Parte della mia passione per i giochi di ruolo tattici proviene da uno specifico momento della mia vita in cui, armato di una PSP, ero costretto a trascorrere lunghissimi periodi in macchina.
Santa PSP, macchina incredibile made in Sony, con il suo carnet di videogiochi estremamente variegato con un ottimo numero di sorprese sempre dietro l’altro, molto spesso provenienti dal sol levante, che mi ha effettivamente salvato dalla noia mortale che soltanto quando sei un semi adolescente (costretto a fare viaggi a cui non vorresti partecipare) sei costretto a subire.
Ecco, sulla mia cara PSP avevo un discreto carnet di videogiochi che spaziavano in generi lontanissimi tra loro: dal puzzle game definitivo Lumines II (la cui colonna sonora è ancora oggi degna di ascolto autonomo) ai soliti Crisis Core, Dexter, Peace Walker e chi più ne ha più ne metta.
A dover citare però il gioco con cui ho passato più tempo in assoluto su PSP non potrei fare altro che citare lui: il porting di Disgaea 2: Cursed Memories chiamato, per l’occasione, Disgaea 2: Dark Hero Days.
Io di Disgaea sapevo poco: tolto qualche speciale letto su questa o quell’altra rivista fu davvero solo frutto del caso il mio incontro con questo brand.
Cosa può combinare un ragazzino con uno scarso livello di inglese, zero conoscenza dei luoghi giusti dell’internet (quella sarebbe arrivata qualche anno dopo).
Fast Forward a diversi mesi dopo: 2000 ore di gioco (che sono, anche a ripensarle oggi, uno sproposito), diversi livelli 9999 raggiunti a suon di b (solo dal capitolo dopo ho capito il funzionamento degli innocent, se penso alle ore “sprecate” in questa maniera mi viene da piangere) e un sacco di divertimento in generale.
Tutto questo per dire che, probabilmente, in redazione non c’era una figura più adatta a parlare di Disgaea 7: Vows of the Virtueless; fortunatamente nessuno aveva voglia di stare a lottare con un TRPG da minmaxer pazzi ed eccoci qua, ancora una volta a parlare di cose che interessano a veramente poche persone made in Nippon Ichi.
Prima di cominciare con la disamina vera e proprio è necessario fare una piccola premessa: Disgaea 7: Vows Of Virtueless è sostanzialmente lo stesso, solidissimo, gioco che Nippon Ichi propone al suo pubblico da quasi vent’anni. Parliamo quindi di un turn based RPG con impostazione tattica, visuale isometrica e contenuti a vagonate in cui il core loop del gioco è uno e uno solo: minmaxare per poter ottenere il massimo possibile dai propri personaggi, le proprie armi, le proprie strategie.
I primi cinque capitoli di Disgaea sostanzialmente sono stati proprio questo: videogiochi tattici in cui la tattica era più legata al processo di farming che alla battaglia vera e propria. Se in un Final Fantasy Tactics o in altri Tactics Ogre Reborn (di cui vi consiglio la recensione) è importantissimo posizionare correttamente i propri personaggi sulla mappa, utilizzare saggiamente le strozzature presenti in loco e così via, in Disgaea il discorso è decisamente diverso.
Tutto l’ardore tattico del gioco si risolve all’interno di un complesso sistema di sviluppo dei personaggi e in dei level cap che non hanno senso di esistere. Se normalmente nei videogiochi di ruolo giapponese i level cap sono fermi al 99 e le statistiche massimo arrivano a 255 o 999, nella saga di Disgaea i limiti sono sottilissimi.
Nei primi 5 Disgaea, ad esempio, il livello massimo era il 9999 e le statistiche potevano raggiungere valori di miliardi; nei successivi la situazione è deragliata ulteriormente aumentando allo sproposito il level cap, offrendo ancora più statistiche e ancora più meccaniche con cui potenziare le stesse.
