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Chasing Static | Recensione (PS5) | Un horror low-poly senza mordente

Gli anni ’90 sono stati un periodo florido dal punto di vista degli horror, in particolare psicologici e survival, al punto che non sono praticamente mai mancati omaggi di ogni genere: giochi che miravano a richiamare quella sensazione vecchia scuola che tanto piace – a ragion veduta – con più o meno successo.

Dalle meccaniche alle inquadrature, si è cercato di ricostruire le atmosfere di un tempo lasciando invece che la grafica andasse quanto più possibile al passo con i tempi, tranne quando c’era una precisa scelta di pixel art dietro. A memoria, ma non ho chiaramente giocato ogni horror esistente nel mondo videoludico, è la prima volta che mi capita di incappare in un videogioco che decide di mostrarsi in quella grafica low-poly tipica dell’era PS1.

Il Last Stop Cafè, dove tutto ha inizio

Chasing Static, sviluppato da Nathan Hamley e dal suo studio Headware Games, compie una scelta ben precisa optando per uno stile volutamente rétro che ha il medesimo rischio di piacere oppure non attrarre. Personalmente, con gli anni ho dato sempre meno peso alla grafica di un gioco e provato bene o male qualsiasi cosa mi ispirasse per trama, genere o meccaniche. Motivo per cui non ho avuto difficoltà ad approcciarmi a Chasing Static dal punto di vista estetico. Il problema è che tutto il resto non riesce a reggere le premesse, ossia quella volontà di omaggiare a dovere i classici horror anni ’90.

Trama, meccaniche e in questo caso anche la durata non concorrono a costruire un’esperienza capace di imprimersi, di lasciare anche solo un segno, limitandosi a trascinare il giocatore da un punto all’altro con un obiettivo che poi, però, non trova una degna conclusione. Scopriamo dunque su PlayStation 5 i misteri di questo angolo sperduto del Galles e capiamo perché lo stile, molte volte, non è sufficiente.

Silent Galles

Chasing Static non fa mistero dei propri omaggi, tra cui Resident Evil e soprattutto Silent Hill: dopo aver completato il gioco la prima volta, si sblocca una modalità chiamata “Restless Dreams” che non ho dubbi riconoscerete a cosa fa riferimento. Di per sé non aggiunge nulla in termini di meccaniche, limitandosi ad applicare un filtro vintage al gioco, ma la citazione è evidente. Come lo è più in generale quando vediamo due realtà sovrapporsi di quando in quando, mostrando le due facce dello stesso luogo, esattamente come fa una delle cittadine più famose del mondo videoludico horror.

Di cosa parla il gioco? Senza fare spoiler, gli eventi vedono protagonista Chris Selwood, un uomo di cui conosciamo soltanto il nome e il lutto che l’ha appena colpito. Dopo aver partecipato al funerale del padre, si rimette in viaggio salvo fermarsi durante il tragitto al Last Stop Cafè: scambiate due chiacchiere con la barista, scopre di star percorrendo la strada sbagliata e accetta di darle un passaggio in cambio delle indicazioni verso la direzione giusta.

L’interno dell’Orchard, il bunker dove Chris parla con la donna misteriosa.

Un improvviso blackout, tuttavia, darà vita alla serie di eventi paranormali che costelleranno la notte di Chris, costringendolo a fidarsi di una donna misteriosa (con la quale comunicherà solo via radio) per aiutarla a ripristinare alcuni siti di ricerca dei quali si sarebbero dovuti occupare i suoi colleghi. Se anche volessi dirvi di cosa si occupassero queste persone mi sarebbe difficile, perché la trama procede in maniera troppo criptica, sospesa in un costante dico-non-dico che rende difficile mettere assieme i pezzi persino una volta concluso il gioco.

Proprio il finale, anzi, è il punto più debole perché pur dando qualche informazione in più conclude le vicende in maniera brusca e per nulla soddisfacente. O, per meglio dire, i finali, poiché ne potete sbloccare diversi in base a quanto farete nel gioco: nessuno risponde in ogni caso a tutte le domande che il gioco stesso ci fa porre.

