal 1997, un anno dopo la conclusione in Giappone, con il titolo Dai – La grande avventura ma dal 2021 è disponibile una riedizione che segue più fedelmente l’originale. Non solo, dal manga è stato anche prodotto un anime che tuttavia si interrompe ben prima del finale effettivo, assieme a tre film di animazione inediti in Italia – verrebbe da dire per fortuna, se si pensa alla discutibilissima traduzione dei nomi in italiano. Un esempio su tutti, Nonno Ubaldo.
Ciò detto, The Adventure of Dai resta una storia molto bella, in particolare se sapete cosa aspettarvi da Toriyama e dal suo studio, che sono stata contenta di vedere trasposta a videogioco con il nome di Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai. Un po’ meno, però, quando giocandoci ho realizzato l’enorme potenziale sprecato e il fatto di trovarmi davanti a un prodotto mediocre in tutto, eccezion fatta ovviamente per la storia che pure viene seguita in parte, proprio come nell’anime, e per la grafica che seppur con qualche leggera sbavatura nei filmati di gameplay rimane ben realizzata.
Non bastano però un effetto nostalgia, una storia presa in prestito (ovvero la cui qualità è confermata da tempo) e uno stile artistico consolidato a costruire un’esperienza meritevole. Vediamo meglio cosa intendo nella recensione della versione PS5 di Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai.
Guardare ma non giocare
Purtroppo, la definizione più calzante di questo gioco è racchiusa nel titolo del paragrafo. Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai si guarda tanto, tantissimo, e si gioca estremamente poco soprattutto nella storia principale (i cui sette capitoli si concludono, peraltro in modo molto blando, con la distruzione del Sovereign Rock Castle, quindi attorno al capitolo 74 del manga. Il modo in cui è stato strutturato prevede moltissimi filmati, la maggior parte dei quali statici in una sorta di effetto slideshow con il pregio di essere interamente doppiato, e occasionali battaglie che si riducono a scontri con i boss oppure, ancora più raramente, a brevi sezioni “dungeon” se così vogliamo definirle.
Per ogni combattimento avete almeno due, se non più, video che vanno dai due minuti quando siete fortunati a oltre i sei. Non scherzo nello scrivere che è stato come rivedere l’anime e ho trascorso più tempo con il pad appoggiato da qualche parte che non in mano: certo, è sempre possibile saltare tutti i filmati oppure mandarli avanti e indietro veloce, tuttavia se non si conosce la storia oppure non ce la si ricorda, o più banalmente la si vuole rivivere, assistere a ognuno è d’obbligo. Delle ventuno ore spese per finire la storia principale, e togliendone tre o quattro per un po’ di grinding, la quasi totalità sono dovute ai filmati. Per darvi un’idea ancora più precisa, il rapporto è di quarantotto icone video contro quarantuno battaglie, escluse le poche missioni opzionali, la cui singola durata arriva a massimo cinque minuti se siete ben allenati – un progresso che bene o male va di pari passo con la storia, eccezion fatta per il sistema delle carte che vi spiegherò fra poco.
Sebbene i primi due capitoli possano ingannare, distribuendo più battaglie che video, andando avanti vi renderete conto che per diversi minuti di video (considerati che una sola icona può contenere più di un video al suo interno) verrete messi di fronte a un breve scontro per poi tornare a posare il pad e fissare lo schermo in attesa. Per quanto interessante sia la storia, né lo negherò mai, non è questo che mi aspetto da un gioco catalogato come action GdR; a onor del vero, persino nelle visual novel c’è più interazione per il semplice fatto che possiamo mandare avanti i dialoghi se la nostra velocità di lettura è superiore alla recitazione. Poiché in Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai sono tutti filmati, non c’è modo di velocizzare il processo a meno di non saltarli completamente o, cosa piuttosto inutile, mandarli avanti in fretta. Un po’ come se foste su YouTube, per darvi meglio un’idea.