La saga, quindi, rimane una spassionata corsa ai numeri e ai sistemi per farli gonfiare ancora e ancora; con questo sesto capitolo la saga rinnova il suo parco meccaniche offrendo la possibilità di… potenziare (e chi lo avrebbe mai detto) ancora di più gli oggetti attraverso l’Item Reincarnation; di per sé questo non sarebbe nemmeno un elemento così interessante se non fosse che sono stati aggiunti dei tratti agli oggetti che ne influenzano l’aumento di livello o il loro funzionamento una volta in mano al nostro personaggio designato.
Le altre due importanti novità legate a questo capitolo della saga si chiamano Hell Mode e Jumbification; entrambi hanno una loro barra associata ed entrambi hanno tanto un certo senso stilistico quanto uno prettamente pragmatico, allargando ancora di più la lista delle cose che in questo gioco si possono fare.
Hell Mode: modalità inferno; in un videogioco ambientato all’interno degli inferni cos’altro ci si poteva aspettare? In realtà per parlare di questa modalità sarebbe bene citare qualche elemento di storia trama ma lasceremo la storia di Fuji, Pirilika e soci per il prossimo paragrafo. Di base questa Hell Mode è una particolare stance utilizzabile soltanto da chi possiede determinate armi leggendarie (ispirate ad alcuni dei manufatti più importanti della storia giapponese) che permette l’utilizzo di abilità esclusive e l’attivazione di abilità passive estremamente potenti.
Facciamo un esempio comprensibile: il nostro protagonista Fuji, con la sua Kanzan Musashi, avrà la possibilità di eseguire un attacco speciale che ignora completamente i valori difensivi di un avversario; con gli attacchi normali, invece, si ha la possibilità di ignorare metà del valore difesa del proprio avversario. L’arma infernale di un altro personaggio, invece, permette di controllare le azioni di un avversario in maniera completa, facendogli sprecare turni o utilizzando le sue risorse a vantaggio del giocatore.
Questa modalità per essere attivata ha bisogno del caricamento di un’apposita barra; ogni personaggio ha la sua ed ogni barra si carica in base all’esecuzione di determinate azioni; quando parlavamo di complessità non scherzavamo di certo.
Discorso diverso per la jumbification che ricorda da vicino le forme gigamax introdotte in Pokémon Spada e Scudo. Con questa è possibile far diventare colossale fino a un massimo di due personaggi, così da posizionarli in uno dei lati della mappa; i personaggi jumbificati vedono le loro statistiche aumentare e acquisiscono potentissimi attacchi ad area. Dato che questa tecnica è utilizzabile anche dagli avversari (e preparatevi a maledirli spesso per questo motivo), sarete felici di sapere che attaccando direttamente i bordi della mappa è possibile infliggere danno direttamente al personaggio Jumbificato; altrimenti l’alternativa resta quella dell’attacco speciale diretto direttamente al colosso avversario.
L’aggiunta è logisticamente interessante e aggiungere un interessante layer operativo al completamento delle mappe; purtroppo il tempo necessario per raggiungere il true endgame è incompatibile con le tempistiche della recensione quindi non sappiano se ci sono strategie per abbattere carnage prinny Baal che prevedono la jumbification, ma la meccanica funziona in maniera efficiente e semplifica, di molto, le fasi iniziali del gioco.
Il grosso del gioco, sostanzialmente, è rimasto identico al passato reintegrando anche il sistema di auto-battling che abbiamo visto in Disgaea 6. Diversi passi in avanti sono stati fatti dal punto di vista della mera quality of life, con indicatori che segnano direttamente a schermo il livello di progressione delle quest attive, menu navigabili da cima a fondo con dovizia di dettagli e particolari, possibilità far scomparire l’interfaccia a schermo nei momenti più concitati e così via.
Dal punto di vista meccanico ci sono due modifiche che potrebbero far storcere il naso a chi è un veterano della saga: il sistema di premi legati al numero di HP e SP ripristinati con l’ospedale è stato modificato in maniera da essere più equilibrato per la progressione, esattamente come è stato modificato il sistema di ricompense durante le battaglie. Nei vecchi Disgaea inanellando combo, distruggendo geo panels e in generale giocando in maniera ottimizzata era possibile far salire un indicatore; tanto più i livelli di quest’ultimo aumentavano, tanto più ricche erano le ricompense ricevute a fine mappa.
