Vivendo in un paese come l’Italia e ancor di più, in Sicilia per quanto riguarda il sottoscritto, si può avere accesso ad una quantità di privilegi culturali che, troppo spesso, vengono dati per scontato e che, come spesso accade, solo la messa in prospettiva con altre situazioni permette di identificare a dovere.
Qualcosa per cui mi sento di essere grato ad esempio, è la memoria storica e culturale assorbita dai territori che calchiamo ogni giorno. Se volessimo cercare le fondamenta culturali della Sicilia ad esempio, potremmo arrivare veramente molto in là con lo sguardo: dagli arabi ai normanni, fino ai romani o ai greci, che hanno inglobato l’isola nel loro progetto per rendere grande quella Grecia, di cui ancora oggi ci piace leggere.
Tuttavia la memoria storica di un territorio non è qualcosa da dare per scontato.
Ad insegnarcelo, potrebbero essere varie situazioni mondiali, così diverse tra loro ma in grado di dare un’idea di quanti modi diversi esistano per evolvere una società.
Pensiamo ad esempio ai territori slavi, che hanno conosciuto la scrittura solo nell’anno 1000 con l’avvento del cristianesimo, nonostante si tratti di terre molto vicine alle civiltà di cui sopra.
Ancora più lontano esistono dei territori umani che, ai più, restano completamente ignoti.
Personalmente non avevo mai sentito parlare della Nuova Caledonia, un arcipelago dell’oceano Pacifico colonizzato dai francesi a metà del diciannovesimo secolo.
Grazie ad un videogioco sviluppato dallo studio indipendente Awaceb ho avuto quantomeno la spinta per tendere il collo alla ricerca di informazioni.
Quello che ho scoperto è un mondo nuovo, diverso, estraneo a qualunque tipo di macchinazione globalistica abbia investito il mondo geo-politico negli ultimi anni: quello che molti definirebbero un paradiso terrestre.
Grazie a Tchia, ho quantomeno avuto la spinta giusta per avventurarmi tra le terre della Nuova Caledonia, scoprendo una cultura affascinante che, fino alla metà del’800 (quindi fino alla colonizzazione francese) non aveva conosciuto la scrittura e che, solo grazie ai missionari, riuscì a trovare nella carta scritta un metodo d’espressione, per tramandare tradizioni e usanze che fino a quel momento potevano giusto essere apprezzate grazie alla tradizione orale.
Un ottimo compendio alla (breve) storia letteraria della Nuova Caledonia, lo ha redatto la scrittrice Virginie Soula, che è riuscita ad identificare vari periodi di evoluzione della letteratura. neocaledoniana. Il titolo del compendio è Histoire Littéraire de la Nouvelle Calédonie (1853-2005)
Ciò che affascina è anche notare come la Nuova Caledonia, nonostante una popolazione abbastanza esigua, soprattutto a causa dei vari sconvolgimenti politici degli ultimi cento anni, sia una terra fiera, che non vuole rinunciare alla sua memoria storica e che cerca di prendere il meglio dalla perdurante dominazione francese.
Si viene dunque a creare una dicotomia narrativa: da un lato si verifica una sospensione del reale in favore del bello, scaturito dalla maestosa biodiversità dei territori e dalla conscia tribalità di certe tradizioni; dall’altro lato, la situazione politica è sempre ad un passo dal diventare una polveriera, che vede opporsi indipendentisti e anti-indipendentisti.
Proprio nello spazio tra questi due termini dicotomici, si piazza Tchia, con la voglia di raccontare una terra che in pochi conoscono ma in che molti amerebbero amare.
Iniziamo spiegando cos’è Tchia, per chi non ne ha mai sentito parlare.
Tchia è un gioco open world, sandbox, dai colori accesi e vivaci, basato sull’esplorazione dei territori della Nuova Caledonia. “Tchia” è, oltre al titolo del gioco, anche il nome della protagonista, una tenera e timida ragazzina, spaventata ma curiosa, volenterosa di portare a termine una missione.
