L’umanità è effimera.
L’arte è estrinsecazione dell’umanità.
L’arte è effimera.
Partendo da un semplice sillogismo, possiamo renderci subito conto di quale sia uno dei più grandi problemi che corre l’arte umana: il rischio di sparire. Chi fa arte lo fa, tendenzialmente per comunicare qualcosa al mondo, che può essere un messaggio politico, religioso, sociale, tutto filtrato dalla sua visione, tramite i mezzi di cui l’arte dispone.
Il secondo sillogismo che voglio proporre però, restringe un po’ il campo e rischia di terrorizzare noi amanti del videogioco, nonostante sia un sillogismo a cui si è potuti giungere, solo con grandi sforzi da parte di industria e consumatori:
L’arte è effimera.
I videogiochi sono arte.
Il videogioco è effimero.
L’uomo da sempre è conscio della natura flebile dell’arte, ed ha sviluppato un senso innato di conservazione della materia, per riuscire a lasciare una testimonianza di sé a chiunque verrà dopo. E si parla di testimonianze quanto più contestualizzabili e comprensibili possibile.
Nessuno vuole correre il rischio di venir dimenticato, come un‘Harappa qualsiasi.
Da questo sentimento di conservazione, nascono opere umane atte proprio, non a creare ma a preservare, a dare un’immagine più nitida possibile di cos’è stata l’umanità nei secoli che abbiamo attraversato.
Tra il 1937 e il 1940 ad esempio, viene creata in Georgia, la Cripta della Civilizzazione, una vera e propria capsula del tempo chiusa ermeticamente, con l’istruzione di venir aperta soltanto dopo il 28 maggio 8113. Al suo interno, centinaia di manufatti, da testi religiosi a letteratura laica, da registrazioni sonore a record mondiali (secondo le valutazioni degli esperti del Guinness World record);
Altro esempio potrebbe essere il satellite KEO, ovvero un’enorme navicella spaziale contenente testimonianze della presenza umana sulla Terra, per chi abiterà il pianeta tra 50.000 anni. All’apertura della navicella, è presente un compendio per la comprensione dell’inglese, nell’ipotesi che tale lingua venga dimenticata. Ironia della sorte, il compendio è in inglese.
Vari autori hanno declinato questa Umana “ode al ricordo”: pensiamo ad Hideaki Anno che, nella sua opera Neon Genesis Evangelion, impernia la ragion d’essere del suo racconto, sulla creazione di un Dio come testimonianza dell’esistenza umana (tante coscienze che confluiscono in una sola), riprendendo le tesi filosofiche di Feuerbach, secondo cui è l’uomo a creare Dio, a dar quindi consistenza all’astrattezza. “La totale e reale essenza dell’uomo”, per citare le parole del filosofo.
E cosa c’è di più indicato come il ricordo, parlando di un’entità a cavallo tra concreto e astratto?
Declinando però questo discorso in un mondo che conosciamo meglio, ovvero quello dei videogiochi, la volontà di conservare e tramandare è maturata con gli anni, mettendo tanti sviluppatori davanti al problema di riuscire a far conoscere giochi, per cui non esistono nemmeno più supporti che permettano di giocarli.
Nei primi decenni di sviluppo videoludico, la necessità non si avvertiva più di tanto, in quanto la progressione dei supporti era lenta e, soprattutto, nessuno sapeva come il medium si sarebbe evoluto o, se fosse soltanto un fenomeno passeggero. Con l’avvento di nuove tecnologie, lo sviluppo è diventato più veloce e il mercato più vorace, imponendo il problema della preservazione.
La risposta è arrivata nei remake e nelle remaster.
Sono questi i due metodi con cui le software house, cercano di tenere alti e vivi brand, talmente famosi da essere estemporanei nelle coscienze dei giocatori, ma che diventano man mano sempre più difficili da recuperare.
Sul fenomeno remake (tendenzialmente, rifare un gioco da zero, variando talvolta impostazioni di gameplay e quality of life) e remaster (tenere la struttura di gioco tendenzialmente uguale all’originale, arricchendo il tutto con grafica migliorata e lievi migliorie all’esperienza generale) si è parlato tanto, dividendo il pubblico tra chi li reputa uno spreco di risorse e tempo e tra chi vede in questi, dei giusti metodi per far sopravvivere o addirittura regalare una seconda giovinezza, a determinati titoli.