Dal modo in cui è strutturato, mi sono più volte trovata a pensare che il gioco sarebbe stato nettamente meglio come picchiaduro, anche in virtù di un gameplay molto blando il cui unico ma parziale punto di forza sono le carte. Le poche missioni extra che accompagnano la storia non differiscono dalle principali né per profondità né per livello di sfida, mentre la modalità Challenge che si sblocca appena finito il gioco è semplicemente la riproposizione delle boss fight a un livello più alto – e con una punta di sbilanciamento dovuta sia al gameplay in sé sia alla gestione degli equipaggiamenti in stile gacha.
Un action GdR fin troppo basilare
Prima di passare a spiegare come funzionano le più volte citate carte, diamo uno sguardo al sistema di combattimento: una volta selezionata la battaglia, prima di scendere in campo possiamo prepararci a dovere scegliendo l’equipaggiamento, dove per questi s’intendono magie e carte. Le armi sono fisse, gli abiti pure (il loro valore resta comunque solo estetico) e gli stessi compagni vengono decisi, se ci sono, dall’andamento della trama. Insomma, siamo limitati ma ha senso sia così, data la fedeltà degli eventi.
Una volta in campo, a prescindere si tratti di un singolo boss o più nemici, avete a disposizione l’attacco base, la parata e la schivata come azioni eseguibili in qualsiasi momento, mentre le tre abilità selezionabili prima di cominciare (siano esse magie o attacchi speciali) hanno un tempo di cooldown la cui durata dipende dall’abilità stessa; non è tuttavia male il fatto di poter accelerare questi tempi attaccando in continuazione il nemico, una decisione che premia uno stile aggressivo.
Stile che però non è ben supportato dalla fluidità del combattimento, che si presenta anzi piuttosto rigida: anzitutto, non è possibile cancellare l’azione che si sta eseguendo in favore di un’altra, il che rende difficile sposare l’azione frenetica con mosse difensive come la parata, che col giusto tempismo diventa parry, e la schivata che invece rallenta di pochissimo il tempo portandovi in vantaggio. Bisogna calibrare in continuazione come agire, per non rischiare di essere colti in contropiede: una necessità che, per l’appunto, non si adatta granché al concetto di essere aggressivi per azzerare più in fretta il cooldown.
Aggiungendo il fatto che il tempismo del parry è davvero difficile da azzeccare, si finisce con il puntare a una sorta di strategia mordi e fuggi, intervallata da momenti di “all-in” in cui riversiamo addosso al nemico tutto l’arsenale a disposizione. In tutto ciò, non aiuta avere un sistema di lock che funziona soltanto con i boss: i cosiddetti minion non vengono presi di mira e, per questo, non sarà raro vedere alcune abilità andare tranquillamente a vuoto. Il fatto inoltre che alcune di queste richiedano a volte del tempo per essere eseguite, senza poterle direzionare una volta avviate, fa sì che se il nemico dovesse spostarsi – fosse anche il boss tenuto sotto tiro dal mirino – queste mancheranno comunque il bersaglio poiché il gioco tiene in memoria la direzione verso cui puntavamo al momento dell’input. Va da sé che tutti questi dettagli portano le seppur brevi battaglie a dilungarsi più del dovuto per i motivi sbagliati, poiché si deve calcolare con precisione come e quando usare cosa, e anche così l’errore è dietro l’angolo.
Oltre a queste azioni, ciascun personaggio ha a disposizione un’abilità unica utilizzabile con L2 e una mossa finale chiamata coup de grâce, la cui potenza è tendenzialmente devastante. A seconda di chi stiamo usando (sì, possiamo passare da un pg all’altro quando vogliamo) cambiano entrambe; in alcuni casi è possibile persino sbloccare più di un coup de grâce. Per quanto riguarda invece l’abilità, è tarata sul personaggio in modo ben congegnato:
Dai, ad esempio, riempie con il tempo un indicatore che gli permette di attivare il potere del drago incrementando così i suoi parametri; Popp entra in modalità concentrazione per azzerare velocemente il cooldown; Maam ricarica il proiettile della propria arma, oppure si concentra anche lei se stiamo utilizzando la sua versione da marzialista. Hyunckel è invece sempre legato all’utilizzo di Amdo, a prescindere che stia usando la spada o la lancia. La possibilità, come scritto, di passare da un personaggio all’altro si rivela fondamentale non solo a causa di una IA discutibile e tendente al suicidio ma, soprattutto, perché non utilizza mai i coup de grâce. Se quindi vogliamo trarre il massimo dallo scontro dobbiamo tenere d’occhio gli indicatori e sfruttarli a dovere.