Tolto qualunque fattore puramente visivo e suggestivo che affronteremo più avanti, è necessario parlare del racconto che viene messo in scena.
Come già successo in titoli che Tchia vuole emulare, come The Legend of Zelda: Breath Of The Wild, la trama vorrebbe lasciare un po’ il tempo che trova, permettendo al giocatore di focalizzarsi su ciò che il mondo di gioco ha da offrire.
Tuttavia, già dai primi istanti di gioco si può ravvisare una volontà di dare alla narrazione un respiro abbastanza ampio, proponendo delle tematiche interessanti, con la speranza di vederle approfondite.
La narrazione di Tchia pare dovere molto a tutta la moderna produzione Disney/Disney Pixar. Lungometraggi come Red, Luca, Coco o Encanto sono i migliori esempi cui Tchia pare ispirarsi, sia per la messa in scena di un ambiente esotico, tramite romantiche tradizioni popolari e complicità sociale, sia per il carattere e il tenore del racconto e della protagonista.
Tchia infatti, sarà una ragazzina che non saprà bene cos’è il mondo, essendo nata e vissuta sempre in Nuova Caledonia, con pochissimi contatti col mondo esterno. Lei e suo padre vivono cercando di farsi bastare l’isoletta che li accoglie.
Tuttavia, un inaspettato elemento politico influirà sulle loro vite così solitarie eppur felici. Un sanguinoso signore della guerra, farà la sua comparsa in scena, dando l’effettivo avvio alla trama. Le tonalità del racconto cambieranno.
Se fino a poco prima, tutto ciò che ci preoccupava era raccogliere noci di cocco dagli alberi, suonare accanto al falò, magiare e dormire, adesso il racconto diventa colmo di spietatezza e crudeltà; sentiremo l’infanzia di Tchia venire brutalmente strappata dalle sue mani, per colpe che né le appartengono né risultano comprensibili ad un primo acchito.
E in un attimo, col mondo di gioco che si aprirà davanti a noi, riusciremo a prendere coscienza di cosa significhi la colonizzazione per un popolo che ha sempre vissuto in maniera isolata e libera. L’eterna lotta tra il potere e il popolo, la banalità del male per citare Hannah Arendt.
Sarà normale dunque sentirsi quantomeno incuriositi da un incipit del genere, almeno all’apparenza celante molto più di quanto vuole offrire in prima istanza. Peccato che a mettere i proverbiali bastoni tra le ruote ci penserà il ritmo forse un po’ troppo compassato.
Per portare avanti la narrazione il titolo richiederà al giocatore la conclusione di missioni, tante missioni, spesso nemmeno troppo interessanti. Si verrà sballottati da un punto all’altro della mappa, raccogliendo oggetti da consegnare a NPC che alcune volte riusciranno di nuovo a farci immergere nella narrazione, mentre altre volte si riveleranno dei tediosi ostacoli.
Tante sequenze di gameplay infatti tendono ad essere ridondanti, quantomeno nella struttura.
Raccogli tot consumabili in punto remoto dell’isola, consegnali all’npc che te li ha richiesti, guarda la cinematic, ripeti.
La bellezza di alcune cinematic, riesce solo in parte a far dimenticare quanto sia frustrante avere la sensazione di non raggiungere mai un vero e proprio punto, lasciando nel giocatore una sensazione di fastidiosa sospensione. Dei cerchi che non si chiudono.
Parlando più nello specifico delle cinematic, queste possono essere di due tipi:
Parlando delle cinematic più “ambientali”, si nota la precisa volontà di raccontare uno spaccato quanto più fedele possibile delle tradizioni neocaledoniane, con tutto ciò che possa rientrare nella sfera del folklore, dalle arti visive alle coltivazioni, gli allevamenti, i modi di relazionarsi.
