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Recensioni

Amnesia: The Bunker – Recensione | Braccati dal mostro (XSS)

La recensione di Amnesia: The Bunker, ultimo capitolo della serie horror di Frictional Games, arriva postuma rispetto alla scadenza dell’embargo. Quando questo accade, cerco di non leggere le recensioni dei colleghi per non farmi influenzare e per non giocare con pregiudizi o aspettative troppo alte. Questa volta, però, ho letto un buon numero di articoli poiché una collega della redazione di Player lo ha recensito per un’altra testata e abbiamo iniziato a parlarne.

Confrontando le sue parole con quelle lette sulle recensioni in giro sul web, ho notato alcune discrepanze soprattutto per quanto riguarda uno degli elementi che, a detta dello sviluppatore, sarebbe stato distintivo del gioco: la libertà di approccio. Frictional Games, infatti, ha pubblicizzato abbastanza la possibilità di affrontare The Bunker in modi sempre diversi, sperimentando e trovando soluzioni creative.

All’inizio del gioco, appare un consiglio: “Impara. Adattati. Sperimenta.”. Più chiaro di così… Ed è proprio così che ho deciso di giocare Amnesia: The Bunker effettuando qualche test per capire se fosse effettivamente vero. Vediamo com’è andata.

Braccati dal mostro in un bunker

Prima Guerra Mondiale, la trincea non perdona. Il soldato francese Henri Clément si batte con tutte le forze rimastegli coadiuvato da un compagno d’armi. Mentre i due cercano di sopravvivere ai mortai e alla furia dei nemici, cadono proprio sotto le granate dei soldati tedeschi. Ma per Henri non è ancora finita, anche se forse avrebbe preferito di sì se avesse saputo dove si sarebbe svegliato in seguito.

Il nostro protagonista si risveglia in un bunker, che già di per sé non è un luogo accogliente e solare, ma almeno è al sicuro dalle bombe… eppure, un’altra minaccia è lì ad attenderlo. Corpi mutilati e ruggiti bestiali fanno subito intendere che in quel bunker c’è qualcosa di grosso e ha molta fame.

Questo è l’incipit di una storia che non viene raccontata in modo canonico. AtB è tutto gameplay, non c’è praticamente presenza di cutscene, pertanto tutte le informazioni narrative possono essere apprese attraverso la lettura dei documenti scritti dai soldati che sono stati in quel bunker prima di noi. In linea generale, la trama di questo capitolo non è minimamente paragonabile a quella di Rebirth, ma anche dei capitoli che hanno iniziato la serie in grado di mettere il costante dubbio nel giocatore di assistere a qualcosa di creato dalla mente del protagonista.

AtB sembra essere più tangibile da qual punto di vista e non si perde in spiegazioni su cui rimuginare troppo. Leggendo i documenti, la nostra conoscenza del contesto si amplia tantissimo, tuttavia la trama rimane su un binario che serve a portarci solo da una parte: siamo in un bunker e siamo braccati da una creatura famelica. Bisogna fuggire.

Questa scelta è senza dubbio coerente con l’intenzione da parte di Frictional di concentrare l’attenzione del giocatore sulle meccaniche di gioco, sulle regole da seguire per fuggire dalla bestia.

I documenti, più che per un contesto narrativo, sono stati inseriti, per dare aiuti diegetici. E questa cosa mi è piaciuta molto. Il giocatore viene indirizzato verso un’area o un’altra tramite le note dei soldati, gli obiettivi vengono fissati non in modo schematico come se il protagonista fosse onnisciente e sapesse già cosa fare, ma vengono appresi grazie alla lettura dei documenti. Questi, però, non sono didascalici. Non ci dicono di andare in un luogo o di prendere un oggetto come se chi li ha scritti sapesse già che saremmo arrivati noi, non avrebbe avuto senso.

Invece, le note sono scritte in modo naturale; si tratta di ordini di alti ufficiali, lettere, confidenze tra commilitoni che fanno capire al giocatore cosa deve prendere e come.

