Uno dei ricordi d’infanzia a cui sono maggiormente legato riguarda i momenti in cui accompagnavo mia nonna a fare la spesa. Come molte donne della sua epoca, anche lei aveva il culto del risparmio e, proprio per questa ragione, tendeva ad evitare le grandi catene di supermercati, trovandosi più a suo agio con le offerte dei discount. Ogni volta che entravo in uno di quei minimarket, rimanevo stupito dall’enorme quantità di prodotti totalmente sconosciuti presenti su quegli scaffali. Biscotti, salumi, bibite, detersivi e tanti altri beni di consumo, tutti accomunati dalle stesse due caratteristiche: marchi mai sentiti prima e somiglianze più o meno evidenti con le controparti “griffate”, a cui miravano ad affiancarsi o, in alcuni casi, con cui speravano confondersi.
Ogni volta che chiedevo a mia nonna dei Pan di Stelle o della Coca-Cola, mi bastava uno sguardo per capire che ero in presenza di un pacco di “Stelline” o di un bicchiere di “Lazinko Cola” (credetemi, esiste sul serio!). Tutto ciò ha generato in me la scoperta dell’ “Effetto Discount“: un processo mentale con cui bolliamo come “imitazione” qualunque bene che abbia delle somiglianze con un prodotto più famoso, declassandone automaticamente la qualità e destinandolo all’oblio.
I videogame non sono esenti dall’effetto discount, e spesso uno sguardo distratto può farci etichettare un titolo come “copia di…” o “clone di…” un prodotto che, invece, ha delle ottime qualità, e la cui unica colpa è quella di appartenere ad un genere in cui c’è oramai un solo esponente della categoria che spadroneggia, come farebbe un ras di quartiere. È proprio questo il caso di Curse of the Dead Gods e, nelle righe che seguono, cercherò di spiegarvi quanto sia dura la vita di un roguelike da quando esiste Hades.
La trama di Curse of the Dead Gods è veramente essenziale: vestiremo i panni di un avventuriero senza nome (ma con i lineamenti di chi avrebbe tante storie da narrare) che decide di avventurarsi all’interno di un antico tempio azteco alla ricerca di tesori, artefatti, potere e, forse, immortalità. All’interno delle lugubri e claustrofobiche stanze di questo dungeon, troveremo molte delle cose che il nostro protagonista brama, insieme però a tutta una serie di creature mostruose, trappole e maledizioni. Se riusciremo a superare queste minacce, troveremo un boss finale ad attenderci alla fine del nostro cammino.
Il titolo di Passtech Games offre tre tipologie di templi, ognuno caratterizzato da un “elemento dominante” (fuoco, fulmine e veleno) che accomunerà sia i nemici che le trappole di cui sono disseminate le stanze, e che saranno visibili solo se colpite dalla flebile luce della torcia, l’unica nostra fedele compagna.
E nel caso in cui riuscissimo a completare tutti e tre i templi? Se, come me, pensavate che la sfida di Curse of the Dead Gods si concludesse con questa manciata di stage, eravate completamente fuori strada. Dopo aver avuto ragione dei primi tre boss, ho avuto accesso a delle versioni più estese dei dungeon, con ben due combattimenti finali da affrontare, di cui il secondo totalmente nuovo. Dopo aver portato a termine anche questa seconda serie di imprese, diventerà accessibile un ulteriore “potenziamento” dei templi, con un maggior numero di trappole, nemici più forti e ben tre boss da battere. Chi riuscisse a superare anche questa sfida dovrà misurarsi con lo stage finale, il “Pantheon”, accedendo al temutissimo boss finale.
Alzi la mano chi, vedendo il trailer di Curse of the Dead Gods, non è stato colpito dal summenzionato “Effetto Discount”. Per quanto riguarda me, il video di presentazione del gioco non poteva non richiamare Hades che, come detto in apertura, è diventato il punto di riferimento del suo genere.
So già qual è la domanda che frulla nelle vostre teste: Curse of the Dead Gods è il clone di Hades? La risposta è un sonoro “NO!”. Nonostante il gioco tragga chiaramente ispirazione dal titolo di Supergiant Games, il team di sviluppo ha inserito delle meccaniche piuttosto originali, traendo spunto anche da altri dungeon crawler.
Nel momento in cui entreremo in uno dei templi, avremo a disposizione un’arma principale, un’arma secondaria ed un’arma a due mani; nelle battute iniziali del gioco, il nostro arsenale sarà piuttosto risicato, per poi allargarsi a dismisura nelle run successive. Machete, archi, pistole, lance, martelli, pugnali, scudi, coltelli da lancio: ogni arma garantirà un diverso approccio al gameplay, consentendovi di trovare il vostro personale stile di gioco.
La parata e la schivata sono di fondamentale importanza, sia per evitare gli attacchi nemici (ed i conseguenti danni) che per ricaricare i Punti Resistenza, una vera e propria stamina che chi è cresciuto a pane e soulslike ha imparato a conoscere e “rispettare”.
Sempre rimanendo i tema soulslike, il nostro personaggio avrà tre attributi: Costituzione (collegata ai punti vita), Destrezza (collegata ai danni che infliggeremo con le armi) e Percezione (che determina la quantità di oro e la rarità dei tesori che troveremo). Inutile dire che scegliere quale di queste tre caratteristiche potenziare sarà di fondamentale importanza.
Sin dalla mia prima run, ho capito che il button mashing era il modo migliore per essere sconfitti. Per arrivare vivi (ed in condizioni accettabili) al boss finale è necessario esplorare ogni stanza (facendo attenzione ai suoi segreti), inanellare le giuste combo (che si estendono a tutte le tre armi), saper schivare/parare, sfruttare i vantaggi ambientali (le trappole potranno colpire sia noi che i nostri nemici) e cercare sempre di combattere “alla luce”.
Scegliere di avventurarsi al buio non solo non ci consentirà di vedere le trappole, ma renderà anche più letali gli attacchi dei nostri mostruosi avversari. Proprio per questa ragione, vi consiglio caldamente di accendere i vari bracieri in cui vi imbatterete, potrebbero salvarvi la vita.
La torcia, la luce e l’ombra vi hanno fatto venire in mente qualcosa? Se la risposta è Darkest Dungeon, sappiate che le somiglianze con il titolo di Red Hook Studios non si fermano alla sola estetica. Ricordate il preambolo sui tesori nascosti nei templi? Bene, sappiate che la vostra avidità potrebbe costarvi molto cara.
Ogni stanza del tempio avrà una ricompensa da offrirvi, sia essa un’arma, un suo potenziamento, una reliquia o il miglioramento di uno dei tre attributi del vostro personaggio. Avrete due modi per poter fare vostre le ricompense: un’offerta d’oro o un’offerta di sangue. L’oro sarà presente in quasi tutti gli stage che affronterete ma, è inutile dirlo, potrebbe non essere sufficiente per comprare ciò di cui necessitate, spingendovi ad offrire il vostro sangue. Qualora scegliate questa via, aumenterete la barra della Corruzione e, superata una certa soglia, una maledizione si abbatterà su di voi.
Le maledizioni potranno affliggere il vostro personaggio in vari modi: sottraendogli punti resistenza, rendendo invisibili i nemici al buio, rendendo più letali le trappole, ecc. Alcuni di questi anatemi potranno anche avvantaggiarvi, ma badate bene: la quinta ed ultima maledizione andrà ad erodere piuttosto rapidamente i punti vita, mettendo una pietra tombale sulle vostre ambizioni.
Proprio in base a quanto ora scritto, occorre affrontare i templi con una strategia ben chiara in mente, sapendo che fare l’ “asso pigliatutto” sarà quasi sempre una pessima idea.
Qual è ricetta segreta per creare un roguelike di successo? Da giornalista, non saprei darvi una risposta precisa; tuttavia, non si potrebbe prescindere dai due elementi indicati nel titolo del presente paragrafo. Se la veste grafica ed estetica di Curse of the Dead Gods mi ha decisamente convinto, è bene soffermarsi a fondo anche sulle summenzionate caratteristiche.
Il gameplay del titolo di Focus Home Interactive fa decisamente bene il suo dovere: mi è capitato letteralmente di perdere la cognizione del tempo esplorando le varie stanze, ed ogni morte era uno stimolo a migliorare il mio approccio. Le armi e le abilità da sbloccare sono veramente tante, l’ideale per soddisfare il completista che c’è in ognuno di noi. Sotto questo aspetto, Passtech è riuscita nel non semplice compito di addolcire l’amarissima pillola del permadeath. Se invece amate le sfide ad alto coefficiente di difficoltà, gli eventi giornalieri ed i templi più avanzati saranno pane per i vostri denti.
Sotto l’aspetto della varietà, invece, c’è qualcosa da sottolineare. Come accade in praticamente ogni roguelike, i dungeon sono generati in maniera procedurale e, proprio per questa ragione, è possibile avere delle sensazioni di déjà vu, soprattutto dopo un certo numero di run. Il problema di Curse of the Dead Gods è che questa sensazione arriva già dopo qualche ora; mi è capitato spesso di osservare la fisionomia della stanza e di capire già dove fossero collocati i nemici, dove si trovassero le aree segrete, quale strada prendere per trovare meno ostacoli e, in alcuni casi, a quale tipologia di trappola dovessi prepararmi.
Gli stessi combattimenti difficilmente rappresenteranno una sfida insormontabile. I moveset dei nemici (soprattutto di quelli più grossi) saranno facilmente leggibili, così come saranno generose le finestre temporali concesse per le parate e le schivate.
Anche sulle armi e le maledizioni si poteva osare un po’ di più. Se queste ultime sono appena superiori alla decina (e poche vanno veramente a gravare la run), le prime, seppur numerose, non raggiungono la varietà e la profondità viste in altri roguelike, ed il gioco stesso non incoraggia ad esplorare tutto l’arsenale. Io stesso, ad esempio, ho completato la quasi totalità degli stage usando la sola arma a due mani (spadoni e martelli), sia perché è quasi l’unica capace di interrompere gli attacchi nemici, sia perché mi consentiva di frantumare le trappole ed i muri che celavano le stanze segrete, facilitandomi non poco la vita.
Il discorso appena fatto è estendibile anche alle reliquie. Spieghiamoci bene, non mi aspettavo di certo la varietà e la profondità visti in quel capolavoro The Binding of Isaac, ma qualche velleità in più avrebbe consentito a Curse of the Dead Gods di emergere dal mare magnum dei roguelike e di uscire dall’ingombrante ombra di Hades.
Curse of the Dead Gods è la copia carbone di Hades? Assolutamente no! Nonostante la visuale isometrica e l’azione frenetica possano trarre inganno, la creatura di Passtech Games trae ispirazione anche da altri nobili esponenti del genere roguelike (Darkest Dungeon e The Binding of Isaac su tutti) non disdegnando una leggera spruzzatina di soulslike che non guasta mai. Il gioco ha scongiurato il temuto Effetto Discount ma, tuttavia, pecca in quello che spesso è il tallone d’Achille di questa categoria: la varietà. Dopo un po’, gli stage inizieranno a somigliarsi tra loro e finirete col leggere agevolmente gli attacchi nemici, arrivando quasi a prevedere (e prevenire) le trappole presenti nelle varie stanze. Quanto ora detto non vuole essere una bocciatura al videogame, capace di intrattenere e di avvincere con la sua atmosfera cupa ed esotica; tuttavia, manca quel quid pluris che gli avrebbe consentito di ritagliarsi il suo spazio in un genere fin troppo affollato.
In ogni caso, mi sento di consigliare Curse of the Dead Gods a chiunque ami il genere e desideri qualcosa di alternativo a quell’enorme buco nero risucchia-vita sociale che è Hades, ma fate attenzione: potreste passare da un buco nero ad una maledizione azteca.
This post was published on 6 Marzo 2021 10:00
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