L’ospedale, in questione caso, è stato rimaneggiato con un sistema Gacha (con valuta interna perfettamente integrata, stiamo calmi) che rallenta leggermente la progressione del giocatore; tanto più ci si cura tanto più si ottengono token da spendere in gacha machines per ottenere, in premio, exp, mana, denaro o armi piuttosto potenti; ci sono diversi tier di gacha e completandoli si ottengono gli accessori più forti. Le ricompense, invece, si ottengono semplicemente soddisfando determinate richieste che riguardano il numero di attacchi subiti, il numero di turni necessari per il completamento della mappa e così via. Ritorna da Disgaea 5 il juice shop che permette al giocatore di redistribuire le risorse parametriche ottenute attraverso ricompense, gacha machines e un miliardo di altre meccaniche; di carne al fuoco ce n’è davvero in quantità esagerata.
Ah: aggiunta assolutamente curiosa è la possibile di passeggiare per gli altri Netherworld dopo averli completati. Questo permetterà al giocatore di scoprire negozi speciali, ottenere NPC particolari e in generale scoprire tanti piccoli segreti legati alla lore sottesa al mondo di gioco.
Una delle caratteristiche più discusse di Disgaea 6 era il suo passaggio dal 2D al 3D, sempre mantenendo fedele l’estetica anime che ha dato i natali alla serie. La transizione tra 2D e 3D, all’atto pratico, non era delle migliori specie su macchine come Switch a causa della limitata potenza di calcolo disponibile.
Questa nuova iterazione del brand continua sul canovaccio posato a terra dal precedente capitolo, offrendo quindi grafica tridimensionale al posto di quella bidimensionale. Rispetto al precedente capitolo c’è un netto miglioramento dell’ottimizzazione, con la modalità prestazioni che sacrifica soltanto in piccola parte la resa visiva in favore dei sessanta frames granitici.
A questo bisogna comunque aggiungere un elemento: nella valutazione dei Disgaea, saga con il gameplay non troppo dissimile da una serie piuttosto complicata di documenti Excel concatenati tra loro, la grafica ha un peso estremamente limitato! Le critiche fatte al precedente capitolo, che in modalità prestazioni per quanto bruttino era perfettamente giocabile, agli occhi di chi scrive hanno sempre avuto un senso molto limitato.
Sicuramente sono migliorate rispetto al precedente capitolo le animazioni delle tecniche speciali, da sempre divertissament e sogno bagnato di chiunque volesse mettere a schermo azioni assolutamente fuori dalle righe; interessante anche la possibilità di ruotare in maniera parziale la telecamera all’interno degli hub di gioco; offre la possibilità di godersi qualche dettaglio in più del mondo di gioco di questa iterazione.
In generale la rinnovata veste grafica di questo capitolo lo renderà sicuramente più interessante del discusso predecessore agli occhi dei videogiocatori e anche su Nintendo Switch, con le dovute limitazioni dovute alla potenza della console, il titolo rimane godibilissimo per chi non è interessato ad avere il massimo dal punto di vista tecnico.
Piuttosto interessante per gli standard del brand la narrativa, sempre completamente sopra le righe e ma ancor più impazzita del solito. Stavolta le veci del protagonista sono di Fuji, un abitante del regno demoniaco di Hinomoto. Quest’ultimo è un netherworld, un “oltretomba” ispirato in maniera importante al periodo Edo nipponico con delle bizzarre differenze.
Facciamo qualche esempio: il bushido, ad esempio, è passato di moda e al suo posto, come regola morale da seguire, c’è l’hinomoto code of destruction. A differenza dei precedenti Disgaea, tra le altre cose, questo è il capitolo forse più piccino dal punto di vista delle dimensioni: non si viaggia tra un oltremondo e l’altro, bensì si viaggia tra le varie sezioni dell’universo Hinamotiano.
