Lo chef di un ristorante stellato si avvicina al suo vice, chiedendogli come vadano i preparativi per il pranzo. Il menu del giorno prevede le omelette e, quindi, il cuoco inizia a chiedere se tutto sia al suo posto; come formaggio, c’è del parmigiano stagionato 36 mesi e non si potrebbe desiderare di meglio, mentre per insaporire la ricetta c’è del pepe fresco appena comprato ed erba cipollina in quantità e, qualora si desiderasse aggiungere quel tocco in più, non mancano salumi di prima scelta ed addirittura delle salsicce appena fatte con la miglior carne sulla piazza. La sala inizia a riempirsi, ed il personale di cucina si mette prontamente all’opera ma all’improvviso, a fornelli già accesi, il sous chef ci avvisa di un “piccolo particolare”: mancano le uova.
Avevo circa 10 anni quando lessi questo piccolo brano in classe. La professoressa mi disse che si trattava di una freddura inglese, un esempio di quel sottile umorismo britannico capace tanto di far sorridere l’ascoltatore quanto di lasciarlo totalmente interdetto. Inutile dire che mi collocai immediatamente nelle seconda categoria, come probabilmente molti dei miei compagni di classe, ma non è di questo che voglio parlarvi o, almeno, non solo di questo.
Provate a calarvi nei panni dello chef di prima; per dimenticanza o per ristrettezze economiche, non avete uova in dispensa e siete chiamati ad un compito quasi impossibile: realizzare una frittata facendo a meno del suo ingrediente principale. Che cosa scegliete di fare? Chiudere il ristorante non è un’opzione, così come non lo è il darsi malati di punto in bianco, scaricando il barile sul vostro incolpevole vice; vi resta una sola opzione: fare di necessità virtù, facendo capire al personale di cucina che, come dicevano Daniel Craig in 007 ed un noto politico italiano in un’intervista, il pericolo è il vostro mestiere.
Ma come si fa a realizzare una frittata senza uova? Potrete aver studiato centinaia di manuali di cucina, ma rispondere a questa domanda non è assolutamente semplice perché, qualsiasi soluzione decidiate di adottare, l’assenza di quell’ingrediente sarà immediatamente percepita da chi assaggerà il vostro piatto.
La questione può essere facilmente trasposta in ambito videoludico: come si realizza un videogame con pochissimi fondi a disposizione? Deve esserselo chiesto anche Goichi Suda quando si è imbarcato nello sviluppo di No More Heroes III, capitolo conclusivo delle avventure di Travis Touchdown.
In passato abbiamo elogiato l’arte di arrangiarsi (cliccate qui per saperne di più), e Suda51 ha quasi sempre dovuto fare di necessità virtù, ma il problema resta: sviluppare un titolo non indipendente con un budget risicato è un limite non indifferente, esattamente come avviene con la summenzionata frittata.
Ma la creatività e lo stile non possono proprio venire in aiuto? È con questa domanda in testa che affronteremo la recensione dell’ultima fatica dello sviluppatore più folle della scena videoludica, sapendo che in questa “frittata di pixel e poligoni” troveremo ogni sorta di ingrediente, tranne le uova.
La nostra avventura inizia con il più classico dei flashback. Nel 2001, un giovane Dan Ricotello fa un incontro che gli cambierà per sempre la vita: nell’ora più scura della notte, nel bel mezzo di una foresta, si imbatte in una creatura aliena, donandole il nome di FU. Nonostante non parlino la stessa lingua, i due diventano subito inseparabili, ed il giovane è fermo nelle sue intenzioni di aiutare il suo bizzarro amico a tornare a casa. Grazie ad un misterioso dono offertogli dalla creatura, Dan riesce nel suo intento: FU sfugge ai “men in black” che erano sulle sue tracce e lascia la terra, dicendo al suo compagno umano che si sarebbero reincontrati tra 20 anni.
