Essendo stato per la maggior parte della mia vita un giocatore console, non ho mai avuto grande esperienza di indie, come li intendiamo oggi: piccole produzioni sviluppate da un pugno di programmatori (quando non un singolo supernerd chiuso nell’archetipica cameretta) che coltivano idee di game design fuori dal senso comune.
Da questo punto di vista il gioco su PC, su cui ormai mi sono spostato quasi del tutto, continua a farmi scoprire titoli interessanti, e a rimpiangere il fatto che per motivi di tempo non ne giocherò mai il 99%.
Perciò non appena è arrivato in redazione il codice review di Witch Strandings ho chiesto di poterlo recensire: era chiaro che sarebbe stata un’esperienza fuori dall’ordinario.
Se avete già letto il voto a fondo pagina saprete già che non si è trattato di una prova soddisfacente, tuttavia non posso negare a questa minuscola produzione i meriti che possiede. Purtroppo essi sono inferiori ai suoi limiti, ma a me piace sempre vedere il bicchiere mezzo pieno.
Per iniziare a descrivere questo gioco si può partire dalla componente narrativa: non c’è.
Possiamo andare avanti.
Ok, non è proprio vero, una premessa narrativa c’è ed è quella che vedete qui sopra: noi giocatori comandiamo un esserino luminoso, evocato, per così dire, nel cuore di una foresta magica.
La foresta è sofferente poiché piagata da una maledizione lanciata da una strega. Questa maledizione affligge in maniera mortale flora e fauna della foresta, con conseguenze nefaste per l’ambiente.
In quanto “luciferi”, solo noi abbiamo la possibilità di riportare l’armonia nel luogo, confrontandoci con la strega.
Se pensate che questo incipit possa svilupparsi in una trama più articolata, beh, vi sbagliate.
Anche se in questo frangente sarebbe abbastanza ridicolo parlare di “spoiler”, non voglio comunque svelare cosa succede quando raggiungiamo la strega.
Vi assicuro però che la suddetta premessa non porta a nessun epilogo concreto, a nessuna risoluzione del problema, a nessuno sviluppo di intreccio narrativo: lo sforzo profuso dallo sviluppatore in questo senso è prossimo allo zero.
Il gioco è privo di dialoghi, avremo accesso ad oggetti e “NPC” interagibili che sbloccheranno informazioni testuali circa l’area della foresta in cui ci troviamo o le vicissitudini del personaggio di turno (tutti animali).
Si tratta di informazioni talmente generiche e scollegate tra loro da essere prive di qualsivoglia importanza o tanto meno interesse. È possibile intuire, da alcune descrizioni, che sotto la rappresentazione di questa foresta malata si celi una specie di metafora della società umana, afflitta da problemi di ansia/depressione/solitudine, e che la chiave per ritrovare l’armonia perduta sia ricostituire i legami tra le comunità, esercitarsi nell’ascolto ed aiuto reciproci, essere aperti alla comprensione del prossimo.
Tutto bello e nobile, ma sperare che un canovaccio ineffabile con sottotesto da pubblicità progresso rappresenti una componente narrativa sufficiente a motivare il giocatore, o che sia addirittura in grado di affascinarlo, è una pura utopia.
Bocciata questa componente, cerchiamo allora di rispondere alla domanda fondamentale: che tipo di gioco è Witch Strandings?
Si potrebbe semplicemente dire che Witch Strandings sia un puzzle game, e non si sbaglierebbe. Pure, lo si potrebbe considerare con qualche ragione un gioco di avventura, nonostante la narrativa asfittica descritta sopra. Infine, si può dare per buona la definizione coniata dal suo creatore Xalavier Nelson Jr., a capo del team di sviluppo texano Strange Scaffold: strand-type game.
A suo dire, il gioco si inserisce in un recente filone di titoli incentrati sul trasporto di oggetti, meccanica portata alla ribalta qualche anno fa da Death Stranding. Il titolo di Kojima Productions era tematicamente incentrato sui legami umani (ho approfondito la questione in questo speciale) e a livello di gameplay richiedeva al giocatore di ripristinare connessioni tra individui sparsi per la mappa di gioco, ingegnandosi per superare gli ostacoli ambientali che ci si trovava davanti di volta in volta.
