In un altro universo dove i videogiochi arrivano in tempo per essere recensiti e dove le giornate sono fatte da 35 ore al giorno, la nostra recensione di Starfield sarebbe stata pubblicata con tempistiche leggermente differenti. Ma hey, abbiamo tra le mani uno dei videogiochi più attesi e chiacchierati del 2023, e cos’altro fare se non giocarselo con calma, spolpandolo giorno dopo giorno?
In fin dei conti il tempo è relativo, soprattutto se l’approccio al gameplay di questo gioco non si è rivelato proprio tra i più moderni: un’opinione che ho già avuto modo di esternare sul nostro canale di TikTok (link al video), e che cercheremo di analizzare meglio proprio in questa recensione di Starfield.
Vi anticipiamo fin da subito che nel complesso Starfield è un ottimo gioco, uno di quelli che una volta finiti sarà davvero difficile dimenticarsi, nel senso più positivo possibile di questa frase… Ci sono davvero tanti momenti lungo la storia principale che saranno marchiati a fuoco per sempre nella mia mente per il senso di sorpresa, per la sete di scoperta, per il significato e gli interrogativi filosofici e spirituali di cui si fanno portatori; ma il punto è questo: quanto siete disposti a chiudere gli occhi sulle storture di un gameplay un po’ antiquato per arrivare a finire Starfield?
Svisceriamo per bene l’argomento nei prossimi paragrafi.
In tanti anni di esistenza del medium videoludico, credo siano ancora pochi i videogiochi che possano definirsi come titoli sci-fi puri e assoluti, dove la fantascienza non è usata solo come ambientazione ma anche e soprattutto come mezzo per riflettere sulla società reale, sulla propria vita, sul senso dell’esistenza stessa e sul progresso tecnologico. Tra quelli che ho avuto modo di giocare io in prima persona, così su due piedi credo di poter citare Citizen Sleeper e da un certo punto di vista sicuramente anche Cyberpunk 2077.
Pensateci, esistono tanti videogiochi che vengono catalogati come fantascientifici e che magari lo sono semplicemente perché ambientati in una qualche distopia o perché ci sono alieni e navicelle spaziali. Ciò che intendo dire è che nella galassia di titoli sci-fi in cui fluttuano i videogiochi, sono pochi quelli riconducibili alla fantascienza classica, quella in cui la storia di fondo o l’avventura sono un pretesto per sollevare interrogativi profondi. Perfino opere considerate un must dello sci-fi videoludico, come per esempio Mass Effect, hanno poco a che vedere con questa concezione della fantascienza.
E lo dico da grande appassionato della trilogia di BioWare, tra i miei videogiochi preferiti in assoluto.
Starfield cerca proprio di collocare il proprio asse di rotazione in questo vuoto gravitazionale, e ci prova mettendo in scena una storia che, una volta finita la sua esperienza, credo sia paragonabile solo a opere cult provenienti da altri media come Il Ciclo della Fondazione di Asimov, 2001: Odissea Nello Spazio o Interstellar.
Non sempre ci riesce, ma lo sforzo e l’ispirazione sono tangibili. Il tutto ovviamente avviene sfruttando i trucchetti ludici del game design e un palcoscenico enorme, grande proprio quanto una porzione della nostra galassia che in gioco è rappresentata dai “Sistemi Colonizzati”, un gruppo di sistemi dove l’umanità ha messo piede.
La galassia in cui è ambientato Starfield è proprio la nostra, ma con qualche libertà creativa. Siamo nell’anno 2230, dove l’umanità è nelle sue prime fasi dell’esplorazione e colonizzazione spaziale grazie a un recente avanzamento tecnologico che consente il viaggio istantaneo da un sistema all’altro attraverso motori che sfruttano le onde gravitazionali. La corsa alla colonizzazione dei secoli scorsi è immediatamente sfociata in guerre tra fazioni, ora giunte a una fase di tregua: L’Unione Coloniale da un lato, il Collettivo Freestar dall’altro… e tante altre organizzazioni piccole e grandi nel mezzo, in pieno stile Bethesda.