Questa volta, a maneggiare la patata bollente della remaster, è Square Enix.
La famosa software house giapponese, propone una nuova versione di alcuni titoli di uno dei brand che ha totalmente popolarizzato un certo modo di intendere i videogiochi di ruolo, elevandolo sia dal punto di vista narrativo che di gameplay: Final Fantasy.
Di cosa si tratta?
Final Fantasy Pixel Remaster è una raccolta dei primi 6 capitoli della saga di Final Fantasy con un comparto grafico rinnovato, un comparto sonoro rinnovato e diverse piccole chicche che potranno far battere il cuore degli appassionati, desiderosi di affrontare i mondi della loro infanzia con una qualità maggiore, senza però tralasciare il positivo impatto che, un’operazione del genere, potrebbe avere su chi non ha mai giocato questi titoli, così vecchi eppure tanto attuali.
Non è certo la prima volta che questi titoli vengono proposti in una salsa “moderna”, cercando di offrire sempre più vie per fruire di opere che hanno rivoluzionato un linguaggio. La Pixel Remaster non punta soltanto alla semplice riproposizione dei vari titoli ma cerca di rendere videogiochi usciti in periodi molto diversi tra loro parte di un unico grande canone attraverso uniformità di font, arrangiamenti, impatto visivo e opzioni extra-gioco.
Il pericolo in cui si rischia di incorrere è quello dell’operazione nostalgia malriuscita: Final Fantasy, d’altronde, è un brand che si vende da solo e che non ha di certo bisogno di grandi opere di convincimento per vendere qualche milioncino di copie. Il brand conta ormai milioni di appassionati che non vedono l’ora di rigettarsi nostalgicamente all’interno delle storie e dei mondi che hanno amato.
C’è da chiedersi dunque se e quanto Square Enix abbia approfittato di questo fattore, per adagiarsi sugli allori, con la sicumera di chi sa a cosa andrà in contro.
La Pixel Remaster, alla luce di quanto detto e dell’interrogativo posto, risulta tutto sommato una buona operazione nostalgia. La capacità di rendere così omogenea l’esperienza, nonostante alcuni titoli della saga (i primi tre soprattutto) siano narrativamente più deboli degli altri, sia nel gameplay che nella trama, è sicuramente ravvisabile e importante.
Tuttavia, sono stati fatti dei passi importanti in termini di quality of life, che hanno reso la navigazione nei menù molto più gradevole rispetto agli originali Final Fantasy, con spiegazioni dettagliate per ogni voce presente. Questo fattore, aiuta i giocatori di oggi, ad immergersi in titoli così seminali, così spartani e “pratici” nelle azioni di gameplay.
Prima di valutare l’opera generale però, è giusto capire quali sono i nomi che hanno contribuito a rendere questa remaster, il piccolo gioiellino che è.
Uno degli aspetti che ha da subito colpito gli appassionati di Final Fantasy, al momento dell’annuncio della Pixel remaster, è stato sicuramente il comparto grafico. Sebbene i modelli restino molto simili alle versioni per SNES, gli sprite sono stati rifiniti, rendendo tutto molto più gradevole agli occhi pur
Il contributo più grande, lo si deve alla sensei Kazuko Shibuya.
Shibuya è uno dei nomi che, già in passato, aveva apposto più volte la sua firma sul brand di Final Fantasy. Dapprima, era diventata celebre per i contributi dati tramite l’utilizzo della pixel-art, mentre successivamente, coadiuvata da Yoshitaka Amano (di cui parleremo tra poco), contribuì ai character design dei vari Final fantasy in 3D.
In questa raccolta il ritorno di Kazuko Shibuya rende il comparto grafico davvero interessante, pur senza passare per il blasonato 2DHD. La pixel-art del gioco è precisa e nitida, creando un piacevole piano su cui posare la vista. I personaggi, che si tratti dei vari protagonisti o dei mostri che si incontrano, risultano essere perfettamente distinguibili ed evitano il problema che solitamente avviene con l’upscaling tramite filtro che solitamente accade alla pixel art più anzianotta.
