Avete mai pensato che le aspettative su un titolo possano rivelarsi una pericolosa arma a doppio taglio? Vi siete mai chiesti se l’eccessivo hype per un videogame possa ripercuotersi sul videogame stesso, qualora quest’ultimo non raggiunga quel grado di “perfezione” tanto agognato dai fan?
Perdonate il doppio quesito a “olio crudo”, ma credo sia bene iniziare la nostra lettura con questi interrogativi, chiedendoci fino a che punto possano spingersi i danni cagionati da un marketing sopra le righe (e dalle conseguenti reazioni del pubblico).
Senza andare troppo indietro nel tempo, diciamo che un paio di nomi eccellenti ci vengono in mente. Fallout 76, Anthem ed il mai troppo citato Cyberpunk 2077 (per la cui recensione il nostro buon Daniele è ancora nel pieno del suo cammino di redenzione) sono alcuni tra gli esempi più lampanti di come il calcare troppo la mano nei proclami possa danneggiare non poco il prodotto finale, soprattutto se, a tutto questo, aggiungiamo uno sviluppo con qualche intoppo.
In Dying Light 2 c’erano tutte le premesse necessarie per bissare il successo del suo predecessore, colmandone le lacune ed implementando nuove meccaniche, così da rinnovare una formula già vincente senza il rischio di snaturarla.
Ebbene, qualcosa non è andato per il verso giusto.
Il titolo Techland non riesce, per tutta una serie di fattori, a spiccare il volo che lo avrebbe consegnato all’eccellenza. I motivi di quanto ora scritto? Tutti riassumibili in un singolo concetto: inciampare in quelli che, almeno sulla carta, dovevano essere i tuoi punti di forza.
Ma, come di consueto, niente fretta: abbiamo un’intera recensione per parlarne!
Anno nuovo, Apocalisse zombie nuova!
Sono oramai passati 15 anni dai fatti di Harran, ma l’umanità sembra essere ricaduta negli stessi errori del passato: non paga degli eventi accaduti nella città turca, il GRE, un’associazione umanitaria (ma solo di facciata), ha continuato a fare ricerche sul virus che aveva trasformato gli essere umani in zombie, col fine di trasformarlo in un’arma batteriologica. Come ampiamente prevedibile, si è generata una nuova pandemia, stavolta su larga scala, e l’umanità è stata chiamata nuovamente alla sopravvivenza.
In questo sequel vestiremo i panni di Aiden Caldwell che, a differenza di tanti, ha abbracciato la via del “Pellegrino”, rifiutando la sicurezza delle mura fortificate delle ultime città umane per vagabondare da un insediamento all’altro. Poco si sa del passato del nostro eroe, ma conosciamo sin da subito quale sia il suo scopo: ritrovare Mia, la sua amata sorella, da cui è stato separato in circostanze misteriose. Aiden ha un solo indizio a disposizione; un nome, per essere precisi: Waltz, un misterioso figuro che, anni fa, conduceva degli esperimenti per conto del GRE su un folto gruppo di bambini, che comprendevano anche il protagonista e Mia.
Non appena arrivato a Villedor, uno degli ultimi baluardi dell’umanità, la sua ricerca subirà un brusco stop; Aiden sarà infatti morso da uno zombie, diventando così un infetto, e si accorgerà che la strada che lo porta verso Waltz e Mia è attualmente sbarrata da una guerra (più o meno) fredda tra due diverse fazioni. Da una parte abbiamo i Sopravvissuti, probabilmente il raggruppamento più numeroso, composto da persone di vario genere che, in una maniera o nell’altra, tentano in tutti i modi di ricostruire e di dare una parvenza di civiltà a ciò che rimane del genere umano. Dall’altra, invece, abbiamo i Pacificatori, meno numerosi ma armati fino ai denti ed estremamente militarizzati, la cui visione del futuro è basata su due unici pilastri: gerarchia e disciplina.