Gioca come vuoi

Arriviamo alla parte più succosa. Gioca come vuoi non me lo sono inventato io, è lo sviluppatore a dircelo, evidenziando la libertà d’approccio che AtB dovrebbe consegnare al giocatore, permettendogli di superare gli ostacoli lungo la via e il raggiungimento di un obiettivo sperimentando da sé la soluzione che più ritiene logica in quel momento. Anzi, sempre il gioco ci dice, tra i vari consigli, che se pensiamo che una cosa si possa fare, allora possiamo farla. Concetto ambizioso. Io da tempo sogno un horror o un’avventura grafica che permetta al giocatore di decidere come risolvere un enigma o uscire da una brutta situazione, senza incappare in alcun tipo di paletto.

Partiamo però dalle basi. Nel gioco, possiamo saltare, accovacciarci e stenderci, sbirciare e ovviamente correre. A nostra disposizione vengono forniti fin dalle prime battute alcuni strumenti che ci renderanno più agevole l’esplorazione e l’autodifesa: un revolver con un numero risicatissimo di proiettili, una torcia a dinamo e un orologio da taschino per tenere il tempo quando alimenteremo un generatore con le taniche di gasolio che troveremo in giro. Proprio il generatore ci porta a fare qualche considerazione.

Il bunker è perennemente al buio e tutto ciò che è elettronico tende a non funzionare se non alimentato. Non c’è, a dispetto dei capitoli precedenti, la dinamica della salute mentale che si abbassa se si sta troppo al buio. Henri può benissimo camminare e sostare in zone buie senza aver alcun tipo di problema fisico e mentale, ma la regola di base del gioco è quella di tenere tutto illuminato perché la bestia ha paura della luce e la torcia a dinamo va caricata manualmente generando rumore. Ho fatto vari test e ho notato che il rumore della carica della torcia non è esattamente un motivo di spawn automatico, anzi, gli spawn del mostro, una sorta di wendigo gigantesco, sono più casuali di quanto ci dica il gioco.

In più di un’occasione, ho fatto rumore con delle esplosioni causate da porte trappola, ma nonostante la zona fosse illuminata, il mostro mi ha comunque inseguito facendosi beffe della sua paura della luce. In altre occasioni, invece, ho lasciato tutto spento (e alla fine, se non per un paio di casi in cui è fondamentale alimentare il generatore per andare avanti, ho deciso di giocare quasi tutta la run al buio) ritrovandomi comunque il mostro a due metri nonostante non avessi fatto il minimo rumore, nemmeno con la torcia. La casualità degli spawn infrange le regole stesse del gioco.

Ma dove ho visto sgretolarsi la libertà d’approccio è durante la ricerca degli strumenti avanzati e durante l’esplorazione del bunker. A nostra disposizione abbiamo infatti anche attrezzi che vanno prima trovati, come le cesoie e la chiave inglese. Le cesoie sono praticamente l’unico modo per oltrepassare i cancelli chiusi da catene. Ho provato a sparare, lanciare un mattone e anche far esplodere le catene, non funziona nulla di tutto ciò. Le cesoie sono un oggetto chiave. E va bene, ci può stare. Mi sono però ritrovato in una stanzetta con delle risorse al di là di un cancelletto chiuso con catene. Non avevo ancora le cesoie. Ho cercato una via alternativa e l’ho trovata. Di lato, ho visto una grata, purtroppo anche quella via mi era vietata perché non in possesso della chiave inglese utile ad allentare i bulloni.

Senza quegli strumenti, lì non ci potevo andare. E qualcuno potrebbe obiettare dicendomi che è giusto così, altrimenti gli strumenti potrebbero anche non essere trovati mai. Certo, il punto è che gli stessi attrezzi chiave sono a loro volta raccoglibili solo se in possesso di altri oggetti che a loro volta vanno trovati avendone con sé ulteriori. Un esempio: ho bisogno della chiave inglese, altrimenti non posso entrare nella stanza di comando delle celle in cui si trovano le cesoie. Per ottenere la chiave inglese ho bisogno di aprire l’armadietto del proprietario, ma è chiuso con un codice. Per ottenere il codice devo recarmi nell’ufficio, ma questo è chiuso a chiave. La chiave è rintracciabile in un altro luogo ancora.