Il tempo passa, e Dan è oramai diventato un ricchissimo uomo d’affari, CEO della mega-corporazione Utopinia e proprietario dell’arcipelago Utipoland, in cui si trova la celeberrima isola di Santa Destroy, che ogni appassionato di No More Heroes conosce alla perfezione. In ogni caso, il piccolo E.T. mantiene la promessa fatta ma, a differenza dell’extraterrestre di Spielberg, ci svela una sorpresa tutt’altro che piacevole: nel corso di questi 20 anni, FU è diventato un supercriminale noto come Jess Baptiste VI che, dopo una lunga reclusione trascorsa in un carcere galattico, è evaso con il solo scopo di tornare sulla Terra e, ovviamente, di conquistarla.
Per riuscire nel suo intento, il buon FU ha assoldato una squadra di 10 sicari alieni tra i più letali che l’universo abbia mai conosciuto; tutti noi sappiamo che solo un assassino può sconfiggere un altro assassino, ed è proprio a questo punto che entra finalmente in scena l’eroe che Santa Destroy si merita: Travis Touchdown!
Dopo aver fermato l’invasione aliena ed aver sconfitto Blackhole, il primo degli assassini di FU, il protagonista capisce di essere finito nel bel mezzo di un torneo, in cui dovrà scontrarsi con i nove rimanenti killer per poi misurarsi col potentissimo Jess Baptiste VI. Come al solito, Travis potrà contare sui fendenti della Beam Katana, sui poteri del Death Glove e su quello che gli riesce meglio…
Ancora una volta, saremo chiamati a raggiungere la vetta di una classifica, diventando l’assassino più potente e smargiasso non del mondo, ma dell’interno universo!
Va da sé che in questa nuova avventura ritroveremo anche facce conosciute, come Shinobu, Bad Girl, suo padre Badman e l’immancabile gatto Jeane, con le loro abbondanti dosi di “ordinaria follia”. Quanto ora detto non deve però farci sottovalutare i nuovi attori in scena. Sia FU / Jess Baptiste VI che i suoi dieci assassini sono personaggi scritti con un’originalità che raramente si vede all’interno di un videogame; ognuno di essi è la parodia di uno dei cliché della cultura pop, dei b-movie o di una produzione di Takashi Miike (che sarà più volte citato nel corso del gioco).
Basti pensare che la struttura narrativa di No More Heroes III è divisa in episodi, con tanto di sigla di apertura e di chiusura, logo “alla Netflix” e di conto alla rovescia per la puntata successiva. Tali intro ed outro, inoltre, si collocano a metà strada tra quelli che si potrebbero vedere in un anime, in una serie giapponese degli anni ’70 (Kamen Rider su tutte) ed i film grindhouse. Se vi stanno già brillando gli occhi, sappiate che questo è solo all’inizio.
I riferimenti pop, come già detto in precedenza, si sprecano, così come le citazioni che qualsiasi cinefilo non stenterà a riconoscere; una su tutte: la mitica moto di Travis, praticamente identica a quella guidata da Kaneda nel celeberrimo “Akira”, e con cui riprodurremo l’iconica frenata in derapata.
Aggiungete a quanto ora detto un’abbondante dose di sano trash (per salvare i nostri progressi, ad esempio, dovremo usare i WC chimici sparsi nel gioco e, per ricaricare l’energia della Beam Katana, dovremo… agitare la batteria!), una colonna sonora tanto varia quanto ispirata e comprenderete quanto lo stile di Goichi Suda sia rimasto intatto.
I titoli targati Suda51 sono sempre stati noti per il loro combat system frenetico e sopra le righe, e No More Heroes III non fa eccezione. Avremo a disposizione due tipi di attacchi (leggero e pesante) con cui inanellare diverse tipologie di combo, nonché dei poteri con cui avere ragione dei nostri avversari, tutti alloggiati nel Death Glove. Man mano che porteremo attacchi a segno (e finché non verremo messi al tappeto), faremo caricare una barra che, in buona sostanza, estenderà al massimo il numero di colpi delle nostre combo, finendo anche per attivare dei QTE con cui infliggere dei danni bonus.