Come se già non bastasse questa “differenza di vedute”, un casus belli ha aumentato la tensione tra i due gruppi: Lucas, il capo dei Pacificatori, è stato misteriosamente ucciso, ed i suoi commilitoni sono convinti che il colpevole si nasconda nel Bazar, il quartier generale, dei Sopravvissuti che, dal canto loro, rifiutano ogni accusa e si preparano ad uno scontro che sembra inevitabile.
Va da sé che sarà compito nostro disinnescare il conflitto, sia per evitare spargimenti di sangue, sia per sbloccare la strada che ci porterà alla Linea Centrale, zona in cui dovrebbe trovarsi la nostra amata sorella.
Tutto questo senza ovviamente dimenticarci dei Rinnegati (una terza fazione, che fa dell’anarchia la propria bandiera) e della minaccia più letale e soverchiante presente nel gioco: gli infetti.
Buchi e toppe
Ricordate quando abbiamo parlato di “inciampare sui tuoi punti di forza”? Bene, premetto che dovremo confrontarci più volte sulla questione, dato che abbraccia vari aspetti del gioco, ma la trama è senza dubbio il primo di questo con cui fare i conti.
Come tutti ricordiamo, il primo Dying Light aveva una narrazione che non faceva certo gridare al miracolo, ed il team di sviluppo polacco ha voluto colmare questa lacuna, assumendo una delle massime autorità in questo campo: Chris Avellone. L’obiettivo era quello di creare un vero e proprio “sandbox narrativo”, per usare le parole di Techland, in cui ogni scelta avesse un certo peso specifico tale da precluderci intere sezioni di gioco (si parlava addirittura del 25% del contenuto complessivo) e addirittura di modificare l’ambiente circostante. Come avrete compreso, il dev mirava decisamente in alto, e l’addio di Avellone, avvenuto a Giugno 2020, non sembrava decisamente essere un buon presagio.
Giudicare la qualità narrativa di Dying Light 2 non è semplice, in quanto la sensazione è quella di trovarsi davanti ad una creatura monca, ad un’opera a cui qualcuno ha strappato via diverse parti, tutte più o meno importanti, portando lo sviluppo in tutta un’altra direzione. Provate ad immaginare una Monna Lisa per metà realizzata con lo stile di Leonardo e, per l’altra metà, con quello di Picasso, ed avrete un’idea di ciò di cui vi stiamo parlando.
La trama, anche stavolta, non buca lo schermo, anche grazie a delle linee di dialogo un po’ stereotipate e che non lasciano il segno, ma lo stesso sistema di scelte, tanto decantato in fase di promozione, sembra essere stato soltanto abbozzato e non rifinito. Facciamo un esempio: ad un certo punto, vi verrà chiesto di schierarvi a favore di una fazione o di un’altra: in cosa si tradurrà la nostra scelta? Nell’allontanamento di certi personaggi, nella preclusione di determinate missioni (e nella comparsa di altre) e nell’assegnazione di alcuni edifici al gruppo che avrete deciso favorire, con conseguenti bonus a vostro favore.
“Tutto qui? È veramente tutto qui?”. Se in questo momento avete la stessa espressione di re Theoden all’inizio dell’assedio del Fosso di Helm, sappiate che non ci sarà alcun geniere orco a far saltare in aria le mura della vostra delusione. I cambiamenti ambientali sono minimi, così come minimi saranno quelli apportati allo svolgimento della main quest, che ci obbligherà ad avere comunque a che fare anche con NPC appartenenti alla fazione nemica (che potremmo aver anche combattuto fino a qualche minuto prima) e che sfocerà in un finale incanalato su un doppio binario e che non rende giustizia a tutto quanto visto e vissuto in precedenza.
Eppure, nonostante quanto ora detto, in molte delle tantissime side quest, è possibile intravedere il bagliore creativo di un team di sviluppo che, al netto tutto, è riuscito a plasmare il fascino della post apocalisse che ha investito Villedor, delineando tutti gli eventi principali che hanno portato alla sua caduta.
Inutile dire che quanto ora evidenziato non fa che aumentare la sensazione di amaro in bocca, tipica di tutti quei bei lavori a cui però manchi quel quid pluris di cui tutti siamo sempre alla ricerca.