Interessanti anche gli altri comprimari con cui il nostro Fuji dovrà fare i conti durante il corso dell’avventura: dalla ricchissima ereditiera Piririka, CEO di un’azienda di moda e proprietaria di una dellle sette armi ancestrali del passato di Hinamoto a uno dei magistrati al momento al governo, con una certa passione per i videogiochi e un altrettanto grande interesse per le idol di Hinamoto.
Per quanto è indubbio che questo genere di narrativa possa avere scarso piglio su chi mal sopporta le giapponesate, bisogna evidenziare quanto buon lavoro sia stato fatto da Nippon Ichi per aggiornare tanti topos a tematiche attuali. Il gioco fa continui riferimenti metatestuali al mondo reale, all’animazione giapponese, ai meme e a questa o quella follia. Da una parte troviamo l’angolo di oltremondo dedicato unicamente al reselling, con tanto di stilettata nei confronti di Sony per la malagestione del lancio di Playstation 5, dall’altra invece troviamo delle scenette conclusive di capitolo che fanno esplodere dal ridere per le immagini utilizz
Di certo l’elemento base è sempre quello: bisogna saper sopportare e apprezzare un certo modo di raccontare storie molto giapponese, con personaggi sempre bislacchi ma sempre all’interno degli stilemi tipici dell’animazione giapponese. Di base questa cosa può piacere o non piacere: nel contesto del gioco rimane interessante ma di certo non ci si può aspettare la caratterizzazione che, invece, abbiamo recentemente visto in molti altri videogiochi.
Mettiamolo subito in chiaro: forse tra tutti quanti i capitoli della saga, nonostante la buona mole di tutorial e informazioni, il settimo capitolo non è il più semplice a cui approcciarsi. La profondità e sopratutto la quantità di meccaniche è tale da allontanare giocatori con esperienze parziali nel genere dei TRPG e non ci stupiamo minimamente di vedere il titolo ignorato dal grandissimo pubblico.
Ciò è tale perché il videogioco ha smesso di rinnovarsi durante il corso dei vari capitoli, continuando ad aggiungere meccaniche ed elementi di profondità a un titolo che di per sé piuttosto complesso. Di nuovo: i fan saranno sicuramente felici di sapere che la grammatica appresa durante i loro precedenti playthrough sia utilizzabile anche in questo caso, i giocatori di nuova data avranno invece delle prime ore non certo semplici da gestire, specie con la maggiore solidità parametrica della fase iniziale del playthrough (che grossolanamente coincide con la storia).
Il vero Disgaea, ancora una volta, si svela al giocatore una volta completata la trama di gioco: è lì che si apre il portale per uno dei più complessi e assurdi videogiochi al momento presenti sul mercato. Ed è qui che, a patto di conoscere la grammatica ludica del brand, inizia veramente il percorso escheriano della mente del giocatore: un mare di numeri, un mare di possibilità, un mare di soluzioni di cui diverse altamente performanti e altre invece talmente efficienti da essere un pizzico meno divertenti delle altre.
E il naufragrar m’è dolce in questo mare dice Leopardi, noto minmaxer marchigiano un secolo e più fa.
Disgaea 7 sistema alcune delle cose che non erano piaciute al grande pubblico del precedente capitolo riproponendo, ancora una volta, la stessa identica formula con qualche grado di complessità in più. Se si conosce la grammatica ludica del brand l’approccio rimane gestibile e anzi, diventa interessante analizzare come affrontare le sfide proposte nelle sezioni iniziali con un numero più limitato di strumenti ludici; se non si conosce la grammatica ludica del brand invece si avrà sicuramente qualche difficoltà ad arrivare alla fine, o alla presunta tale. Peccato perché una volta superato lo scoglio iniziale Disgaea 7 si rivela essere, come i precedenti capitoli, un mondo in cui perdersi e di cui conoscere ogni singolo anfratto in un continuo processo di miglioramento della propria conoscenza meccanica.
This post was published on 26 Settembre 2023 15:00
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