Witch Strandings riprende la filosofia di design di Death Stranding mettendo il giocatore al centro di una mappa aperta, liberamente esplorabile fin da subito, in cui la sfida è rappresentata proprio dal riuscire ad aprirsi dei percorsi in essa. La foresta è sostanzialmente una grande tilemap, in cui ogni tessera rappresenta un tipo di terreno: alcuni sono inerti ed innocui per il giocatore, altri invece lo rallentano (ad esempio il fango) o lo danneggiano se vi entra in contatto (fatture), altre ancora sono insormontabili e possono solo essere aggirate. La struttura labirintica e randomica (si genera ad ogni nuova partita) della foresta fa uso di queste semplici combinazioni più o meno casuali per lanciare il guanto di sfida al giocatore: riuscirà ad attraversare la foresta incolume?
Come fare per districarsi in questo labirinto?
Bisogna aprirsi dei varchi “nullificando” le caselle nocive. Per farlo dobbiamo raccogliere ed utilizzare alcuni oggetti che troviamo sparsi per la mappa, ciascuno efficace contro determinati tipi di caselle.
Sarà sufficiente posare l’oggetto a terra per rendere innocue le caselle attorno ad esso.
Attenzione però: gli oggetti possono essere trasportati solo uno alla volta, qualora ce ne servisse più di uno per superare una serie di ostacoli (e capiterà di continuo), dovremo aggirarci per la mappa in cerca di un numero di oggetti adeguati.
Si può anche optare per una seconda opzione, che è però molto più dispendiosa in termini di tempo. Siccome gli oggetti non spariscono una volta poggiati a terra, possiamo semplicemente usare il medesimo oggetto per aprirci un varco un po’ per volta: lo poggiamo, facciamo qualche passo, lo raccogliamo e poggiamo di nuovo accanto a noi, facciamo qualche altro passo e ripetiamo l’operazione finché è necessario. Capite bene però quanto possa essere snervante un’operazione del genere, anche perché l’esplorazione consiste in un continuo andirivieni per la mappa, e la soddisfazione principale risiede proprio nel riuscire ad aprirsi dei percorsi permanenti per velocizzare il più possibile i nostri vagabondaggi. È anche possibile sbloccare dei teletrasporti rapidi (a patto ovviamente di avere con noi l’oggetto corrispondente), utilissimi ma comunque presenti in numero risicato.
Navigare per la mappa è semplicissimo, non serve altro che il nostro mouse. Qui sta l’idea di gameplay più originale del titolo: ciò che si fa per la maggior parte del tempo non è altro che muovere il mouse per direzionare il movimento del nostro puntino luminoso. A questo controllo principale dobbiamo solo aggiungere dei clic per raccogliere/depositare oggetti (si può scegliere se attivare o meno il drag-and-drop) o la pressione di una lettera della tastiera per conservarne uno in saccoccia (a patto di ottenere questa abilità. Come la si ottiene? Non ve lo dico!).
Non era certo facile disegnare un’esperienza ludica dai comandi così essenziali e che non sia un punta-e-clicca. In questo senso la creatività di Strange Scaffold va riconosciuta ed apprezzata. Accompagnare il movimento del nostro avatar con la propria mano, mentre si esplora una mappa evitando ostacoli cullati da una colonna sonora ambient elettronica: un’esperienza insolita e rilassante.
Quantomeno in teoria.
In realtà basta una mezz’oretta di gioco per far sì che alle prime impressioni positive ne subentrino altre che non lo sono affatto. In poco tempo infatti il titolo mostra tutti i suoi limiti di design, dando l’impressione generale di rappresentare più un prototipo che un gioco completo.
Vediamo perché.
In primo luogo un’avvertenza: questo gioco rischia di provocarvi un tunnel carpale.