L’avventura inizia purtroppo in maniera molto blanda e banale: dopo aver trovato uno strano artefatto, il giocatore viene subito identificato come una persona speciale, gli viene donata una navicella e viene immediatamente ammesso all’associazione Constellation, un gruppo di esploratori. Da lì in poi è un susseguirsi di ricerche di altri artefatti, viaggiando da un pianeta all’altro. In queste fasi iniziali le missioni principali si rivelano… noiose, vecchie nel loro design e ripetitive. Il motivo ve lo spieghiamo nel prossimo capitolo, fatto sta che il consiglio è di tenere duro, ne varrà la pena: quando la trama finalmente si disvelerà arrivando al suo punto cruciale, troverete la vera essenza di Starfield.
Ci sono inoltre tanti momenti unici in cui perdersi in Starfield, ma unici nel vero senso del termine perché è matematicamente impossibile vengano replicati da altri giocatori. Ci sono state tante occasioni in cui per esempio sono rimasto incantato a osservare un’alba da una porzione di un pianeta in cui sono atterrato per sbaglio, mentre animali strambi e mai visti prima si adattavano perfettamente al panorama. È proprio andando a esplorare in giro armati solo della curiosità da giocatori che si trovano probabilmente le chicche migliori di Starfield: casinò a gravità zero invasi da pirati, caverne bioluminescenti usate da fanatici religiosi, pianeti interi che sono località turistiche, arche generazionali in viaggio da secoli, e tante altre suggestioni particolari che possono portare anche a interessanti missioni secondarie.
In questo influisce tantissimo l’utilizzo della proceduralità, un metodo che genera in maniera randomizzata asset e contenuti di gioco così da creare esperienze diverse da giocatore in giocatore. La generazione procedurale di Starfield è molto soft e variegata rispetto a un gioco roguelite o a un No Man’s Sky, complice l’enorme sforzo di design e di personale che Bethesda ha compiuto in questi anni di sviluppo, ma si tratta comunque di un metodo che comincia a disvelare la sua ripetitività prima o poi. Personalmente ho cominciato a sentirne il peso una volta passate le 60 ore di gioco (ho concluso poi il titolo arrivato sulle 85): in più di un’occasione ho come avuto dei déjà vu, come se avessi già incontrato un tipo di animale o un’intera struttura.
Non ho alcuna intenzione di fare spoiler, ma sappiate che il gioco riserverà sorprese ludiche e narrative spingendosi più avanti, durante l’end-game. A condire tutta l’esperienza ci sono attività tipiche di ogni gioco open world come la raccolta di determinati campioni, il risolvimento di un piccolo conflitto verbale e così via, perché appunto Starfield, alla fine dei conti, così va considerato: un open-world vecchia scuola. A differenza dei tradizionali open world, invece di avere una mappa continua e liberamente esplorabile, si hanno larghissime porzioni di essa (i pianeti) dislocate in diversi puntini luminosi (i sistemi stellari).
Dispiace che però in tutto questo la propria astronave non sia un mezzo di locomozione reale, ma solo un hub attraverso cui raggiungere – previo caricamento – un nuovo punto di teletrasporto. È paradossale che un videogioco che fa dell’esplorazione spaziale e dell’ignoto il suo cardine non permetta la libera esplorazione.
Il grande ostacolo all’esperienza di Starfield è che il gioco fa di tutto per interrompere l’immersione del giocatore, a causa di problematiche insite nel modo in cui Bethesda sviluppa i suoi giochi fin da sempre. Problematiche che adesso, però, fanno sentire il peso della loro vecchiaia: approcciarsi a un titolo del genere ora, alle soglie del 2024, vuol dire fare un salto indietro di 20 anni perché è letteralmente come giocare all’ennesima versione di The Elder Scrolls III: Morrowind (2002) ma ambientata in una galassia a tema sci-fi.
E chiariamoci, da una particolare prospettiva non è che mi aspettassi qualcosa di diverso, anzi! Il marchio Bethesda è garanzia di un certo tipo di narrativa, di scoperta, di immersione completa nel mondo che viene costruito attorno. E grazie al Dio Serpente Va’ruun, tutto questo in Starfield c’è, e anzi, per significato credo che superi anche tutte le opere precedenti Bethesda.