Gameplay da croce e delizia
Diciamocelo chiaramente: il successo del primo Dying Light risiedeva quasi interamente nelle fondamenta del suo gameplay, basate su un mix tra parkour e combattimento all’arma bianca. Ebbene, anche in Dying Light 2: Stay Human ritroviamo entrambi questi elementi, ma Techland ha deciso di ampliare la sua “ricetta segreta”, apportando anche elementi ruolistici e rivestendo di grande importanza l’esplorazione. Anche in questo caso, però, i risultati non sono stati sempre all’altezza delle aspettative; ma andiamo per gradi, partendo dal primo degli elementi citati: il parkour.
Negare che, rispetto al precedente capitolo del franchise, siano stati compiuti dei passi da gigante sarebbe folle. Grazie alla collaborazione di David Belle, il fondatore di questa disciplina tanto acrobatica quanto spericolata, Aiden potrà sfoggiare tutta una serie di animazioni con cui scalare le pareti più impervie, scavalcare ostacoli di varia natura e spiccare balzi degni di un atleta olimpico. Va da sé che parte di quanto ora descritto troverà applicazione anche nei combattimenti, ma demandiamo la questione al paragrafo successivo.
Imparare a destreggiarci tra arrampicate, salti e cadute sarà fondamentale tanto per l’esplorazione che per sfuggire ai nemici (umani e non morti) che accompagneranno pressoché ogni nostro passo; ci saranno casi in cui, però, saremo chiamati a combattere. Qualunque sia la nostra scelta, al raggiungimento di un certo ammontare di punti esperienza, saremo ricompensati da dei punti abilità, che potremo investire per l’ottenimento di questa o quella skill. Ovviamente, non tutte le abilità si riveleranno fondamentali, ma alcune di esse sapranno cavarci d’impiccio da situazioni tutt’altro che agevoli. La schivata, ad esempio, ci consentirà di sfuggire agli attacchi pesanti dei nostri nemici (non parabili in alcun modo), mentre altre skill ci permetteranno di effettuare attacchi caricati, capaci di rompere le difese dei nostri avversari.
Come si guadagnano i punti esperienza dei due rispettivi skill tree? Semplice: combattendo ed eseguendo i trick di parkour più audaci del vostro repertorio. Più sarete vari, maggiori saranno le ricompense in termini di EXP. Ad aggiungere ulteriore interesse alla fase esplorativa ci saranno gli Inibitori, un particolare tipo di collezionabile con cui potrete potenziare tanto il Vigore quanto la Vitalità. Nel primo caso, la barra della stamina aumenterà di dimensioni, consentendovi di combattere e di arrampicarvi più a lungo, potendo così raggiungere località altrimenti precluse; nel secondo caso, invece, ad aumentare sarà la health bar, garantendovi la possibilità di incassare più colpi. Inoltre, l’aumento di ciascuno dei due parametri comporta lo sblocco di abilità più avanzate, sviluppando il personaggio nella maniera che riterrete più opportuna.
Come potrete facilmente immaginare, gli Inibitori saranno collocati nelle zone a maggior densità di infetti, visitabili unicamente di notte, quando gli zombie abbandonano gli edifici per andare a caccia. Ma badate bene: non avrete tutto il tempo del mondo per condurre le vostre ricerche. Non appena caleranno le tenebre, o non appena vi addentrerete in una delle tante Zone Buie, la vostra Immunità inizierà a calare e, qualora dovesse esaurirsi, l’infezione che affligge il nostro protagonista avrà la meglio, conducendolo alla morte. Gli unici rimedi allo scorrere inesorabile dei secondi sono dei particolari oggetti curativi e le fonti di luce UV, entrambi disponibili in quantità limitata.
Come potrete aver facilmente desunto, la componente esplorativa è sicuramente l’aspetto meglio riuscito di Dying Light 2. Le appena descritte Zone Buie, le missioni secondarie, le sfide di combattimento e di parkour, il recupero dei carichi aerei, la conquista degli accampamenti, lo sblocco dei mulini; queste ed altre attività fanno aumentare vertiginosamente la longevità del titolo targato Techland, sfondando agevolmente il muro delle 100 ore per il suo completamento.