A differenza dei nemici base, la quasi totalità dei boss è protetta da uno scudo che va spezzato per infliggere loro danni più ingenti; questi verrà ripristinato a breve, dando inoltre al boss un momentaneo boost e rendendo lo scudo stesso invulnerabile, obbligandoci a una temporanea difesa finché la furia del nemico non si sarà placata – lasciandolo, peraltro, di nuovo stordito. Tutte le battaglie sono dunque un continuo ripetersi di queste azioni, senza una particolare strategia, e con un set di oggetti determinato in automatico dal gioco – una decisione che da un lato incentiva a utilizzare tutto quello a nostra disposizione e, dall’altro, limita la personalizzazione degli oggetti di supporto.
Il Tempio dello spirito e del tempo
L’unico vero elemento di spicco di Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai è il Temple of Recollection, che si può riassumere in una sola parola: Hades. Una volta entrati, il paragone sarà quasi automatico e non è affatto un male, anzi: la sua struttura e tutt’altro che rifinita come il successo di Supergiant Games ma è innegabile che la ricordi.
Partendo dal primo piano, dovete scendere fino alle profondità del tempio, i cui piani si sbloccheranno con il progredire della storia, affrontando nemici su nemici in base alle porte che scegliete di attraversare per ottenere un potenziamento a scelta alle relative statistiche: può esserci la sala della magia, quella della difesa, dell’attacco e infine della abilità/coup de grâce. In più potreste incappare in stanze del tesoro, stanze che sono l’equivalente del mercante o addirittura, tramite una chiave speciale che occasionalmente viene venduta, in una piena di slime grigi – e voi sapete cosa significa affrontare questi piccoli, sfuggenti infami, vero?
Una volta sconfitti tutti i nemici di una stanza, che possono essere minion oppure boss in base o alla nostra scelta (alcune porte brillano di un’aura negativa) o al fatto di essere arrivati alla fine del piano in corso, il gioco ci propone tre potenziamenti tra cui scegliere. In base a come vogliamo sviluppare la nostra squadra, decideremo di conseguenza. Tenendo conto che il livello personaggio da cui si parte è sempre 1, con la possibilità di aumentarlo nel corso dell’esplorazione, cosa fa davvero la differenza?
Esatto, le famose carte, altrimenti dette Bond Memory. Si tratta di equipaggiamenti di diversa rarità, che ricalcano momenti salenti della storia, e possono essere ottenute sia durante la trama sia soprattutto nel Tempio. Non solo, proprio qui abbiamo la possibilità di aumentarne la potenza trovando, per pura fortuna, doppioni delle stesse che vengono convertiti in materiali atti a potenziare la carta. Se avete presente come funziona il sistema di overboost delle armi nel recente Final Fantasy VII Ever Crisis, sappiate che qui è lo stesso. Una struttura simil gacha, dunque, che pur non essendo legata ad alcuna spesa di denaro reale o limitazione effettiva dovuta al consumo di stamina, rimane comunque dipendente dalla pura e semplice fortuna. Il che vuol dire non trovare necessariamente quello che ci serve, a maggior ragione sapendo che alcune carte si trovano soltanto dopo un determinato numero di piani (e il livello di difficoltà qui è piuttosto ripido). Poiché per avanzare con una certa sicurezza nelle fasi finali di trama, e soprattutto per affrontare ad armi quasi pari la modalità Challenge, trovare e potenziare determinate carte è necessario, si viene a creare una potenziale battuta d’arresto fastidiosa.