Dopo diverse ore di gioco però, si inizia a percepire una certa noia: si viene pervasi da colori e atmosfere stupende, che aiutano a dipingere istantanee di vita vissuta indubbiamente affascinanti ma che poco offrono alla fine al contesto videoludico. Quello di cui si sente il peso ben presto è l’assenza di equilibrio tra un prodotto di matrice quasi turistica e un videogioco fatto e finito, in cui c’è effettivamente qualcosa da giocare.
Le sensibilità di ognuno di noi sono diverse e, nonostante anche io durante le prime battute di gioco mi sia emozionato nell’assistere a riti unici su paesaggi che mai avevo assaporato, alla terza sessione in cui c’era da suonare l’ukulele a tempo con dei QTE tranquillamente evitabili ho avuto la tentazione di far saltare il pad dalla finestra.
Per fortuna, viene data la possibilità di diventare mero spettatore di eventi così apparentemente marginali ma cannibali dell’esperienza, affidando tutto alla riproduzione automatica di certe sessioni. Siamo sicuri che sia però, la scelta migliore in un, ricordiamolo ancora una volta, videogioco che vuole fare dell’interazione il punto fondamentale?
E proprio in ottica di interazione, è necessario parlare dei due fattori che più di altri avevano generato curiosità non solo in chi scrive, ma in chiunque avesse guardato anche un solo trailer del gioco: la fisica e la trasmutazione.
Il titolo venne infatti pubblicizzato, sin dai primissimi trailer, come un titolo “physic-based”. Questa definizione, che potrebbe quasi dare un’aura di esclusività al contenuto, implica soltanto che la fisica, nel mondo di gioco, è un elemento centrale.
Non sarebbe certo il primo titolo dotato di un motore fisico, in grado di generare ilarità non voluta nei giocatori, basti pensare agli artifici involontari del Source di Half Life 2. Tuttavia, se si utilizza la fisica come aspetto trainante per la vendita di un titolo, ci si aspetta quantomeno che lo sfruttamento di quel fattore, sia ben integrato e interessante.
Tchia però pecca sotto questo aspetto.
Non saranno presenti enigmi interessanti da risolvere sfruttando la libertà data dal motore fisico del gioco. La fisica non è quasi per nulla, una parte integrante di gameplay, limitandosi a rappresentare un semplice mezzo in più per riempire sessioni, altrimenti vuote e tediose.
Le interazioni con i vari elementi della mappa poi, saranno ridotte all’osso. Saranno presenti giusto un paio di prompt per ogni oggetto, che poco aggiungeranno all’interattività complessiva.
Viene quindi da chiedersi, a cosa serva pubblicizzare un titolo come “physic-based” se questo fattore non influisce su nulla che sia prosecuzione della storia.
Per quanto riguarda la trasmutazione, il discorso non cambia poi tanto.
Nei trailer di presentazione, questa abilità veniva spacciata come la possibilità di diventare ciò che volessimo ed effettivamente, possiamo trasmutarci in quasi ogni elemento presente sulla mappa. La vera domanda è: a che pro?
Come per la fisica, la trasmutazione è un plus, sicuramente carino, che riesce a regalare quei cinque minuti di cose bizzarre ogni tanto ma che, alla fine dei conti, non risulta particolarmente utile né per la risoluzione degli enigmi né per proseguire con la trama. Questo è un grande peccato perché le potenzialità erano notevoli. Certo, ogni tanto, con un po’ di fantasia ed inventiva, potremo utilizzare quest’abilità per agevolarci in alcuni compiti (diventare pesci per stare più tempo in acqua), ma il divertimento rimane molto on spot.
L’incantesimo si romperà quando ci renderemo conto che, trasmutarci in qualcosa non ci darà abilità uniche particolari o eccentriche (diventando uccelli non potremo nemmeno volare). Possiamo tranquillamente dire che, il divertimento nello sfruttamento della meccanica, cesserà nel momento in cui ci renderemo conto che, noci di cocco, uccelli, cani, copertoni, pesci, taniche di benzina, sono solo costumi diversi per il nostro protagonista umano.