Se non si eseguono questi passaggi, non è possibile andare avanti. E vanno seguiti pedissequamente, non è possibile adattarsi e sperimentare. Infatti, tutte le porte chiuse con un codice si aprono solo se si ha il codice, punto. Non c’è una strada alternativa. Sia chiaro, non pretendevo il level design di Prey o di un qualsiasi Deus Ex, ma se lo slogan del gioco è: Impara. Adattati. Sperimenta a me un po’ rode se devo fare un continuo backtracking che poteva essere evitato proprio offrendo delle soluzioni alternative alla progressione.

Altri test li ho fatti sulle porte di legno: queste possono essere aperte sbloccandole dall’interno o, se si vuole fare prima, lanciando un mattone o facendole esplodere con una granata (generando rumore in entrambi i casi). Qui, pertanto, c’è effettivamente maggior libertà di decisione sul da farsi. Il problema è che il mattone deve essere fisicamente un mattone. Mi spiego. I mattoni sono risorse come i proiettili e le taniche di gasolio, quindi è già tanto se ne trovate uno in un’intera macroarea, il che risulta risibile considerando che il bunker sta letteralmente crollando a pezzi. Inoltre, se si prova a distruggere una porta di legno, sottolineo di legno, e pure marcio, con altri oggetti, non funziona.

Ho provato a rompere una porta con una sedia perché ho voluto seguire la regola “Adattati”. Il mattone era troppo lontano e avrei potuto morire nel tragitto (non ci sono i checkpoint e i salvataggi rapidi, si può salvare solo presso alcune lampade a olio), così ho sperimentato il lancio del mobilio. La cosa era talmente non contemplata, che la sedia si è compenetrata per poi esplodere letteralmente in mille pezzi lasciando la porta intatta.

Con queste premesse, non posso assolutamente promuovere la libertà d’approccio.

Un vero survival

Arrivati fin qui potreste pensare che Amnesia: The Bunker non mi sia piaciuto, anzi, che sia addirittura un disastro ai miei occhi. E invece non è così. Mi sono reso conto della fallacia di quello che è rimasto effettivamente solo uno slogan, l’ “Impara. Adattati. Sperimenta” che ogni tanto torna in questa recensione, ma il gioco, in quanto survival horror, mi è piaciuto perché presenta dinamiche ed elementi propri di un genere che, nel tempo, si è andato un po’ troppo a contaminare con altri, l’action primo fra tutti. E sono specificamente tre le dinamiche che mi hanno convinto.

Il primo elemento è la scarsità delle risorse che un vero impatto sul gameplay e sulle decisioni del giocatore. In altri videogiochi horror, spesso ci viene detto di non consumare risorse scriteriatamente, ma alla fine, con un minimo di oculatezza, si riesce a portarli a termine con centinaia di proiettili e decine di medikit. Qui è assolutamente impossibile. Ogni risorsa è contata. Non ci sono surplus o modi per accumularne tante, si rischia in più occasioni di ritrovarsi in una situazione spiacevole senza avere davvero nulla nell’inventario (anch’esso poco capiente all’inizio con sei slot disponibili, ma espandibile trovando le bisacce).

I proiettili possono essere usati anche per spaventare la bestia (la quantità dipende dalla difficoltà scelta), e proprio in questi casi si può constatare la bontà delle meccaniche survival, poiché sparare un singolo proiettile, invece di darsi alla fuga, sebbene possa darci il tempo necessario per fare le nostre cose, potrebbe rivelarsi una decisione sbagliata.

La bestia, dal canto suo, se ci prende metterà fine ai giochi. Non ci sono seconde chance quando la incontriamo. E considerando che tra un salvataggio e l’altro può passare anche mezz’ora, la sensazione di essere in pericolo c’è. Proprio questo è il secondo elemento che mi ha convinto. Gli spawn casuali del nemico possono trasformare la tensione in frustrazione, va detto, ma nel complesso la sensazione di essere braccati da una creatura troppo più forte e intelligente di noi si sente eccome, sulla falsariga di Alien Isolation.

Il mostro non è l’unica minaccia, ci sono anche topi grossi come barboncini. Questi vanno aggirati, spaventati facendo scattare trappole esplosive presenti sul percorso o dando fuoco ai cadaveri. Anche in questi casi, le possibilità offerte dal gioco mi sono sembrate troppo guidate, tuttavia gli incontri con queste piccole comunità di roditori possono contribuire ad aumentare la tensione.

Il terzo elemento che mi è parso ispiratissimo è la capacità del team di far orientare il giocatore senza una mappa richiamabile. Le mappe sono presenti in alcune stanze, ma non possiamo portarle con noi, dobbiamo memorizzarle. Nel bunker, però, ci sono indicazioni visive che ci consentono di orientarci come si farebbe nella realtà: leggendo i cartelli. Il ritmo e l’immersività non vengono così mai spezzati dalla schermata della mappa.

Tutto ciò rende il survival horror di Frictional abbastanza hardcore. Non a livelli da rage quit, ma alcuni giocatori, abituati ormai a un certo tipo di videogiochi horror, potrebbero trovarsi spiazzati di fronte a meccaniche così poco permissive. Ed è assolutamente una buona cosa.

Tecnicamente un po’ indietro

Dal punto di vista tecnico, non c’è molto da dire. Il gioco è in linea con le produzioni di Frictional, da Soma ad Amnesia: Rebirth. Non sono stati fatti molti passi avanti, la grafica non è certamente quella che oggi si definirebbe da next gen.

Il gioco punta sulla credibilità dell’ambientazione, sul senso di claustrofobia che questa deve far insorgere e sulla sensazione di essere davvero soli in un luogo buio e senza vie di fuga. Più che sulla grafica, dunque, The Bunker punta sull’atmosfera e sul sonoro che ha pochi elementi distintivi, ma fatti comunque in modo più che apprezzabile.

Il titolo si può terminare in circa 4-5 ore. Il team ha puntato sulla rigiocabilità piuttosto che sulla longevità della singola run, infatti, la posizione delle risorse e i codici vengono generati randomicamente a ogni nuova partita.

Commento finale

Amnesia: The Bunker è un bel survival horror? Assolutamente sì, grazie alle sue meccaniche e alle regole che vigono in game che lo rendono un vero esponente del genere. La scarsità di risorse, la sensazione di claustrofobia e di essere braccati da un mostro, la necessità di orientarsi tramite indicazioni visive lo rendono un bel prodotto. Però, non possiamo chiudere gli occhi e le orecchie quando ci viene detto e scritto che per uscire dal quel bunker possiamo giocare come vogliamo, adattandoci e sperimentando. Quello è uno slogan che non si realizza quasi mai pad alla mano. Ed è un vero peccato perché era proprio quella libertà di approcciare all’orrore che poteva e doveva renderlo unico.

This post was published on 7 Giugno 2023 15:54

Michele Longobardi

Laureato in Lettere moderne, scopro la passione per il giornalismo quasi per caso. I videogiochi sono il mio più grande amore e così decido di coniugare le due cose. Il giornalismo videoludico diventa la mia forma finale. Per me i videogiochi sono una forma d'arte e guai a dirmi il contrario. Appassionato di tutto ciò da cui sgorga sangue: cinema horror (registi preferiti Argento e Romero), letteratura gialla e dell'orrore (autori preferiti Christie, Poe e Lovecraft) e ovviamente i videogiochi del genere (Silent Hill e Resident Evil sopra ogni cosa). Il mio videogioco preferito di sempre è Fahrenheit che ho finito un numero non precisato di volte, da lì scaturisce la mia ammirazione per tutti i lavori di David Cage. La mia "carriera" videoludica è segnata da un marchio da cui non sono mai riuscito a staccarmi: PlayStation! In circa 20 anni di gaming, ho completato più di 800 titoli.

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