Sebbene la meccanica delle carte sia di per sé interessante, per quanto non originale, legarla a questo sistema fin troppo dipendente dalla fortuna e dalla ripetizione di dungeon non proprio brillanti sotto il profilo del level design va ancora una volta a detrimento dell’esperienza. Hades ci ha costruito attorno un gioco intero, con una trama ben strutturata, un gameplay vario e un level design altrettanto valido. Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai lo rende un elemento secondario che sarebbe stato molto meglio come contenuto a sé, senza legarlo in modo così stretto all’evoluzione del personaggio. Inoltre, se come in Ever Crisis bastasse soltanto trovare copie della stessa carta, senza altri materiali o un incremento continuo degli stessi, sarebbe ancora ancora tollerabile: invece, per potenziare mano a mano le carte non solo servirà trovare molte copie delle stesse (poiché una copia ne fornisce cento ma per i livelli alti ne serviranno di più) ma anche guadagnare ambra da spendere per eseguire questo level up. Vedetela come una sorta di valuta in game, propria del Temple of Recollection: se considerate che solo per i livello massimo, dieci, di una carta occorrono 3500 unità di ambra, fatevi due conti sommari per capire quanta ne occorre in totale per potenziare una singola carta fino al suo massimo.
Lo stesso discorso si applica alle magie. Si ottengono nel corso della trama, tuttavia per potenziale occorre passare dal Temple of Recollection e dall’ottenimento di una serie di materiali: diversi sono ricompense nel corso della storia ma a partire dal livello sei (sempre su dieci) occorreranno materiali reperebili soltanto nei meandri più profondi del tempio. Ancora una volta, dunque, questa meccanica simil gacha si fa sentire e si lega troppo con elementi portanti del sistema di combattimento: finire il gioco non richiede un eccessivo affidamento al Temple of Recollection, io per esempio ci ho trascorso tre o quattro ore in totale ma sono anche stata molto fortunata; se invece volete dedicarvi tanto alla modalità Challenge quanto alle profondità del tempio stesso, dove si nascondono nemici inediti, allora vi conviene rimboccarvi le maniche e armarvi di pazienza. In conclusione, l’idea di fondo è molto buona mentre la sua effettiva applicazione poteva essere assolutamente pensata in maniera diversa.
Esteticamente bello, musicalmente poco d’impatto
Come ho già accennato, lo stile artistico di Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai è un colpo sicuro in particolare per chi apprezza i lavori di Toriyama e del suo team – non saresti qui, d’altro canto, no? I pochi filmati animati sono ben realizzati, al netto di qualche sbavatura, mentre i cosiddetti slideshow che costituiscono la percentuale maggiore dei contenuti video lasciano la sensazione di vedere estrapolate immagini dall’anime stesso. L’unica pecca si ha quando viene effettuato uno zoom, poiché in questi casi si nota la sgranatura soprattutto dei contorni; qualcosa che nemmeno l’effetto seppia applicato sullo schermo riesce a mitigare.
Per quanto riguarda la colonna sonora, nonostante un paio di tracce che rimangono in testa non c’è nulla che spicchi davvero, anche a causa dello scarso contenuto di gameplay nel corso della trama.
Conclusione
Infinity Strash: Dragon Quest The Adventure of Dai avrebbe potuto essere molto di più, lo avrebbe anzi meritato in virtù dell’ottimo manga che è stato a suo tempo e che è tuttora. La scelta di fermarlo ben prima della metà lo rende un prodotto monco, anche in virtù di una conclusione fin troppo frettolosa. Ad aggravare la situazione c’è un’evidente disparità tra ciò che vediamo è quanto, di fatto, siamo chiamati a giocare: si passa molto più tempo senza pad in mano, fissi davanti allo schermo a guardare l’ennesimo filmato che sì, potremmo saltare ma senza il quale non capiremmo niente a maggior ragione se non conosciamo la storia. Quando si tocca il gameplay vero e proprio la situazione non migliora, restituendoci un’esperienza blanda, ripetitiva e priva di mordente nell’estrema brevità delle sue battaglie. L’unico elemento di spicco, il Temple of Recollection, è troppo simil gacha e si rende troppo necessario, soprattutto in post game, per migliorare l’equipaggiamento per dargli il credito che, altrimenti, avrebbe meritato. Tirando le somme, un’ottima storia e un comparto artistico sempre molto valido non bastano a reggere un’esperienza che, in tutto il resto, delude.
PRO
- Ottima storia, seppur interrotta
- Buona l'idea delle Bond Memory
CONTRO
- Gameplay estremamente superficiale
- Evidente sbilanciamento tra narrazione e azione
- Ripetitivo e poco ispirato nel level design
- La struttura Temple of Recollection è simil gacha
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