Combat System e fasi stealth
Come abbiamo detto in precedenza, Dying Light si è sempre poggiato su due pilastri: il parkour (ai fini dell’esplorazione) ed il combattimento; se del primo abbiamo già parlato poco fa, è arrivato il momento di concentrarci sul combat system, analizzandone i pregi e mettendone in luce le problematicità. Nonostante la presenza di armi a lunga gittata (archi, balestre, ecc.), gli scontri che sarete chiamati ad affrontare saranno prevalentemente all’arma bianca. Il gioco ci metterà a disposizione un arsenale decisamente variegato (e che noi potremo customizzare attraverso il crafting), ma farete bene a non affezionarvi ad alcuna arma in vostro possesso: ognuna di esse ha una durata prestabilita e, per quanto possiate allungarla con delle modifiche, sarà destinata a rompersi. Va da sé che, a seconda del vostro approccio, potrete prediligere armi ad una o due mani, a seconda che desideriate una maggiore velocità di attacco o dei danni più ingenti. A questo proposito, è bene menzionare anche l’importanza dell’equipaggiamento che andrete ad indossare, che andrà ad assegnare dei bonus ad un relativo tipo di arma o, in altri casi, ai punti esperienza ottenuti ed alle cure ricevute.
Grazie alle feature del DualSense (limitate, in questo caso, quasi unicamente ai grilletti adattivi), riusciremo a sentire il “peso” di ogni colpo, anche se impareremo presto che, nei combattimenti più impegnativi, dovremo imparare anche a schivare, a parare gli attacchi nemici, nonché a sfruttare i vantaggi offerti dall’ambiente circostante. Ai fini di un efficiente crowd control, ad esempio, potremo sfruttare tavoli, balaustre ed addirittura nemici storditi come trampolini per sferrare colpi in volo, creando un mix micidiale tra parkour ed arti marziali.
In conclusione, quindi, va tutto bene? Purtroppo no.
Come spiegheremo meglio più avanti, il sistema di compenetrazioni di Dying Light 2 lascia un po’ a desiderare, e questo si traduce tanto nel parkour che nel combattimento. Ci saranno occasioni in cui i vostri colpi mancheranno dei bersagli che sembravano alla portata, e volte in cui subirete l’attacco alle spalle di un avversario che, l’ultima volta che avete controllato, era molto distante da voi. Se gli zombie più comuni rappresentano una sfida tutto sommato agevole (ad eccezione degli esemplari più grandi, che però compaiono col contagocce), mettere K.O. gli avversari umani dovrebbe essere molto più impegnativo. Ecco, la parola giusta è “dovrebbe“.
Banditi, Rinnegati et similia, secondo le indicazioni presenti nel gioco, dovrebbero vantare un’intelligenza artificiale capace di memorizzare i nostri pattern di attacco e di prevenirli, ma la verità dei fatti è piuttosto diversa. Basta poter contare su una semplice scrivania per poter avere la meglio su praticamente qualsiasi numero di avversari, limitandoci a correre dietro il tavolo, saltare, effettuare un dropkick, ritornare dietro il tavolo e ripetere l’operazione fino a che tutti non saranno al tappeto. Nel caso in cui doveste trovarvi su un piano rialzato, poi, l’operazione sarà ancora più facile: vi basterà collocarvi all’estremità di una scala a pioli, attendere che i soldati salgano in cima, colpirli e farli cadere nel vuoto, senza correre praticamente alcun pericolo.
Se già vi siete fatti un’idea sull’IA con quanto letto finora, le fasi stealth non faranno che corroborarla. In diverse occasioni, infatti, il nostro Aiden potrà scegliere di sgattaiolare in silenzio, raggiungendo il suo obiettivo passando inosservato e non disdegnando qualche uccisione silenziosa; anche questi elementi di gioco, però, sono stati realizzati in maniera approssimativa. Ci sono fondamentalmente due momenti in cui sarete chiamati a fare appello alle vostre doti stealth: nelle Zone Buie (facendo slalom tra degli Infetti “dormienti”) e nella conquista degli avamposti (eliminando le sentinelle ed arrivando al Comandante); in entrambe le situazioni, però, essere scoperti sarà difficile e, in ogni caso, mai veramente un problema.