Il punto è che mi aspettavo che Bethesda dopo 20 anni, con le mani in pasta in una nuova IP, con uno studio allargato a dismisura, con le tecnologie di oggi, con le spalle coperte da Microsoft, avesse ammodernato il suo sviluppo e il suo design fino a toglierne sia i difetti ormai insiti nelle sue precedenti opere, sia a svecchiarne concezioni di gioco che sono considerate ormai superate.
Insomma, volevo un “Fallout nello spazio” ma senza glitch, senza una gestione dei caricamenti che appartiene a diverse generazioni di videogiochi fa, senza una gestione dell’inventario che impedisse al giocatore di divertirsi… e magari senza annacquare il tutto di fetch quest.
Ok, Boomer Bethesda.
Capisco che per molti videogiocatori questi non siano problemi insormontabili, ma per chi come me è abituato a provare dozzine di videogiochi nuovi ogni anno sono problemi non indifferenti: da dove cominciare?
Partiamo da qualcosa di già accennato: non è che da Starfield ci si aspettasse un simulatore spaziale come Elite Dangerous ma sono convinto sia inammissibile strutturare un videogioco tripla-A ambientato nello spazio castrando proprio l’esplorazione, che è addirittura il principio cardine di Constellation, la “gilda” di cui fa parte il giocatore! E non solo, l’esplorazione è sempre stata anche una prerogativa targata Bethesda nei suoi precedenti giochi. Uno degli aspetti più belli per Skyrim, Fallout e compagnia, per esempio, era proprio il trovare durante i proprio viaggi milioni di punti di riferimento da scoprire.
La mappa stellare di Starfield, per quanto ricca di migliaia di pianeti a loro volta colmi di strutture pre-fabbricate via codice e poi smistate in maniera casuale, non offre lo stesso tipo di magia e scoperta nell’esplorazione. Viaggiare da un pianeta all’altro vuol dire avere 4 filmati di caricamento e aprire 8 finestre dei menu, e basta. Viaggiare da un punto all’altro di un pianeta, invece, spesso significa camminare tra rocce e deserti senza nient’altro da guardare.
Inoltre, l’inesistenza di veicoli di terra, unita all’impossibilità di volare con l’astronave lungo le superfici dei pianeti, rende le traversate via terra un incubo di UX e game design: ogni volta bisogna tornare all’astronave con un viaggio rapido e un caricamento, sempre ammesso che l’inventario non sia pieno altrimenti si va solo a piedi, poi una volta nello spazio bisogna riaprire i menu dell’astronave per selezionare un nuovo punto di atterraggio – e nuovo caricamento. E così l’immersione in gioco è frequentemente bloccata da una sorta di zapping continuo tra schermate di caricamento, rocce e un inventario gestito in maniera invereconda.
A dirla tutta è proprio tutta la gestione dell’UX ad essere completamente confusionaria e goffa. Molto spesso nei giochi si tende a considerare UI e UX come sinonimi, ma Starfield è proprio l’esempio calzante per mostrare come invece questi due acronimi siano semplicemente due facce della stessa medaglia, ma pur sempre due facce diverse. E infatti per quanto possa essere bella, curata e azzeccata al tema Nasapunk la UI, purtroppo essa non riesce a comunicare la sua utilità sul piano dell’esperienza dell’utente: tasti che cambiano continuamente funzione da menu a menu anche per cose banali, come il semplice muoversi verso destra o sinistra, oppure metodi non chiari per capire in che inventario ci si trova, per non parlare di nuovo dell’inventario stesso che è quanto di più confusionario possa esistere.
A peggiorare il tutto, le animazioni facciali che a volte sono davvero terribili e inquietanti, e che rompono ogni senso di catalizzazione dei discorsi in gioco, discorsi anche davvero importanti e significativi! Ci sono molte attività e perfino missioni primarie e secondarie che consistono unicamente nel portare un oggetto da un punto A a un punto B, costringendoci a diventare dei fattorini spaziali che non è per nulla divertente, e, ciliegina sulla torta, l’Intelligenza Artificiale di companion e nemici è davvero ma davvero pessima.