Le poche e vuote ambientazioni nelle quali ci muoveremo per assolvere i nostri compiti conservano in loro, se così possiamo definirli, echi del passato che offrono un minimo di contesto su alcuni fatti senza tuttavia riuscire a creare un quadro chiaro delle vicende. Spizzichi e bocconi che giocano sul mistero, rimanendo sospesi senza riuscire a trovare una loro uniformità. Si fa fatica a comprendere chi sia chi, cosa sia accaduto, soprattutto perché, adducendo l’esistenza di non meglio specificate presenze che non sembrerebbero gradire la presenza dei ricercatori in quel piccolo angolo sperduto del Galles.

A caccia di echi perduti

Chasing Static affida la propria principale meccanica di gioco al Frequency Displacement Monitoring Device (FDMD) ovvero un microfono direzionale collegato a un macchinario tecnologicamente avanzato; questo è in grado di percepire determinati segnali che, una volta raggiunti, prenderanno la forma degli echi menzionati in precedenza. Alcuni di questi sono necessari per proseguire con la trama, altri invece sono messi lì puramente per contesto anche se, come già scritto, non riescono nel loro intento perché vivono di vita propria senza collegarsi davvero agli altri.

Stando alle indicazioni della donna misteriosa, dobbiamo riattivare tre siti che si trovano nei pressi del cosiddetto Orchard, il bunker da dove comunicherete con lei e che si collega a un altro paio di zone di trama. Tutto ciò che dobbiamo fare è raccogliere determinati oggetti per proseguire fino a ottenere una audiocassetta da inserire ciascuna nei rispettivi registratori, attivando così il sito di riferimento.

Il Frequency Displacement Monitoring Device in azione.

All’atto pratico, significa spostarsi lungo ampie zone vuote (fatta eccezione per gli echi) dove non ci sono minacce, non c’è ovviamente anima viva e non c’è altro da fare se non andare a destinazione e fare quanto ci è stato chiesto. Gli ambienti sono fin troppo dispersivi per gli obiettivi che ci vengono posti davanti e nemmeno troppo alla lunga diventa stancante: l’atmosfera non ha sufficiente mordente per dare a Chasing Static quel tocco in più, sebbene qualche occasionale guizzo in tal senso lo mostri.

Per esempio, ciascuna zona è “infestata” da un fantasma che appare in un determinato punto e/o secondo altrettante condizioni, andando a distorcere temporaneamente il mondo attorno a noi mentre i suoi gemiti si fanno più forti a mano a mano che si avvicina. Sfortunatamente, questi spettri non sono ostili e se entreremo in contatto con loro si limiteranno a scomparire per sempre (escludendo peraltro l’accesso ad almeno un finale e un altro paio di trofei).

Alcune ambientazioni sono abbastanza suggestive.

Non mancano, infine, momenti di backtracking che non hanno alcuno scopo se non quello di allungare un’esperienza di per sé molto corta: un paio d’ore sono sufficienti per completare il gioco, eppure danno la sensazione di essere almeno il doppio, proprio in virtù di tempi morti ed estesi in maniera artificiosa, quando avrebbero invece potuto essere elaborati con qualche elemento di gameplay in più.

Questa pochezza contenutistica va a minare anche la decisione di adottare uno stile low-poly, perché il mondo di gioco è troppo ristretto e spoglio per valorizzarla a dovere, facendo invece sembrare Chasing Static tutto fuorché ricercato sotto questo aspetto. Il doppiaggio e la musica non bastano a colmare il vuoto, anche perché non spiccano in modo particolare. La presenza di occasionali bug, per concludere, non aiuta affatto, sottolineando un porting non curato al meglio.

Conclusione

Chasing Static vorrebbe essere un omaggio, anche estetico, a classici horror degli anni ’90 ma la resa finale non riesce a sostenere le premesse (e promesse), risultando in un gioco molto corto, dal gameplay limitato e contenutisticamente vuoto. La trama che si affida a un’ambiguità eccessiva, culminando poi in un finale poco soddisfacente e frettoloso, è un’ulteriore nota stonata in una composizione dove lo stile low-poly non è sufficiente a mantenere il giocatore coinvolto.

This post was published on 24 Gennaio 2023 12:30

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