La curva di apprendimento non è particolarmente impervia, ed i combattimenti risultano sempre perfettamente bilanciati; tuttavia, gli amanti delle difficoltà elevate troveranno pane per i loro denti, avendo la possibilità di misurarsi con dei livelli di sfida più ostici (anche facendo ricorso alla Macchina del Tempo, che consente di riaffrontare ogni singolo boss).
Inoltre, non mancheranno momenti in cui il nostro eroe si dovrà trasformare in un vero e proprio mecha (non molto diverso da un Gundam), affrontando nemici di taglia enorme e dando vita a delle fasi shooter altrettanto riuscite e coinvolgenti.
Una menzione a parte va fatta per le boss fight: non ce n’è stata una noiosa o ripetitiva ed anzi, in alcuni casi, per raggiungere la vittoria non è stato quasi necessario estrarre la beam katana. L’esempio più lampante che ci viene in mente è il combattimento contro Velvet Chair Girl che, in buona sostanza, è la trasposizione in rhytm game delle “sedie musicali”, gioco in cui chiunque abbia qualche capello bianco in testa si sarà cimentato almeno una volta.
Come avrete facilmente inteso, anche questo aspetto del modo di intendere i videogame di Suda-san è rimasto inalterato, ma ora iniziano le note dolenti. Dopo una trama ben scritta, una sceneggiatura notevole, dei personaggi amabilmente assurdi ed un combat system divertente, da qui in poi si inizierà a capire quali sono i rischi del fare una frittata senza uova.
Nel corso della nostra avventura, come detto in precedenza, saremo chiamati a sconfiggere 10 pericolosi assassini ma, siccome la United Assassins Association (UAA) ha organizzato questo “Cell Game” in piena regola, dovremo pagare ben nove biglietti per poter accedere ad ogni singolo scontro. Il nostro Travis è uno squattrinato cronico, come faremo quindi a procurarci il denaro necessario? Affrontando una serie di battaglie contro improbabili xenomorfi e svolgendo lavoretti di vario genere.
Sotto il primo aspetto, troveremo diversi punti di interesse sulla mappa di gioco e, interagendoci, daremo il via ad un combattimento contro una o più ondate di nemici. A seconda dei danni subiti, delle combo inflitte, delle abilità utilizzate e del tempo speso per arrivare alla vittoria, riceveremo una valutazione finale (da C ad SS) e, in base ad essa, otterremo denaro ed oggetti con cui potenziare le nostre abilità e con cui costruire chip per rendere il Death Glove ancora più letale.
Se abbiamo capito quanto i combattimenti siano il cuore pulsante di No More Heroes III, è altrettanto vero che questi scontri intermedi sono perlopiù una forzatura per evitare di correre direttamente da un boss all’altro. I lavoretti, invece, sono dei mini-giochi inizialmente divertenti (dal tosare il prato allo sturare i WC chimici, fino all’abbattimento di coccodrilli giganti a suon di cannonate) ma che, alla lunga, diventano molto ma molto ripetitivi.
L’esplorazione del mondo di gioco è quanto di più ridondante di possa immaginare e, nonostante i vari collezionabili inseriti qua e là, rappresenta il primo, evidente effetto della carenza di budget che ha sicuramente accompagnato lo sviluppo del titolo. Quanto ora detto risulta ancora più evidente quando ci si sposta ad analizzare il comparto tecnico ed estetico del gioco che, come diremo a breve, si muove non tra alti e bassi, ma tra alti e abissi!
Eccoci arrivati al punto in cui la summenzionata assenza di uova si avverte maggiormente. Abbiamo parlato delle varie open map che ci ritroveremo ad esplorare per racimolare i soldi necessari per accedere alla boss fight successiva, progredire nella trama e raccogliere qualche collezionabile; peccato che queste mappe di “open” abbiano realmente poco. Le zone in cui non potremo accedere saranno la maggioranza, con un uso massiccio di “muri invisibili” che non si vedevano da diverse generazioni e che, spesso e volentieri, faranno incastrare il nostro Travis, obbligandoci a caricare un salvataggio precedente.
Non è possibile interagire con praticamente nessuna delle strutture presenti nel gioco e con praticamente alcun NPC che, tra le varie cose, sembrano veramente realizzati con lo stampino per quanto sono identici l’uno all’altro.
La cura spesa per la realizzazione di Travis e dei vari personaggi non è controbilanciata dall’estetica dei vari mob che affronteremo, tutti piuttosto anonimi, anche se dotati di una buona intelligenza artficiale e di vari pattern di attacco. Se quanto ora detto potrebbe anche essere una scelta stilistica (alcuni mostri sembrano veramente usciti da Ultraman del 1966), le texture lisce, levigate e luminose come palle da bowling sono forse il pugno nell’occhio più evidente che No More Heroes III ci assesta, insieme ai pochissimi dettagli che caratterizzano alcune (ma non tutte) aree di gioco.
Il videogame, sull’ammiraglia Microsoft, tiene costantemente i 60 frame al secondo, senza alcun calo degno di nota, ma viene tradito da tutta una serie di fenomeni di pop up e di rendering delle texture che, in buona sostanza, vengono caricate circa circa uno o due secondo dopo essere comparse nell’inquadratura.
Aggiungete a quanto ora descritto dei tempi di caricamento praticamente onnipresenti (e spesso anche piuttosto corposi) ed avrete ottenuto una summa di tutto ciò che proprio non va in questa cavalcata finale di Travis Touchdown.
No More Heroes III è la quint’essenza del modo di intendere i videogame di Goichi Suda; questo, ovviamente, sia nel bene che nel male. Da una parte, troviamo un cast di personaggi assurdi, una trama divertente e ricca di sfondamenti della quarta parete, un setting surreale, combattimenti appassionanti, scelte di game design tanto spiazzanti quanto divertenti e quintali di citazioni alla cultura pop, sia di “serie A” che di “serie B”. Dall’altra parte, però, ci scontriamo con tutti quei difetti tipici di un videogame sviluppato con poco budget: un open world poco esplorabile, mappe completamente spoglie, prive di vita e di dettagli, qualche bug fastidioso qua e là, dei prop che sembrano uscire da un titolo PS3, delle texture che vanno dall’abbastanza definito al per niente definito e la costante sensazione che ogni attività da svolgere sia poco più di un filler, un riempitivo per separare una boss fight dall’altra.
Il folle sviluppatore giapponese è stato sempre contraddistinto da questo spirito punk dissacrante che, come ogni estremismo, o si ama o si odia, e siamo convinti che chi non ha mai amato i lavori di Suda51, probabilmente non inizierà a farlo da questo No More Heroes III.
Tuttavia, se è vero che le “soluzioni punk” non sempre ti consentono di sopravvivere nell’industria dei videogame, è altrettanto vero che esse sono una delle espressioni più genuine della creatività umana. Proprio per questa ragione, il numero che vedrete in calce all’articolo è meramente indicativo: se siete pronti a vivere un’esperienza ludica surreale ed indimenticabile, a patto di chiudere un occhio sul lato tecnico, aumentate il voto di uno; nel caso in cui proprio non riusciate a transigere su quanto sopra espresso, abbassatelo di uno.
Permettete però a chi vi scrive di darvi un consiglio: date una possibilità a NMH3. Forse non accadrà niente ma, in caso contrario, potreste rimanere ammaliati dal “Suda-verse”, scoprendo che il punk non è mai veramente morto.
This post was published on 6 Ottobre 2022 13:37
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