Qualora un infetto dovesse fiutare la vostra presenza, risvegliando i suoi simili, vi basterà frullare il tasto di attacco ed avrete agevolmente la meglio, ma vi anticipo che sarà veramente complesso non trovare la “rotta” da seguire nel mare di non morti; nel caso degli avamposti, invece, le sentinelle capaci di dare un allarme generale non sono molte, mentre le altre, nel caso vi avvistassero, si limiteranno a cercarvi per un po’ (quasi sempre nei posti sbagliati) per poi tornare alla loro routine. Potete immaginare quanto possa risultare agevole il possesso di un’arma a distanza, che vi consentirà di sconfiggere praticamente chiunque nell’incredulità dei vostri avversari.
Estendendo il discorso al livello di sfida complessivo, questo risulta essere fin troppo accomodante, soprattutto dopo aver sbloccato determinate abilità. Le stesse missioni notturne tanto amate dai fan del primo Dying Light, ci faranno uscire dalla nostra comfort zone, ma quasi mai si tradurranno in un inseguimento da parte degli infetti, soprattutto se decideremo di saltare di tetto in tetto.
Comparto tecnico e direzione artistica
Anche in questo caso, c’è da fare una premessa: per “comparto tecnico” non intendiamo limitarci alla sola estetica e fluidità di gioco (grafica e framerate, per intenderci), ma abbracciamo anche quella “pulizia di codice” che sottende l’esperienza di gioco tout court. È necessario chiarire tutto questo perché, ancora un volta, dovremo analizzare sia alti che bassi.
Partendo da ciò che ha funzionato, non possiamo non lodare la direzione artistica, che riesce a rappresentare al meglio un “Medioevo Post Apocalittico”, con il genere umano che si ritrova a combattere per le spoglie del mondo che fu. Sotto questo aspetto, è suggestivo (e decisamente molto ispirato) notare il contrasto tra le “nuove” roccaforti umane (realizzate con palizzate, lamiere ed altri materiali di scarto) e le rovine dei vecchi edifici di Villedor, quasi completamente diroccati e ridotti a mere tane per zombie. Ciò che stupisce è anche la possibilità di poter entrare in un gran numero di abitazioni, anche solo per la raccolta di materiali; allo stesso modo, ci ha stupito tutta una serie di personaggi secondari, vere e proprie note di colore in un dramma dai contorni decisamente cupi. Il discorso cambia, però, nel caso dei personaggi principali, alcuni dei quali, come detto in precedenza, vantano delle linee di dialogo decisamente piatte e stereotipate.
I colpi d’occhio che Dying Light 2 può offrire sono decisamente notevoli, e la verticalità della mappa di gioco non fa che spronarci alle scalate più audaci; non sempre gli interni sono altrettanto ispirati e, dopo qualche ora di esplorazione, si inizia ad avvertire la ripetizione di alcuni elementi del design. Un discorso simile si può fare per i modelli poligonali degli NPC secondari, che iniziano a ripetersi dopo neanche chissà quanto tempo e che, come anche i loro “colleghi primari”, non brillano per qualità di animazione. Aggiungiamo a quanto ora detto un doppiaggio in lingua inglese piuttosto scialbo ed una localizzazione in lingua italiana (tramite sottotitoli) non sempre fedelissima ed avremo ottenuto le stonature di quello che, altrimenti, sarebbe stato un notevole punto di forza di Dying Light 2: Stay Human.