Scherzo, ma non troppo: ho concluso la mia prima partita in un paio d’ore, al termine delle quali il mio povero polso implorava pietà. Il problema è connaturato all’utilizzo continuo del mouse e al modo in cui lo si usa in questo gioco: l’inerzia ha un ruolo fondamentale nel movimento che imprimiamo al nostro avatar. Alcune delle tiles più nocive “calamitano” il nostro esserino luminoso e costringono a un vigoroso colpo di polso per divincolarcene. Allo stesso modo, il vai e vieni continuo da una parte all’altra della mappa porta a voler impiegare il meno tempo possibile a ripercorrere strade già battute – cosa tuttavia necessaria ed inevitabile – con un conseguente movimento forsennato, fatto di scatti improvvisi e bruschi cambi di direzione, il che si traduce nell’avere il polso costantemente sotto stress.
Lungi quindi dall’essere una gameplay riposante: giocare a Witch Strandings diventa velocemente una fatica fisica, motivo per cui consiglierei di provarlo solo a patto di avere periferiche ed accessori adeguati, o quantomeno lo spazio sufficiente per appoggiare l’avambraccio sulla scrivania.
Inoltre il gioco non offre pressoché null’altro al di fuori del girovagare per la mappa e creare percorsi al suo interno: a corredo di quest’unica attività c’è qualche orpello che sembra piazzato lì nell’attesa di capire come svilupparlo, più che come implementazione sensata di meccanica di gioco.
La presenza dei già citati NPC, ad esempio, non serve assolutamente a nulla: ognuno di essi soffre di una condizione specifica, e può essere guarito portandogli un oggetto altrettanto specifico. Tuttavia, aiutarlo non ha alcuna conseguenza concreta, se non l’aumento di un indicatore di punteggio piazzato nella parte destra dello schermo, nonché di risanamento della foresta che vedete invece a sinistra.
Dopo che ne avrete aiutato qualcuno, perderete ben presto qualsiasi interesse nel continuare a farlo, a meno che non vogliate a tutti i costi scoprire cosa accade risanando del tutto l’ambiente.
Ve lo lascio scoprire, ma vi avverto che non ne vale la pena.
Correlato al posizionamento NPC e oggetti c’è il ciclo giorno/notte, che all’inizio di un nuovo giorno ridistribuisce gli uni e gli altri casualmente nella mappa, oltre a salvare la partita (cosa che potete comunque fare in ogni momento dal menù di pausa).
Ma come detto, tali fetch quest sono tutte uguali e possono dare qualche soddisfazione solo se ci sentiamo investiti da uno smodato spirito altruistico nei confronti di questi animali in difficoltà.
Infine, la morte non causa alcun problema particolare: può capitare di perdere l’intera barra dell’energia rimanendo invischiati in una casella nociva.
In questo caso si avvia un reset del posizionamento di oggetti ed NPC, e il nostro lucifero respawna nella location iniziale: a conti fatti l’unica cosa che “si perde” è la propria posizione nella mappa, il che richiederà semplicemente di spendere qualche noioso minuto per ritornare nel luogo in cui eravamo. Ah, ovviamente sta a noi giocatori farci una mappa mentale della foresta: io col senso dell’orientamento me la cavo bene, ma per alcuni giocatori questo compito potrebbe farli precipitare ben presto in una spirale di confusione.
L’impressione che ho ricavato da questa prova è che Strange Scaffold abbia avuto una felice intuizione di gameplay in partenza, ma si sia adagiato su di essa senza sforzarsi di costruirci attorno un gioco vero e proprio.
È tutto talmente impalpabile, abbozzato e di breve durata (come detto il gioco si può finire in poco più di un’ora, a seconda della vostra velocità di movimento e capacità di orientarvi) da rendere molto difficile capire a quale pubblico possa rivolgersi.
Forse non lo sanno nemmeno gli sviluppatori.
Witch Stranding ha il merito di suscitare una immediata sensazione di spaesamento, che è difficile provare per chi videogioca da una vita. Peccato che, già dopo una manciata di ore, la principale meccanica di gioco finisca per essere più un fastidio fisico che un’idea geniale, e il resto del progetto è talmente evanescente da farlo sembrare un invitante pacco regalo dentro cui non c’è assolutamente niente. Solo il pacco.
This post was published on 24 Luglio 2022 10:00
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