Ai tempi dell’uscita dei primi Final Fantasy tante tecnologie non erano ancora evolute a dovere. Pensiamo alla musica, ad esempio: le composizioni dell’epoca erano realizzate con in mente le limitazioni tecniche dei chip sonori dell’epoca tra onde quadre e approssimazioni numeriche.
Nel 1987 Uematsu iniziò a collaborare con SquareSoft quasi per caso, così per racimolare per soldi: fu l’incontro con Sakaguchi a rivoluzionare la vita del compositore, dando direzione a una vena artistica che pian piano trasformò il giapponese in una leggenda vivente della musica videoludica.
La Final Fantasy Pixel Remaster possiede una colonna sonora riaggiornata alle sonorità consone dei tempi moderni. Uematsu, che ha supervisionato il lavoro di remaster, ha collaborato con un team di arrangiatori e musicisti diretti da Hidenori Miyanaga, già noto per il lavoro fatto con molteplici porting della saga di Dragon Quest.
Strumenti reali quindi: una piccola orchestrina a musicare di nuovo temi che erano stati incensati dal lavoro certosino di Uematsu alle onde quadre, e che in forma orchestrale perdono un po’ del potere melodico in favore di atmosfere meglio delineate.
Fortunatamente, in qeusto caso, Squaresoft ha fatto la brava ed ha inserito in ogni gioco un’impostazione per cambiare istantaneamente il tipo di colonna sonora. Scegliere tra la versione originale delle melodie e quella riaggiornata costa un semplice clic ed è una cosa più comoda che mai.
Nel menù iniziale dei vari giochi tra l’altro, è possibile fruire esclusivamente delle varie canzoni che compongono “l’album” di ogni gioco. Potrete quindi semplicemente accendere la PlayStation e, dopo una lunga sessione di gioco, scegliere uno dei 6 titoli a vostra disposzione e iniziare ad ascoltare la colonna sonora che preferite.
Parlando di contributi dati all’opera e di contenuti esclusivi della Pixel Remaster, una menzione d’onore va data a Yoshitaka Amano.
Amano è un illustratore che con ha legato la sua firma a Final fantasy, in una maniera indelebile. Amano è infatti l’autore del logo di “Final Fantasy”. Ma il suo contributo non finisce qui.
Sempre dal menù iniziale, vi sarà possibile accedere ad una galleria d’immagini, un vero e proprio album digitale pieno di illustrazioni di Yoshitaka Amano. Vi sono illustrazioni tra le più disparate, da semplici bozzetti a veri e propri character design definitivi dei personaggi dei vari titoli.
Quello di Amano è uno stile ricco di linee, tratteggi e dettagli, dalla linea chiara seppur arzigogolata. L’uso sapiente dei colori, rende l’esperienza di navigazione nella galleria, una vera gioia per gli occhi. Che siate appassionati o meno del brand, osservare certe opere e poter assistere, contestualmente, a come sono state tradotte in pixel-art, non potrà non farvi battere il cuore.
Nei menù sarete quindi cullati nella vista e nell’udito. Ma una volta superati i menù, i giochi come sono?
Si fa una certa difficoltà a raccontare la Pixel Remster, per via della mole imponente di contenuto che ci si trova riversato addosso. Ricordiamo comunque che, i titoli possono essere acquistati singolarmente, non è necessario l’acquisto dell’intera collezione.
Per comodità dunque, divideremo i titoli in due gruppi da analizzare, secondo un criterio puramente soggettivo, ma forse nemmeno così tanto a pensarci bene.
Final Fantasy I ha rappresentato una delle sorprese più grandi per il sottoscritto.
Bisogna sicuramente mettersi nell’ottica di star giocando un gioco molto vecchio, sviluppato e scritto in un periodo in cui nessuno sapeva quali potessero essere le potenzialità del medium videoludico, riducendo quindi le storie ad una linearità d’intrecci che poco hanno di sorprendente.
C’è un team di eroi in salsa fantasy (guerrieri, maghi, curatori) che devono salvare la principessa, sconfiggere il male, preservare i cristalli, tutta abbracciato dalla classica predestinazione delle fiabe medievali di cavalieri e Re. Tuttavia, contestualizzando il contestualizzabile, si finisce per restare incantati dalla potenza espressiva che pochi pixel riescono a trasmettere, riuscendo quasi a vedere chi nel 1987, stava dall’altra parte del computer, sviluppando una storia epica in un mondo decisamente vasto per un gioco dell’epoca.
Si riesce a percepire la voglia degli sviluppatori, la loro emozione nel vedere in azione una storia che, per quanto ad oggi risulti banale, metteva le basi per un mondo infinito di racconti.
Final Fantasy II invece cerca un po’ di ampliare tanto gli orizzonti narrativi quanto quelli del gameplay, complicando i primi e cercando di rendere originali i secondi. In entrambi i casi parliamo di un risultato altalenante, con dei personaggi si finalmente caratterizzati ma ancora vittima di una certa ingenuità di fondo.
Discorso diverso per il gameplay, sicuramente uno di quelli invecchiati peggio con un sistema di potenziamento dei personaggi non particolarmente interessante, che costringe davvero al grinding e che è facile da rompere così da rendere il gioco poco divertente. Fortunatamente il valore storico del titolo in questione rimane identico: parliamo di un videogioco con dentro i primi chocobo della storia, mica pizza e fichi. Comunque la maratona del Dungeon Finale (chi c’è stato sa) è stata finalmente alleggerita con dei punti di ristoro per HP e MP all’interno di uno dei dungeon più insopportabili della storia dei videogiochi.
Più interessante il terzo capitolo invece che si, ritorna ad un impostazione meno narrativa in favore di un gameplay (per l’epoca) fortissimo. Parliamo di uno dei primi job system della storia, per l’occasione alleggerito da alcune storture che caratterizzavano l’originale, in favore di un equilibrio più gestibile.
La difficoltà rimane molto alta, forse quella maggiore in assoluto tra tutti i capitoli che compongono la collection; dei tre iniziali questo è quello più divertente ma anche quello che è più semplice da dimenticare semplicemente perché la stessa formula viene ripetuta con maggiore efficacia sia narrativa che ludica dal quinto capitolo.
Quarto Final Fantasy prima grande rivoluzione: l’ATB cambia le carte in tavola creando un proto ARPG a turni, con un sistema quasi in tempo reale che gestisce le turnazioni dei combattimenti. Final Fantasy IV rappresenta un vero e proprio cambio di marcia rispetto al passato: una narrazione più matura, una valanga di personaggi, un worldbuilding indimenticabile e finalmente dei protagonisti in grado di reggere il confronto con il presente.
Cecil, Kain, Rosa, il regno di Baron, andare sulla luna e sottoterra: questo è uno dei videogiochi più imperdibili della storia e averlo nella forma della pixel remaster è davvero una gioia senza pari. Assolutamente un capitolo che ci sentiamo di consigliare anche per il suo acquisto singolo, tanto per il valore storico quanto per il valore ludico.
Più leggero narrativamente il quinto capitolo che però, dalla sua, può vantare il miglior job system mai comparso nella saga (10-2 escluso). Parliamo di un capitolo dalle tinte fantasyeggianti con un pizzico di cyberpunk, un po’ di archeologia, qualche dimensione parallela ed un carismatico come una pianta da giardino (pun-intended).
Il gameplay di Final Fantasy V ancora oggi permette ai giocatori di sbizzarrirsi nelle creazioni di strategie efficaci contro vari tipi di mostri, permettendo agli smanettoni di costruire il team perfetto per affrontare tutte le minacce che Sakaguchi e company hanno messo sul campo. Anche questa versione, come l’originale, tende ad essere piuttosto difficile e rappresenta sicuramente l’occasione perfetta per poter sperimentare l’anima più giocosa della saga.
Dulcis in fundo Final Fantasy 6, tecnicamente già uscito un po’ dappertutto e di cui è stato già detto tutto. Parliamo di un capolavoro assoluto del genere dei JRPG, di un videogioco dalla potenza narrativa incredibile, dal worldbuilding ancora oggi memorabile e dalla colonna sonora formidabile, una delle migliori prove di sempre di Nobuo.
Rispetto alla versione originale ci sono alcune modifiche sensibili relative a personaggi come Sabin e Cyan: le loro tecniche esclusive hanno un’interfaccia reworkata che permette anche ai giocatori meno scafati di capire come poter utilizzare questa o quell’altra mossa, non generando poi grandi differenze nel bilanciamento del gioco.
Da segnalare, inoltre, la presenza dell’unica scena di tutta l’esalogia in 2DHD ovvero l’aria di mezzo carattere cantata da Celes in uno dei momento più spettacolari della storia dei videogiochi. Magari fossero stati tutti i giochi realizzati in quel modo.
Nota bene: tutti i testi inseriti in questo paragrafo sono stati redatti dal caporedattore e non dal buon Pietro. Questo perché il caporedattore è un noto appassionato della saga ed ha voluto fare alcune precisazioni sui contenuti della pixel remaster.
Square Enix anche stavolta non credo sia riuscita nell’offrire la compilation definitiva agli appassionati della saga, nonostante ci sia andata particolarmente vicino.
Partiamo con un motivo più culturale che di prodotto: bello lo switch delle musiche ma perché non inserire i giochi base disponibili tra i contenuti speciali? Questa ostinazione delle software house a fare le versioni rimasterizzate SENZA includere i videogiochi originali non si capisce: è un’operazione a costo zero e può offrire valore culturale ad un opera/prodotto.
Tra le altre cose: se questa è la versione definitiva dei primi 6 Final Fantasy che fine hanno fatto tutti i contenuti aggiuntivi che sono via via comparsi con le varie riedizioni? Final Fantasy Origins e Anthology aggiungevano delle cutscene in stile anime/FMV visivamente interessanti che potevano far parte dei contenuti extra, esattamente come tutte le versioni Advance dei vari giochi includevano dei dungeon extra o dei contenuti extra che erano preziosi da reintegrare. In Final Fantasy VI Advance, ad esempio, veniva reintegrato il super boss segreto originariamente tagliato (lo Czar Dragon) nella versione SNES, oltre ad una pletora di evocazioni nuove, nuove sfide al colosseo ed un paio di dungeon in più.
Già più comprensibile l’assenza delle versioni tridimensionali (e bellissime) di Final Fantasy III e IV originariamente usciti su DS e presenti su Steam: parliamo di videogiochi che non sono emulabili e che alterano l’esperienza visiva originale ma almeno i dungeon extra/evocazioni/jobs aggiunti nelle versioni GBA dei titoli erano meritevoli di arrivare al grande pubblico in questa nuova riedizione.
Per il resto fortunatamente c’è da sottolineare una buona notizia: Final Fantasy Pixel Remaster include facilitazioni per chi ha poco tempo e molta voglia di rivivere l’esperienza fantasiana senza il grinding di mezzo. Oltre a moltiplicatori per esperienza e guil ricevuti a fine battaglia, il gioco include un selettore per gli incontri casuali, con possibilità di renderli zero o raddoppiarli. Opzioni del genere dovrebbero diventare la base in tutti i JRPG o le riedizioni degli stessi.
Final Fantasy Pixel Remaster, riesce nell’intento di rendere fruibili dei titoli che, altrimenti, in molti avrebbero sicuramente trascurato, vista la vasta offerta del mercato odierno. Le migliorie di quality of life sono tangibili, pensiamo ad esempio alla possibilità di abbassare il livello di sfida eliminando dakl menù, gli assalti a sorpresa (certo, otterrete meno esperienza, ma dipende tutto da voi). Il comparto grafico e quello sonoro, sono sicuramente i fiori all’occhiello di una raccolta che avrebbe potuto offrire qualcosa in più, ma che riesce a far apprezzare uno dopo l’altro, i primi 6 titoli di una saga leggendaria, permettendovi di confrontarli direttamente uno dietro l’altro. Per il giorno in cui, un’enorme capsula del tempo, dovrà contenere i videogiochi che hanno fatto la storia, Final Fantasy, grazie alla Pixel Remaster, ha prenotato il posto d’onore.
This post was published on 25 Aprile 2023 18:30
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