Volendo spostarci sul summenzionato comparto tecnico, iniziamo col dire che il titolo Techland può contare sui soliti tre settaggi: Prestazioni, Qualità e Risoluzione. Chi vi scrive consiglia caldamente la modalità Prestazioni, in quanto vi garantirà un framerate più corposo (60 fps) ma non sempre stabile, soprattutto in combattimenti particolarmente affollati. Da un punto di vista squisitamente grafico, Dying Light 2 alterna cose belle, come i già menzionati panorami ed alcuni stage decisamente suggestivi, ad altre decisamente meno belle, come texture non sempre sugli scudi, cura altalenante per i dettagli (basti guardare le parti sott’acqua) e delle animazioni un po’ legnose.
Attraverso un artificio tecnico, l’open world di gioco viene diviso in due macro aree: Villedor e la Linea Centrale (disponibile nella seconda metà del gioco). Entrambe saranno sempre visitabili, ma per passare dall’una all’altra si dovrà effettuare un viaggio rapido ricorrendo alla metropolitana, tradendo così la natura cross-gen del titolo.
I problemi tecnici di Dying Light 2, però, non finiscono qui.
Vi abbiamo già menzionato le compenetrazioni, che vanno a complicare non solo il combattimento, ma anche il parkour. Non è sempre agevole capire a che cosa il nostro Aiden potrà aggrapparsi, e non sarà infrequente che questi non riesca ad afferrare una sporgenza al primo tentativo, facendoci stramazzare a terra e rendendoci bersagli facili per i nemici di turno. Lo stesso discorso si applica nel momento in cui, ad esempio, vorremo salire su un piccolo ostacolo, ma invece il protagonista lo scavalcherà, magari cadendo di sotto ed attirando l’attenzione di chiunque si trovi nelle vicinanze.
Nonostante la patch del day one (che, a detta del team di sviluppo, avrebbe corretto quasi 1000 bug), ci siamo imbattuti in diverse situazioni in cui non comparivano i comandi prompt per interagire con determinati oggetti o NPC (impedendoci di raccoglierli e/o di attivare determinate quest). Inoltre, il sistema di salvataggio scelto dal dev si basa solo su checkpoint scelti arbitrariamente, che spesso ci costringeranno a ripetere determinate fasi o combattimenti a causa di un salto calibrato male; sotto questo aspetto, un salvataggio libero sarebbe stato decisamente preferibile.
Aggiungete a quanto finora detto delle fisiche spesso sballate, che proietteranno i vostri bersagli a metri di distanza con un semplice colpo, ed avrete la summa del lato più debole di Dying Light 2: Stay Human.
Giudizio finale
Provate ad immaginare uno studente universitario che inizia il proprio esame inciampando sull’argomento a piacere, quello su cui dovrebbe essere più ferrato.
Dying Light 2: Stay Human è esattamente questo: uno studente anche ben preparato, ma che si incarta su praticamente tutti quelli che dovevano essere i punti di forza dell’esperienza di gioco. Ad un’ottima direzione artistica corrisponde una realizzazione estetica altalenante, ad una buona trama fa da contraltare una narrazione spesso lacunosa ed un sistema di scelte che sembra solo abbozzato, e ad un gameplay divertente si contrappongono degli inciampi tecnici non indifferenti. Non potremo mai sapere che cosa, in sede di sviluppo, non abbia girato nel verso giusto, ma quello che ci troviamo tra le mani è un gioco che sa intrattenere il suo pubblico in maniera anche convincente, ma che non riesce a raggiungere il livello di eccellenza a cui Techland sicuramente ambiva. Detto questo, ci sentiamo di consigliare l’esperienza a chiunque abbia amato la formula del primo Dying Light (ed avesse sempre sognato vederla applicata su larga scala), nonché a chiunque sia alla ricerca di un open world pieno zeppo di contenuti… a patto di chiudere un occhio ogni tanto!
PRO
- Una direzione artistica ispirata
- Un gameplay longevo, divertente e convincente
- Un level design verticale ben realizzato
CONTRO
- Qualche scivolone tecnico di troppo
- Una trama interessante, ma a cui sembrano essere stati strappati dei pezzi
- Un sistema di scelte che non incide più di tanto sulle nostre vicende
Se hai letto tutta la recensione (e l'hai letta per davvero tutta senza imbrogliare) puoi cliccare qui sotto per scoprire il voto: