Poniamoci tutti una domanda: qual è la “ricetta segreta” per la composizione di una line up di successo?
Ogni big del settore videoludico sa che la programmazione è tutto, che ogni suo titolo andrà a definire l’identità della sua filosofia aziendale; non dobbiamo però dimenticarci che la realizzazione di un videogame, oggi come oggi, rappresenta una vera e propria scommessa col pubblico, e che, purtroppo, ogni passo falso è pagato a caro prezzo. Sulla base di quanto ora scritto, trovare una risposta al summenzionato quesito non è esattamente agevole, soprattutto se ti chiami Sony.
Badate bene: chi vi scrive non ha alcuna risposta da darvi, almeno non nel senso più letterale del termine. Se però guardiamo al passato del colosso nipponico, possiamo riscontrare la presenza di un elemento che ha accomunato tutte le sue generazioni di console: l’alternanza tra grandi franchise da una parte e, dall’altra, produzioni autoriali meno costose, ma capaci di lasciare il segno sul grande pubblico. Dreams, Entwined, Journey, Unfinished Swan, Ico, tutti questi titoli sono qui a testimonianza del fatto che, ogni tanto, c’è bisogno di stupire il giocatore; ebbene, Kena: Bridge of Spirits si colloca esattamente in questa schiera di opere.
Uscito a pochissima distanza da una produzione del calibro di Deathloop (potete leggere la nostra recensione proprio qui), la nuova esclusiva console (a titolo temporaneo) tocca corde decisamente più intime, cercando, con una formula semplice, di avvincere, emozionare, appagare e, soprattutto, sorprendere lo spettatore. Tuttavia, le emozioni sono una pericolosa arma a doppio taglio e, senza le giuste basi di partenza, si rischia di scadere nelle banalità più trite.
Nelle righe che seguono, vi descriveremo la nostra esperienza con l’opera prima di Ember Lab che, come abbiamo anticipato nel titolo, ha realizzato una perfetta crasi tra oriente ed occidente.
Una caverna buia, in cui l’oscurità sembra regnare indisturbata, interrotta solo dal tenue bagliore di qualche fuoco fatuo: è esattamente in questo luogo che ha inizio la nostra avventura, facendo la conoscenza di una giovane protagonista.
Il suo nome è Kena e, come avremo subito modo di apprendere, è dotata di poteri che la distinguono da qualsiasi altra persona. La ragazza è infatti una Guida Spirituale, il cui compito è quello di “traghettare” gli spiriti dei defunti verso la loro nuova dimensione, attraverso delle maschere di legno che, con il loro progressivo sgretolarsi, simboleggiano l’avvenuto passaggio nell’aldilà.
Non tutti gli spiriti però accettano pacificamente la loro dipartita. Coloro che sono morti in circostanze drammatiche, o che hanno delle questioni in sospeso, sono infatti intrappolati in un limbo, ed è compito di una guida spirituale spingerli a compiere quel passo verso l’oltretomba, anche ricorrendo alle maniere forti.
Subito dopo un incontro ravvicinato con un’anima particolarmente belligerante, Kena arriva in una regione in cui la natura ha avvolto tutto con il suo manto verde; la ragione di questa pace è però triste: molti anni prima, un cataclisma tanto improvviso quanto inspiegabile ha ucciso praticamente ogni essere umano lì presente. I villaggi sono oramai diventati dei silenziosi gusci vuoti in via di sfaldamento, e le uniche voci che potremo udire sono quelle degli spiriti ancora presenti nella dimensione terrena, e dei Rot, delle allegre creature nere che sembrano perfettamente a loro agio in questo nuovo mondo di quiete.
Ma non è tutto. Uno strano morbo sta pian piano invadendo la zona, corrompendo la natura circostante e prosciugandone l’energia vitale. Proprio per questo, la nostra guida spirituale avrà un triplice compito: riportare la pace tra le anime in pena, scoprire cosa sia successo in quel luogo e, infine, ripristinare l’equilibrio spezzato.
Tutti gli indizi sembrano portare al santuario sulla montagna, ma la strada per arrivarci sarà lunga e piena di pericoli; l’unico aiuto su cui potremo contare, almeno all’inizio, è quello di Saiya e Beni, due bambini che ci chiederanno di ritrovare Taro, il loro fratello maggiore.
Abbiamo detto in apertura che il videogame rappresenta un mix tra oriente ed occidente. Torneremo più volte su questo punto, ma è il caso di iniziare ad affrontare l’argomento, almeno dal punto di vista narrativo.
Il titolo Ember Lab è totalmente incentrato su tematiche care ai media provenienti dalla terra del Sol Levante.
La spiritualità, il viaggio alla ricerca di sé stessi, la lotta per superare i traumi del proprio passato, l’equilibrio tra le forze che dominano il nostro mondo; Kena: Bridge of Spirits ruoto attorno ad argomenti di chiara matrice orientale, ma li tratta con un approccio decisamente occidentale.
A differenza di quello che ci si potrebbe attendere, il titolo dispone di una narrazione molto lineare, che spiega tutti i particolari della vicenda con la dovuta attenzione, facendo spesso ricorso a delle scene filmate che, in qualche minuto, riescono a soddisfare la gran parte delle curiosità dello spettatore. Certo, alcuni interrogativi rimarranno senza risposta, soprattutto in merito al passato di Kena, ma viene scongiurato il più grande pericolo di qualsiasi opera di provenienza orientale: i quesiti inevasi.
A differenza, invece, di ciò che ci si potrebbe attendere da una narrativa di stampo occidentale, è bene chiarire sin da subito che i dialoghi in cui ci imbatteremo non saranno mai preponderanti: la “voce principale” sarà sempre quella della natura. Ovviamente non mancheranno gli NPC con cui interagire, ma il loro contributo ai fini narrativi sarà comunque di contorno. D’altra parte, non è possibile spiegare a parole la spiritualità, ma il viaggio di Kena e dei suoi Rot ci riesce alla perfezione.
Le circa 15 ore che occorrono per arrivare ai titoli di coda fanno di Kena: Bridge of Spirits un’opera intensa, capace di scorrere con facilità, che non impegna eccessivamente e che, come vi spiegheremo a breve, lascia il segno.
Sotto l’aspetto del gameplay, Kena: Bridge of Spirits si presentava come un prodotto un po’ enigmatico, in quanto non era proprio semplicissimo capire che cosa ci saremmo trovati tra le mani. Ebbene, dopo aver trascorso le primissime ore di gioco, il quadro si delinea con assoluta chiarezza: il titolo Ember Lab è un action adventure, caratterizzato da un sistema di progressione tipico degli RPG e da delle sezioni platform.
Nell’esplorazione delle cinque aree che il videogame ci mette a disposizione, saremo chiamati ad esplorare i vari stage alla ricerca dell’obbiettivo da raggiungere (non disdegnando i pochi e divertenti collezionabili), a risolvere enigmi e, ovviamente, a sconfiggere i nemici che puntualmente ci sbarreranno la strada. Analizziamo singolarmente queste caratteristiche.
Ci siamo già soffermati sulla durata della main quest, ma il gioco offre anche tutta una serie di missioni secondarie, attivabili attraverso la raccolta di una particolare tipologia di collezionabili: la “Posta Spirituale”. Si tratta di oggetti che, una volta ottenuti e portati in un determinato luogo, sbloccheranno vere e proprie aree aggiuntive, con le relative ricompense. Tra i vari obiettivi secondari, non possiamo non menzionare la ricerca dei Rot. Mano mano che il loro numero aumenterà, infatti, riusciremo a sbloccare tutta una serie di nuove abilità con cui affrontare i nostri avversari e progredire nella missione.
Alla lunga, si avverte una certa “ripetizione di schemi“. Per essere chiari, ogni area avrà un suo spirito da placare e, per raggiungerlo, dovremo raccogliere tre reliquie a lui appartenute, scontrandoci con altrettanti boss. Nonostante questo non infici più di tanto sulla scorrevolezza e sulla progressione del gameplay, un po’ di varietà in più non avrebbe guastato.
A proposito di progressione, possiamo dirvi che non saranno poche le volte in cui dovrete aguzzare l’ingegno per capire come procedere.
Il team di sviluppo ha infatti inserito dei puzzle che richiederanno l’uso tempestivo di tutte le abilità in vostro possesso. Vi faccio un piccolo esempio: nel corso della trama, ci troveremo la strada bloccata da edifici in rovina; ebbene, con una granata infusa di energia, questi potranno riacquisire la loro forma originale, ma solo per un breve lasso di tempo, aprendo così dei nuovi sentieri da percorrere; oppure, una volta ottenuto l’arco, sarà possibile approdare in aree altrimenti irraggiungibili. Questo aspetto, decisamente ben curato, arricchisce un’esperienza di gioco già di per sé molto gradevole.
Inutile dire che le abilità ora descritte avranno la loro utilizzo anche nei combattimenti.
Nonostante tutte le premesse spirituali fatte in precedenza, in alcuni casi la forza è l’unico mezzo per vincere la resistenza di un’anima in pena. Il combat system di Kena: Bridge of Spirits è fondamentalmente basato su due attacchi (uno leggero ed uno pesante), delegati ai tasti dorsali (insieme ai comandi per l’uso delle abilità); per proteggersi dai colpi nemici è possibile tanto schivarli quanto pararli. In quest’ultimo caso, qualora il tempismo fosse perfetto, potremo stordire per qualche istante il nemico, aprendone le difese ed esponendolo ai nostri attacchi più devastanti.
Causando e subendo danni, infine, potremo contare su una serie di abilità Rot, che ci consentiranno tanto di sferrare delle tecniche speciali, quanto di raccogliere gli oggetti curativi sparsi sul campo di battaglia.
Il sistema di comandi non è esattamente sugli scudi, soprattutto se ne analizziamo la reattività ma, ancora una volta, l’esperienza complessiva non ne risente più di tanto, soprattutto grazie ad una buona varietà di nemici che, in buona sostanza, spesso ci richiederà di ricorrere più alle abilità che non alle semplici “mazzate”. Il Dualsense fa, ancora una volta, la sua figura, sia restituendo tutta una serie di vibrazioni in base agli stimoli esterni, che sfruttando i grilletti adattivi, i quali offriranno una certa “resistenza” quando Kena dovrà tendere l’arco o quando dovrà sferrare un attacco pesante.
Le boss fight rappresentano il fiore all’occhiello della produzione. Ciascuno scontro è praticamente unico, per meccaniche e tecniche da utilizzare, e riesce ad impegnare il giusto; ci sono però un paio di controindicazioni a quanto ora affermato: gli ultimi due scontri sono decisamente più impegnativi rispetto a praticamente tutti gli altri. Nello specifico, il nemico finale di Kena dovrà essere battuto in uno scontro a più fasi e, qualora la nostra protagonista dovesse perdere, sarà costretta a ricominciare tutto dall’inizio. Come è possibile constatare, i save point non sono sempre collocati in maniera ottimale.
Quanto ora detto ci porta ad un altro aspetto problematico del titolo: il suo livello di difficoltà non perfettamente bilanciato, estremamente punitivo in alcuni momenti quanto totalmente permissivo in altri.
Una delle cose che ci aveva colpito maggiormente di Kena: Bridge of Spirits era il suo comparto tecnico. Sin dal primo trailer mostrato, si rimaneva piacevolmente colpiti dalla cura spesa per i dettagli e dall’estetica immediatamente riconoscibile della produzione. Tutte queste impressioni sono state confermate “pad alla mano”; nonostante il gioco sia stato realizzato da un team estremamente ridotto in termini numerici (si parla del lavoro di appena 15 persone), stupisce tantissimo la pulizia grafica che contraddistingue ogni singolo fotogramma.
Certo, volendo essere un po’ più smaliziati, potremmo evidenziare tutti i limiti di una produzione di natura, occorre sempre ricordarlo, rigorosamente indipendente. Le mappe non sono totalmente esplorabili; ci sono alcune texture più dettagliate di altre e, in alcuni casi, il loro rendering sarà tutt’altro che istantaneo; la scelta della modalità Grafica, che garantisce il 4K e 30 fps, non sembra funzionale, soprattutto quando arriva il momento di combattere; sotto questo aspetto, quindi, ci sentiamo di consigliare la modalità Performance che, invece, aumenta il framerate a 60 fps, anche se non sempre stabili.
Ebbene, a fronte di questi paletti, sotto certi aspetti “naturali” ed ampiamente giustificabili, si erge quello che è il vero vanto di Ember Lab: una direzione artistica sopraffina. In Kena: Bridge of Spirits, ogni passo è accompagnato dalla sensazione di totale immersione nell’immobile quiete che regna nelle terre che stiamo esplorando. Ogni ambiente di gioco è contraddistinto da un’illuminazione propria, arricchito da effetti particellari e, ovviamente, da una colonna sonora che ne sottolinea le caratteristiche e, sotto certi aspetti, la sacralità.
Come suggerito dal team di sviluppo, l’intento era quello di creare un’esperienza intensa e completabile nell’arco di un fine settimana; possiamo dire che la missione è stata compiuta, soprattutto per quanto riguarda l’intensità emotiva di cui l’opera è pregna.
Alzi la mano chi, dopo i primi fotogrammi del trailer di Kena: Bridge of Spirits, non abbia pensato di trovarsi davanti ad un film di animazione Pixar, dimenticandosi per un attimo di star guardando una conferenza di videogame. Ebbene, nonostante questo “abbaglio” iniziale, non possiamo dire di esserci sbagliati più di tanto: i primi lavori di Ember Lab sono stati, per l’appunto, cortometraggi animati, spot pubblicitari animati e app. Sotto questo aspetto, quindi, non stupisce affatto il trovare una tale cura nella realizzazione delle cutscene, nel character design e, ovviamente, nelle animazioni, facciali e non, dei personaggi.
È proprio questo l’aspetto in cui si concretizza maggiormente il mix tra oriente ed occidente. L’estetica di Kena: Bridge of Spirits è saldamente ancorata in territori “statunitensi”, ma la tematiche che tratta affondano le loro radici nelle tradizioni e nel folklore orientali. I simpatici Rot, per dirne una, sono dei Kodama rivisitati in “chiave Monsters & co.”, ed i lineamenti dei personaggi umani vanno tutti in quella direzione; per quanto invece riguarda le creature spirituali (in particolare i boss), questi ultimi sono molto più simili a quanto visto in opere come Ico, Shadow of the Colossus, Journey, ecc. Lo stesso feeling complessivo del videogame è analogo: i temi del viaggio, della redenzione spirituale e della riconciliazione sono presenti in qualsiasi medium orientale.
Kena: Bridge of Spirits è la piena dimostrazione che è possibile conciliare due mondi, due realtà e, soprattutto, due sensibilità che chiunque considera antitetici.
In un’industria di settore che fa dello sfoggio tecnico la sua bandiera, Kena: Bridge of Spirits sceglie coraggiosamente di seguire una strada diversa, che predilige una narrazione ed una direzione artistica sopra le righe. La formula su cui il titolo si regge non inventa assolutamente niente di nuovo, ma riesce a mescolare ingredienti diversi, dando a ciascuno il proprio spazio. Saremo chiamati ad esplorare, a risolvere enigmi, a raccogliere oggetti e, ovviamente, a combattere; ogni sfaccettatura del gioco è stata curata con grande attenzione, tenendo bene a mente che una produzione che nasce come indipendente non poteva non avere dei limiti, e quelli di Kena: Bridge of Spirits sono perfettamente percepibili. Tuttavia, il respiro complessivo dell’opera è talmente profondo che riesce a coprire alcune delle sue stesse imperfezioni. Volendo descrivere il gioco in poche parole, Kena: Bridge of Spirits è un’esperienza breve ma intensa, capace di unire mondi e filosofie apparentemente inconciliabili e ricordandoci, ancora una volta, che è possibile fare tanto con poco.
This post was published on 28 Settembre 2021 21:00
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