Ciò che traspare dunque dall’analisi di questi due fattori, è una volontà di creare un mondo libero, per far assaporare veramente quel senso di libertà che un bambino della Nuova Caledonia può provare tuffandosi in mare o arrampicandosi sulle palme. Nel dare al giocatore gli strumenti per esplorare questo mondo, però, gli sviluppatori sembrano non aver integrato dei sistemi di game design in grado di rendere divertente l’esperienza cardine del prodotto ovvero l’esplorazione.
Graficamente, Tchia trova la sua ragion d’essere.
Il gioco è certamente pensato come un’avventura che cerca di raccontare una storia, tra meccaniche di gameplay entusismanti seppur molto poco riuscite. Tuttavia, si nota immediatamente che il “cuore” di Tchia è qualcosa di diverso.
Nella copia che abbiamo potuto giocare per effettuare questa recensione, tramite delle infografiche dedicate, gli sviluppatori di Awaceb hanno cercato di farci immergere nel loro mondo mentale.
Gli sviluppatori, mettendo delle mani avanti rare in un’industria così competitiva come quella del videogioco, ci tengono a far sapere che il loro intento per Tchia era quello di far conoscere la Nuova Caledonia al mondo, con ciò che ha da offrire.
E nell’intento, sono riusciti abbastanza bene.
Se si considera infatti il gioco, come una brochure interattiva, sulla falsa riga della modalità Discovery Tour di Assassin’s Creed: Origins, tutto prende una piega diversa.
Tchia permette un’immersione nei paesaggi dell’arcipelago, con un tale livello di poesia visiva che raramente si è assaporato in un videogioco. Stupende montagne solcate da raggi solari del crepuscolo cedono l’occhio a fondali cosparsi di coralli, alghe multicolore e un’incredibile varietà di pesci.
Villaggi rurali, con costruzioni in legno e canna di bambù, permettono di effettuare un forte distinguo con la parte della Nuova Caledonia industrializzata. I paesaggi diventano voce, la voce degli sviluppatori con cui forse, cercano di comunicare proprio come, ciò che della Nuova Caledonia vale la pena vivere, non siano le sparute città moderne ma i villaggetti di periferia, in cui riscoprire la natura di un posto mai scoperto del tutto.
Non è un caso, in quest’ottica, che tutti gli incontri che effettueremo nei villaggi incarneranno quel sentimento di unione tribale che il gioco mostra da subito come vero segno di folklore e tradizione, mentre per arrivare fino al nemico che dovremo affrontare, sarà necessario recarci in città.
I colori giocano un ruolo importante.
Osservare i paesaggi, che cambiano a seconda del momento della giornata o delle condizioni meteo, rende l’osservazione affascinante e sempre varia, capace di mostrare sempre nuovi dettagli, così tanto alla luce del sole eppure così ben celati dai giochi di luce.
D’altro canto, la città e tutto ciò che la comporrà, sarà caratterizzata da tonalità più spente. Ci sarà tanto bianco, tanto grigio, palazzi a occludere la vista che ci porteranno a voler abbandonare quel luogo angusto al più presto, per rifugiarci tra le verdi fronde degli alberi delle foreste, raggiungendo uno dei tanti punti panoramici, finendo col gettare un urlo liberatorio dal cucuzzolo di un alto monte.
Urlare così forte che chiunque potrebbe sentirci, eppure essere così lontani dalla civiltà da rendere vana la forza impressa in quell’urlo. Così Tchia, cerca di affascinare il giocatore, giocando sul contrasto di una terra viva e umana eppure così diversa da qualunque luogo potremmo mai conoscere.
E sempre in ottica di brochure interattiva, un ruolo determinante lo gioca la musica.
