La dicotomia luce-ombra da sempre ricopre un ruolo importante nella narrazione di tante opere audiovisive; basti pensare a Dark Souls ad esempio, gioco del 2011 sviluppato da From Software in cui viene narrato come la disparità abbia creato dei grandi poli ontologici: caldo e freddo, vita e morte e, ovviamente, luce ed oscurità.
Giocare sui contrasti per narrare una storia, può rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio e tutto dipende in parte da chi ne usufruisce: se si tratta di un narratore alle prime armi, il risultato potrebbe essere un’accozzaglia di clichè, una fiera del già visto, stucchevole e per nulla entusiasmante; se al contrario, ad usufruirne fosse un narratore esperto, la ricerca del contrasto potrebbe diventare un mezzo espressivo forte ed inedito per scandagliare un ventaglio emotivo che magari, in altro modo, sarebbe rimasto socchiuso.
Prima di cominciare è bene dire una cosa: alle redini del progetto Somerville non ci stanno sicuramente degli sprovveduti.
Lo software house Jumpship, nonostante sia di relativamente recente formazione, enuclea al suo interno nomi e figure che non possono certo dirsi di primo pelo nel mondo del videogioco.
Jumpship nasce infatti dalla collaborazione tra Chris Olsen, già dentro al mondo dei videogiochi dai primi anni 2000, figurando nei crediti di diverse produzioni come ad esempio Sonic The Hedgehog (2007) e Sonic The Hedgehog 2 (2010) e Dino Patti, ex CEO e co-fondatore di Playdead, software house danese nota ai più per due pregevoli produzioni come Limbo e Inside.
Con due capitani come loro al timone, il ventaglio di possibilità era molto ampio. Si tratta di gente che sa come costruire una storia e come farlo senza budget astronomici.
L’esperienza di Limbo e Inside avrebbe potuto rappresentare un ottimo punto di partenza per Somerville.
Saranno quindi riusciti a perseguire la filosofia alla base di Jumpship ovvero “abbattere la nozione precostituita di cosa un gioco possa essere, esplorando le possibilità espressive del medium“?
Una delle cose più difficili da fare quando si racconta una storia è riuscire ad essere originali o trascinanti. Se è vero che essere originali vuol dire molto poco, in un mondo dove si ha la sensazione che tutti abbiano già raccontato tutto, essere trascinanti molto spesso implica l’infarcire una storia di colpi di scena, cambi di direzione, soluzioni di trama che colpiscono il fruitore come uno schiaffo in piena faccia.
E invece, almeno dalle premesse, Somerville appariva come un grande racconto della banalità. Attenzione però, la banalità per come la intende Somerville, è quanto di più rassicurante possa esistere in una storia.
Per citare lo scrittore e filosofo Salvatore Patriarca:
<<Essere banale è il pericolo che, nel mondo contemporaneo, ogni singolo essere umano teme di correre. Si innesca così un movimento di liberazione dall’ordinario che ha l’obiettivo di rendere ognuno eccezionale.>>
Somerville inizia quindi come un racconto molto banale in cui una famiglia normale si addormenta, come capita a tanti, di fronte alla televisione accesa. Padre, madre, un figlio e un cane, nulla di anomalo. Il giocatore muoverà i primi passi nei panni del piccolo di casa, il figlioletto, che con la curiosità che contraddistingue gli infanti, ci permetterà d’iniziare ad esplorare gli ambienti e a capire i basilari comandi del gioco.
Il racconto che il gioco fa della banalità, l’apri pista di tutta la storia, è quanto di più bello potrete vedere durante il gameplay. Non è una situazione in cui succede nulla se non comportamenti umani, istinti protettivi reali, nessun bisogno di eroismi esagerati. Ogni singola azione sembra spontanea quasi a dimenticare lo script che ci sta dietro.
E quasi a voler scandire la banalità con cui si vuol far permeare tutto il titolo, Jumpship da il via alla vera trama con un colpo di scena tra i più banali ed abusati dagli anni ’50 ad oggi, quasi a diventare un meme.
La banale vita dei nostri protagonisti viene sconvolta da, nientepopodimeno che, gli alieni. Sono gli alieni infatti il colpo di scena, sono gli alieni il vero motore della storia che passa dall’essere un semplice racconto di vita vissuta, ad una corsa post apocalittica verso ripari ed armamenti per combattere la minaccia che incombe dai cieli.
E ancora, le reazioni estremamente umane e credibili dei protagonisti sono ciò che permette a questo abusatissimo colpo di scena di non apparire pacchiano. Tuttalpiù riusciremo ad empatizzare immediatamente con le situazioni a schermo, cercando rifugio in modo disperato negli ambienti che abbiamo imparato a conoscere qualche minuto prima, grazie alla curiosità di quell’infante.
Ci sentiremo braccati da qualcosa di molto più grande e potente di noi, d’intangibile ed insondabile; l’unica cosa a cui penseremo in questa situazione disperata saranno certamente i nostri affetti.
Nei panni del padre vivremo l’ansia delle esplosioni e dei crolli, sentendoci addosso la responsabilità della sopravvivenza di un mucchio di pixel.
Finché, per colpa di una delle tante esplosioni, non entreremo in contatto con un essere probabilmente extraterrestre, toccandogli la mano e svenendo nel farlo.
Al nostro risveglio, la nostra famiglia sarà sparita, tranne il fidato cane rimastoci al fianco durante la nostra condizione di morte apparente. Risvegliatici, noteremo di aver acquisito un grande potere, la manipolazione della luce (dei poteri parlaremo più avanti).
Forti di questa nuova condizione, insieme al nostro amico a quattro zampe, inizieremo l’esplorazione del mondo di Somerville, un mondo banalmente normale, sconvolto da un’invasione aliena.
Per citare Arthur Conan Doyle:
Tutto ciò è divertente, anche se elementare, Watson”.
A livello di gameplay, Somerville è un puzzle game non eccessivamente brillante. Dopo essere venuti a contatto con la creatura aliena, saremo in grado di utilizzare un potere assorbito da questa: se con la nostra mano toccheremo una fonte di luce o di elettricità in generale, saremo in grado di usarla come amplificatore di capacità, cosa che ci permetterà di sciogliere dei pezzi di materiale alieno.
Il materiale in questione appare come un materiale scuro, una sorta di corruzione del tessuto terrestre, che spesso potrebbe impedirci il passaggio. Scioglierlo o, più avanti, solidificarlo, sarà l’unico modo per aggirarlo.
Il meccanismo degli enigmi risulta sicuramente intuititvo dopo i primi minuti tanto da correre il rischio di diventare fin troppo banale, in senso brutto sta volta. Entrando in una nuova area sapremo infatti che dovremo cercare una fonte di luce in modo da proiettare il nostro cono luminoso verso la superficie aliena di turno, in modo da passare allo stage successivo.
Vi sono ovviamente delle variazioni ambientali ma queste solo di rado riescono a rendere avvincente la risoluzione di un enigma. Inoltre, se è vero che nelle primissime battute il gioco sembra virare su una concezione molto umana, in cui i rapporti fanno la differenza, andando avanti nulla riuscirà a calarci in tale mood con tanti enigmi che finiranno semplicemente per risultare anonimi e fini a sé stessi.
Sembra quasi che la componente morale sia stata volontariamente estratta via da scelte e puzzle.
Precisiamo: non è che questa sia una condizione necessaria per ogni puzzle game, ma, se le premesse sembrano spingere su quel tasto, non è dato capire perché non ci sia alcun tipo di filo del discorso dato dalla presenza degli enigmi.
Solo una volta assisteremo ad un vero e proprio shock di trama ma questo arriva in quanto obbligato e non tanto come elemento di una scelta; non v’è mai la situazione in cui la nostra volontà sia in grado di alterare il corso degli eventi, in cui veniamo posti davanti a due situazioni critiche dovendo decidere chi o cosa salvare. E ancora, non è una caratteristica che deve permeare ogni esperienza videoludica, ma visto il contesto e la tipologia di enigmi, osare di più sotto quel punto di vista avrebbe aiutato a consolidare il comparto narrativo di un titolo che, sulla narrativa, sembra spingere diverse delle sue risorse. Sembrano semplicemente mancare emozioni da regalare ai giocatoir.
Lato regia e messa in scena, il titolo d’esordio di Jumpship fa invece un ottimo lavoro.
La scelta effettuata dalla software house è di rendere i movimenti di macchina della telecamera in game, estremamente cinematografici.
Come soluzioni registiche si alterneranno lunghissimi piani sequenza a parti dove il cambio telecamera sarà l’unico modo per risolvere un enigma o, banalmente, capire dove andare. L’utilizzo magistrale della telecamera permetterà di avere una visione ben gestita di tutto ciò che ci sta attorno, permettendoci di avere perennemente a schermo dei quadri. Si potrebbe dire che la regia è l’unica vera unità narrante della storia, dato che i personaggi non parlano.
Peccato che anche questa va incontro a limitazioni anche abbastanza marcate; la colpa è legata alla scelta dare una prospettiva bidimensionale ad un gioco che in realtà è tridimensionale. L’esplorazione delle mappe di gioco, quindi, passa anche per cunicoli e tunnel che in primis non sono sempre facili da percepire ed in secondo luogo allontanano anche troppo il personaggio dagli occhi del giocatore, rendendo la navigazione difficoltosa.
L’esplorazione poi non ha chissà che scopo, anzi, spesso è fin troppo fine a se stessa. La sensazione che si ha è di un gioco con due idee molto belle, la telecamera e la tridimensionalità, che non sono però pensate per funzionare insieme.
E se è vero che la regia regali bellissimi momenti con entrate ad effetto ed inquadrature mozzafiato, è altrettanto vero che lato performance il gioco ha delle carenze a dir poco urticanti.
Non si tratta di un gioco rotto o incompleto, anzi, pad alla mano risulta molto solido in praticamente tutte le sue interazioni. Il problema di un gioco del genere è che, presentando un’incredibile pulizia a schermo, permettendo al giocatore di navigare la storia con gli occhi sempre puntati sul protagonista e sulle sue interazioni, la presenza nemmeno troppo rara di glitch grafici distrugge totalmente la sospensione dell’incredulità tipica di storia simili.
Manco a farlo a posta, ci è capitato che ogni qualvolta ci fosse una scena che poteva creare empatia con la narrazione e con i personaggi, vi fossero fastidiosissimi glitch grafici ad abbattere tutto. Compenetrazioni varie, personaggi svolazzanti, personaggi incastrati in un’animazione continua. Per carità, non è né il primo né l’ultimo gioco che presenta questo tipo di glitch, sono cose che possono capitare anche nel miglior studio di sviluppo, ma se si cerca il trasporto emotivo e ci si trova conficcati nel pavimento, due risate scappano insieme all’empatia per i personaggi.
Più fastidiosa è la presenza saltuaria di bug invalidanti dell’esperienza. Più volte è capitato, soprattutto nelle fasi finali del gioco, di dover attendere che altri personaggi compissero delle azioni scriptate che avrebbero permesso alla situazione di evolversi.
Risultato? Abbiamo aspettato minuti interi, pensando di dover fare qualcosa che avevamo tralasciato, solo per realizzare poi che un personaggio non aveva premuto il bottone dell’ascensore che ci avrebbe fatto proseguire naturalmente.
Tutte queste situazioni sono all’ordine del giorno in moltissimi giochi, anche blasonati, dell’industria. In Somerville però, tutto è condensato in tre ore più o meno. Ogni errore pesa molto di più nell’esperienza generale rispetto a quanto capiterebbe in un gioco più lungo e diluito.
Il protagonista e gli alieni non giocano alla pari. Gli alieni di Somerville sono forti, spaventosi, temibili e arrabbiati. Dovremo quindi cercare di non incrociarli, fuggendo da loro, ingannandoli a volte.
Somerville infatti basa molta della sua forza nell’ansiogena situazione in cui si viene catapultati, una situazione di cui non si sa nulla e in cui davanti a noi si para solo morte e devastazione. Si cerca di creare un’atmosfera simil Alien: Isolation, in cui si viene braccati da un mostro. Ansia crescente, cuore che palpita, sangue freddo.
Sebbene sia chiaro che la condizione che si cerca di ricreare sia questa, non sempre Somerville riesce a convincere il giocatore di star correndo un vero e proprio pericolo. La sensazione d’ansia che un’invasione aliena dovrebbe trasmettere solo in certi frangenti riesce ad essere efficace, deludendo chi dalle prime battute credeva che il gioco sarebbe andato in una specifica direzione.
E chissà che non fosse proprio questo l’intento degli sviluppatori: far credere che l’ansia avrebbe permeato il gioco così da far vivere con ansia un gioco che ansiogeno non è poi così tanto. Probabile si tratti solo di sviluppo non proprio brillante.
Quasi sicuramente è sviluppo poco brillante.
Sicuramente è sviluppo poco brillante.
La parte che segue potrebbe essere considerata spoiler da chi non ha giocato il titolo, quindi vi consigliamo di leggerla solo dopo aver finito l’esperienza di Somerville.
La storia inizia come uno spaccato di vita quotidiana, permeata dalla banalità di cui parlavamo prima. Diventa subito una storia di invasione aliena con un grande focus sulle emozioni del protagonista, un racconto intimistico in una cornice enorme e abusata. Pian piano anche il focus sulle emozioni viene abbandonato e la storia prende la piega di un qualunque film di serie b americano a basso budget pieno di esplosioni e di tizi grossi che menano gli alieni.
Passa poi di nuovo, dall’americanata al racconto dell’intimità del protagonista e della sua famiglia per giungere ad una parte finale estremamente concettuale e “metafisica” che lascia tanto se non tutto all’interpretazione del giocatore. Non una scelta sbagliata in sé ma quantomeno pigra.
Il problema principale di Somerville lato narrazione, è la pericolosa incostanza che permea tutta l’avventura. Ci troviamo davanti ad un gigantesco foglio pieno d’immagini non sapendo dove concentrare la vista. Non si gioca sicuramente Somerville per il gameplay mozzafiato, quindi presentare delle lacune tali lato storia è veramente assurdo poiché considerato lo stile grafico ed il tipo di storia che sembra prospettarsi, il potenziale è incredibile.
L’obiettivo di Somerville è chiaramente quello di impressionare il giocatore con situazione quanto più realistiche possibili, così da fargli pensare “chissà cosa fare se mi trovassi in una situazione del genere” ma il contatto che sembra stabilirsi nei primi minuti va piano piano scemando, fino ad un finale parecchio impersonale e basato sull’utilizzo di una tecnologia demiurgica dal funzionamento imprecisato. La scena finale si presta a tante interpretazioni; si potrebbe considerare ad esempio come la forza dellì’umanità unita che scaccia il nemico, tirandola molto per i capelli.
Anche perché, se così fosse, sarebbe una risoluzione di trama totalmente incoerente con la storia che si cerca di costruire nelle 2 ore precedenti.
Somerville nasce come una bella idea di viaggio atipico dell’eroe, alla ricerca della sua famiglia in un’ambientazione che se usata a modo può regalare belle sensazioni. Con una direzione artistica minimale ma efficace e dei bellissimi giochi di telecamera si cerca di creare la giusta atmosfera, fallendo però sotto il lato narrativo, lato in cui Somerville dimostra una discreta incoerenza. Considerando la durata molto breve, ogni piccolo difetto sembra anche peggio di quel che è, Somerville rimane una buona avventura con dei puzzle a tratti interessanti. Non è certo all’altezza dei grandi nomi che stanno alla base della sua creazione.
This post was published on 10 Dicembre 2022 18:02
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