A poco serve registrare video sulla fisica di 10.000 patate rinchiuse in uno stanzino se poi il gameplay è a tutti gli effetti appartenente a diverse generazioni di videogiochi fa. Starfield mostra un fianco di Bethesda davvero debole nello sviluppo dei videogiochi, e viene da riflettere se ciò significhi pigrizia nel rinnovarsi da parte degli sviluppatori stessi, o se invece ciò derivi dalle limitazioni dell’utilizzo del Creation Engine. Il motore di gioco di cui si avvale Bethesda è rimodernato in molti aspetti, soprattutto per quel che riguarda la fisica, ma proprio Starfield sembra mettere in chiaro che è giunto il suo tempo, in particolare in questo 2023 denso di titoli eccezionali sotto ogni punto di vista.
Non sapremo mai quale sia la verità tra le due ipotesi, pigrizia o limitazioni tecniche, fatto sta che le basi ludiche e logiche su cui poggia Starfield sono purtroppo mediocri per gli standard dei tripla-A odierni.
Dal capitolo precedente sembra quasi che Starfield non mi sia piaciuto, ma al contrario questo gioco mi è piaciuto così tanto che mi rode abbia limitazioni del genere. Se non siete puntigliosi ed esigenti come me, sicuramente troverete tanto, ma proprio tanto da apprezzare in un gioco del genere come già accennato in apertura di questa recensione.
Ciò che non deve cambiare mai in Bethesda è proprio il suo modo di raccontare storie, facendo respirare l’intero mondo attorno al giocatore e ingolfando ogni piccolo anfratto di dettagli continui a cui prestare attenzione. La cura nei dettagli dell’ambiente è proprio la ricchezza principale di Starfield, specialmente nei primi momenti di gioco quando ancora non si è arrivati al punto focale della trama.
Ciò si evince in primis dal punto di vista visivo, dove grazie alla nuova fisica del Creation Engine adesso è possibile addobbare ogni più striminzito stanzino di oggetti e cianfrusaglie che riescono a comunicare alla perfezione i dintorni. Anche la più inutile prugna poggiata su una scrivania è arricchita di dettagli grafici infinitesimali consultabili nel menu di gioco, ma è nella dimensione narrativa che questi oggetti, anche i più banali, esprimono la loro potenzialità. Per esempio in un laboratorio abbandonato si possono leggere gli ultimi messaggi dello staff mentre si trovano continuamente cassetti divelti, contusioni sui muri e bruciature, scoprendo man mano la storia del posto che è comunicata anche da semplici oggetti gettati a terra.
Come in ogni gioco Bethesda, i luoghi di Starfield “parlano” al giocatore attraverso la loro silente narrativa ambientale, fatta di cura maniacale nei dettagli e, cosa non scontata, interconnessione con l’ambientazione circostante. La storia passata dei Sistemi Colonizzati, ossia di quei sistemi che hanno visto l’arrivo dell’uomo, è collegata in ogni sua sfaccettatura con le tante diverse fazioni di gioco, creando una lore sconfinata che è un piacere continuo scoprire di volta in volta.
La colorata e avveniristica New Atlantis ha effettivamente l’aspetto di un finto paradiso utopistico che nasconde sotto il tappeto chissà quanto lerciume, e infatti la vera vita la si trova nei suoi bassifondi, Il Pozzo. La piattaforma di pesca di Neon City è diventata la sede di grandi mega-corporazioni e del divertimento dopo aver inventato l’Aurora, una sostanza allucinogena che evidentemente smuove un gran giro d’affari, e infatti la città è un’esatta rappresentazione cyberpunk dove ogni corporazione svolge i suoi interessi di facciata, e interessi loschi. Akila City è una rappresentazione sci-fi di come sarebbe il western con grosse bestie aliene e banditi fuori dalle mura, tra rapine in banca e architetture futuristiche che si mescolano all’america coloniale.
Camminare per i vicoli e chiacchierare con le persone di questi diversi scorci sull’immaginario umano di Starfield è appagante nonostante tutte le problematiche sollevate poche righe più su. Tutto ciò contribuisce in maniera silente, lenta ma inesorabile, a costruire nel giocatore un senso di appartenenza, nonché di contributo al mondo circostante, e di progressione.