La voglia di mostrare la Nuova Caledonia in ogni suo aspetto, comporta la creazione di ampie sezioni musicali utili a incanalare il sentimento degli abitanti, durante momenti di festa o di quotidianità spensierata.
La nostra piccola protagonista sarà munita inizialmente di un ukulele, anche se sarà possibile sbloccare nuovi strumenti in gioco. Ciò che affascinerà però, sarà percepire quanto gli arrangiamenti e le melodie quasi atonali, contribuiscano ad un’unione sempre più forte delle coscienze degli abitanti di una tribù.
Si nota la grande ricerca che ha permesso la realizzazione in gioco di vari strumenti, dalle forme e dagli utilizzi particolari, che permettono di creare sonorità e sfumature totalmente inedite anche per l’orecchio più allenato.
Si passa da due pezzi di un legno di un albero in particolare, da suonare sbattendo e sfregando tra loro, a fare da percussioni o, sempre in ambito percussivo, delle cavigliere con dei sonagli in legno, da usare pestando i piedi a tempo.
Ogni strumento richiede fisicità e sforzo, così da percepire la pesantezza di un canto intonato dalle decine di voci di un villaggio. E oltre agli strumenti, sarà possibile udire canti tipici dell’isola, intonati a volte da singoli cantori, altre (e più suggestive) volte da cori di donne, che creeranno melodie primordiali ed affascinanti, accompagnate da cori baritonali di uomini a sostenerle con voci potenti.
Sentiremo ogni sfumatura della musica neocaledoniana, mutuata dalle sonorità melanesiane, grazie all’utilizzo dei più disparati strumenti. Ogni brano inoltre, contribuirà alla sensazione di trovarci in un vero e proprio musical, dato che molto spesso gli intermezzi musicali serviranno a passare da un momento all’altro della narrazione, riuscendo a descriverci perfettamente tutto il ventaglio di sentimenti di Tchia, in un modo così perfetto che sarà inevitabile, farli diventare nostri.
Un lavoro certosino che, insieme all’aspetto grafico, rende l’aspetto audio/video di Tchia una bellissima esperienza. Non un bellissimo videogioco sicuramente, ma una di quelle esperienze che fa sentire meglio il nostro animo, permettendoci di espandere la nostra bolla di mondo conosciuto.
Per quanto riguarda la durata del gioco, le strade che possono essere percorse sono diverse.
Se si dovesse approcciare il titolo solo con la volontà di completare la missione principale, così da trovare una quadra alla storia e cambiare gioco, non ci vorranno più di una decina d’ore. Dipenderà anche un po’ da quanto si impiegherà a completare le singole quest.
Tuttavia, la volontà degli sviluppatori non è certamente creare un’avventura eccessivamente guidata, tuttalpiù si cerca di lasciare liberà d’esplorazione ai più curiosi e temerari. Con questo approccio dunque, Tchia può anche arrivare a durare quelle 30/40 ore.
Tutto dipenderà dalla voglia che avrete perché, se ciò che vi interessa è solo gironzolare per la mappa, fare una nuotata, mangiare un piatto di spaghetti di riso e suonare l’ukulele accanto al falò, il gioco diventa potenzialmente infinito.
Per quanto riguarda invece le prestazioni del titolo, in line di massima ci siamo.
Considerando che è un’opera prima, considerando che proviene da uno studio indie con zero esperienza reale, considerando la sua natura, il gioco si dimostra essere mediamente solido.
Solo raramente ad esempio abbiamo riscontrato cali di frame significativi, tanto da inficiare l’esperienza. Soprattutto nei momenti più concitati e veloci, il gioco pare arrancare un attimo. Ma nulla che faccia venire voglia di chiedere un rimborso o di spegnere il gioco per sempre. Tutto considerato anzi, possiamo dire che gli sviluppatori si sono comportati molto bene, contando anche la quantità di movimento che ci sarà in ogni momento a schermo, tra uccelli che volano, alberi scossi dal vento, pesci di ogni forma e dimensione che nuotano, npc che interagiscono.
Arriviamo però adesso, al vero tasto dolente.
Tchia è un titolo pieno, colmo e ricolmo di “fetch quest”. Per capirci, una fetch quest è quel tipo di missione che implica la raccolta di un determinato numero di oggetti, da portare a chi ce li ha richiesti. Non c’è nulla di male nelle fetch quest in sé, sono dei metodi che in molti titoli vengono utilizzati per allungare un po’ il brodo.
Il problema è che in Tchia sono (quasi) l’unica attività di gameplay o perlomeno, l’unica che porti avanti la trama. Soprattutto le prime ore di gioco, sono tutte un fare avanti e indietro da un punto all’altro della mappa, cercando di accontentare le richieste di tutti gli npc, per avere nuove informazioni per proseguire nella nostra missione principale.
E la situazione sarà ancora più tragica quando la struttura diventerà piramidale, cioè: npc-1 ci dice che per proseguire dobbiamo prendere una tal cosa e portargliela; andiamo a prendere quella tal cosa da npc-2 ed npc-3 ma, per parlare con loro, dovremo prima raccogliere dei materiali e dovremo quindi recarci da npc-4, npc-5 ed npc-6, finché, arrivati alla base di questa struttura piramidale, non riusciremo a risalire fino ad npc-1, per sbloccare tutta una nuova sezione basata su una nuova piramide di raccolta. Una struttura del genere, semplicemente, non è divertente, almeno in assenza di meccaniche di movimento abbastanza diversificate.
Dal posizionamento di alcuni oggetti da raccogliere, si nota la volontà degli sviluppatori di “obbligare” all’esplorazione della mappa, costringendo il giocatore ad utilizzare l’intuito. E sempre in quest’ottica, si nota la volontà di far sfruttare ai giocatori la fantasia, applicata alla fisica e alla trasmutazione di cui parlavamo sopra. Il problema è che, per quanto ci si possa arrovellare, per quanto si possa cercare di rendere l’esplorazione nuova e diversa da quella di prima, si arriverà inevitabilmente a percepire una logorante noia.
Come detto qualche paragrafo sopra, non si riuscirà a capire veramente quale sia il punto in tutto quel che stiamo facendo, con l’impressione di vagare in un mondo veramente tanto vasto, affascinante ma vuoto di vere e proprie sorprese, se non quelle che con vista e udito si consumano dopo poche ore di gioco.
Ancora una volta, si coglie quell’incapacità nel conciliare la bellezza del mondo, la volontà di spronare i giocatori ad esplorarlo e la commistione dei fattori nel medium videogioco. Sicuramente Awaceb, dovrà cercare di capire come rendere tutto il viaggio più organico.
Tchia dunque, è quel titolo che in molti aspettavano. Le promesse erano tante e, col senno del poi, i trailer mostrati erano veramente pensati in maniera intelligente. Era veramente difficile dire a priori, se Tchia potesse essere un gioco interessante o quello che, a parere di chi scrive, si è rivelato: una mezza delusione. È innegabile che, a prescindere da tutto, si esca arricchiti dall’esperienza, anche solo per quella volontà innata di voler conoscere luoghi, persone, situazioni e contesti umani tanto distanti e diversi da quelli a cui siamo normalmente abituati. Il problema più grande arriva quando gli sviluppatori di Awaceb, tentano di conciliare l’esplorazione e l’esposizione del proprio territorio con il medium videoludico. Personalmente, nutrivo tante speranze in Tchia e posso dire che, conclusa la mia esperienza in gioco, ne esco con le lacrime agli occhi per la bellezza di quanto ho scoperto ma digrignando i denti, per ciò che sarebbe potuto essere.
This post was published on 3 Aprile 2023 18:00
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