Contributo personale che può essere elargito anche lasciando la propria impronta nel gioco attraverso la costruzione delle basi o addirittura delle navicelle spaziali. Se il sistema delle basi l’ho trovato un po’ confusionario, in linea proprio con la UX imbranata del gioco, quello delle astronavi invece è sicuramente tra le novità più attraenti di un titolo Bethesda. È possibile assemblare il proprio velivolo pezzo dopo pezzo, modificando davvero a piacere i suoi dettagli estetici e funzionali. In rete è già possibile trovare creazioni incredibili.
Restando in argomento navi spaziali, queste hanno anche una manovrabilità mutuata da videogiochi come Elite Dangerous e Star Wars Squadrons, dove oltre ai soliti movimenti nel vuoto è possibile personalizzare l’allocazione dell’energia on the go nei diversi comparti della nave: armi, scudi, motori, e così via… peccato che ciò serva solo ed esclusivamente ai combattimenti spaziali, visto che non si può far altro con le astronavi a causa dell’assenza di un’effettiva esplorazione.
Al netto di una Intelligenza Artificiale sottotono, i combattimenti tra navi spaziali in realtà si sono rivelati sempre divertenti e adrenalinici, specialmente quando poi diventa possibile sbloccare un puntamento delle armi più mirato… o quando capirete come riuscire ad abbordare una navicella, farle un arrembaggio in prima persona e piazzarvi alla sua guida!
L’intera progressione delle abilità del giocatore è un altro tocco magico di Bethesda sia da un punto di vista visivo che ludico: all’occhio fa comodo vedere le diverse abilità come toppe o medaglie, mentre in termini di gioco è interessante e divertente dover superare delle sfide per avere i successivi gradi delle proprie toppe.
In definitiva l’ambientazione originale Nasapunk creata da Bethesda funziona, è attraente e contemporaneamente nostalgica perché offre uno sguardo sul futuro che passa però anche da tecnologie analogiche tipiche degli anni 80 e 90. Certo, avrebbe fatto comodo un’ascensore all’interno della propria navicella invece che un sistema infinito di scalette da salire molto lentamente, però il carisma che hanno schermini e tastini colorati è fuori ogni scala logica. Soprattutto perché in questo Bethesda non è caduta in banalità: sarebbe stato semplice associare gli anni 80, le tecnologie analogiche e lo spazio con qualcosa di vaporwave o synthwave e invece non ce n’è alcuna traccia.
Dal punto di vista musicale, il lavoro svolto dagli sviluppatori è molto più concentrato verso la creazione di un’opera sci-fi, dove appunto a farla da padrone sono brani lenti e sinfonici, con una presenza smorzata e quasi nulla dei pesanti sintetizzatori da tipiche e reiterate atmosfere spaziali. Ci sono brani che diventano presto memorabili, perché associati perfettamente alle immagini a video che accompagnano il gioco: in particolare il main theme, per esempio, ormai è scolpito nel cervello assieme alla schermata principale di gioco dove compare un’eclissi di una stella, lenta e leggiadra.
In particolare il sonoro è probabilmente la punta di diamante dell’intero reparto tecnico di Starfield. Voci, suoni e musiche si fondono alla perfezione e in maniera bilanciata, offrendo anche la possibilità di ascoltare tutto in 3D ed esperire in questa maniera del gioco in maniera molto più immersiva.
Starfield è un viaggio che a differenza degli altri videogiochi Bethesda non è fisico, non è tanto un movimento da un punto a un altro, ma è più un percorso di spirito, di filosofia, di appartenenza all’umanità e dei loro stessi significati: cos’è l’umanità? Cos’è l’esistenza? Non posso e non voglio farvi spoiler, ma vi assicuro che vi saranno più chiare queste parole una volta raggiunto un certo momento della trama e il finale. È in questi momenti che soppeserete le vostre scelte, le vostre azioni, il vostro percorso, vi guarderete dentro e rifletterete, proprio come accade nelle opere cult della fantascienza. Questo è Starfield, ed è un crimine che il suo gameplay non sia un’esperienza aggiornata, castrata dai limiti tecnici e ludici anacronistici per un tripla-A moderno.
This post was published on 4 Ottobre 2023 20:00
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