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Recensioni

Werewolf: The Apocalypse – Earthblood | Recensione (PS4)

La mancanza di una trasposizione videoludica di Werewolf: The Apocalypse (conosciuto in Italia come Licantropi: l’Apocalisse), gioco di ruolo cartaceo di White Wolf appartenente al Mondo di Tenebra, era per certi versi incomprensibile.

Tabletop rpg basato sulla divertente prospettiva di interpretare lupi mannari organizzati in branchi, impegnati a vivere proteggendosi da multinazionali spietate e affamate di risorse naturali, Licantropi è infatti un setting che poteva dare tantissimo, tanto quanto Vampiri: La Masquerade-il gioco più famoso di tutto l’universo narrativo di WW.

Ora finalmente Werewolf ha fatto il grande salto nel gioco digitale con Earthblood, action-rpg di Cyanide (già al lavoro su Call of Cthulhu nel 2018), ma non nel modo in cui ci si auspicava.

Purtroppo.

Earthblood: storia di un ritorno al proprio branco

Riassunto di rito (per chi non sa di cosa stiamo parlando): Mondo di Tenebra, di cui Licantropi è un tassello fondamentale, è un gioco di ruolo urban fantasy/modern gothic composto da alcune ambientazioni con relativi sistemi di regolamento che ci permettono di interpretare vampiri, maghi, spettri (insomma, le creature del folklore) oppure semplici umani alle prese con i misteri soprannaturali.

Il nostro licantropo fa davvero una bella figura, non trovate?

In questo quadro, Licantropi: L’Apocalisse permette di intavolare belle campagne (o cronache, in gergo MdT) incentrate su branchi di lupi mannari che vivono nascosti dalla società umana seguendo un modello tribale fatto di tradizioni, riti ancestrali e ritmi legati al ciclo della natura.
Si tratta probabilmente del gioco di ruolo di MdT che più permette di imbastire storie d’azione, basate sulla lotta dei protagonisti per difendere le loro terre da spietate multinazionali. Un concept molto profondo, che affonda le sue radici nell’ambientalismo anni ’90 (periodo di uscita dei gdr) e nella cultura della sinistra giovanile americana di allora.

Earthblood tenta ragionevolmente di trasporre questa lore nella maniera più lineare ed efficace possibile, ovvero attraverso un action con vaghi elementi rpg che ci mette nei panni di Cahal, licantropo adulto appartenente a uno dei tanti branchi del Nordamerica.

Le aree di gioco non brillano per varietà

La storia prende propriamente il via quando Cahal torna al branco dopo un esilio durato cinque anni, deciso volontariamente dopo un fatto tragico. Una volta ricongiunto con i suoi cari, Cahal dovrà rimettersi al comando dei suoi fratelli per difendere le sue terre dall’ingordigia umana e distruggere un piano davvero diabolico.

Nei panni di un predatore

Come si sviluppa un concept di questo tipo, in un prodotto di medio budget come quello di Cyanide?

In pratica, Earthblood è un classico action suddiviso in missioni concatenate, strutturate al loro interno in modo molto rigido.

Una sessione di gioco di Earthblod è estremamente lineare: riunione col briefing assieme agli altri membri del branco, partenza per la missione (il cui teatro è sempre un impianto industriale protetto da mercenari armati fino ai denti), infiltrazione, esecuzione.

Una struttura normalissima e di per sé perfetta per un gioco del genere, che ha il suo fulcro nel fatto di poterci divertire a divorare persone. E credetemi, dilaniare nemici con i nostri artigli affilati è in sé un piccolo godimento e un discreto spettacolo, perfetto per sfogare la nostra stanchezza dopo una giornata di lavoro.

Il predatore è a caccia

Non manca neanche, in teoria, una varierà nell’affrontare le missioni, con una formula che ci permette di infiltrarci nelle postazioni nemiche e di superare alcuni step in modalità silenziosa.

Durante il gioco potremo infatti, oltre che tramutarci in licantropo “bestiale” (crinos), trasformarci in semplice “lupo in forma tradizionale“, e sgusciare sinuosi dietro ai nostri avversari.

Paradossalmente, è proprio quest’ultima una delle parti più divertenti del gioco, in cui potremo godere nel sentirci un predatore esperto in grado di “giocare” i nostri avversari. Ed è, oltretutto, una modalità che sembra darci le basi per un po’ di sana tattica. Il gioco ci fa infatti capire che, in fase stealth, potremmo infiltrarci in postazioni privilegiate come varie stanze della sorveglianza, dalle quali disattivare telecamere o sbloccare porte.

E il gioco, da questo punto di vista, mostra delle dinamiche interessanti.

Peccato che qualcosa in Earthblood si inceppi presto, molto presto, già durante la prima missione.

La grafica non è esattamente al passo con i tempi, ma nell’insieme risulta funzionale

La formula di gioco sulla carta azzeccata di cui parlavamo più su si concretizza in uno schema che sa di vecchio, dal level design lineare, incapace di darci vera libertà di approccio. Earthblood divide infatti brutalmente i livelli in sezioni stealth e altre “libere”, facendo cambiare lo stile d’azione del PG. In pratica, nel corso di una sezione stealth non potremo correre, e ancor peggio non potremo scegliere di correre, e quindi di affrontare il gioco nel modo che riteniamo migliore.

Capite che un taglio del genere non è soltanto scomodo e frustrante, ma è soprattutto non-moderno, anacronistico in un’età del videogioco in cui anche titoli di fascia bassa riescono a dare grandi fette di libertà al giocatore.

A questo aggiungiamo il fatto che le parti action sono ripetitive all’eccesso. Di fatto, queste aree di gioco si concretizzano in una serie di potenziali arene in cui qualsiasi errore nello stealth viene ripagato con un allarme generalizzato, che sfocia in una sorta di deathmatch in cui sciami di soldati nemici corrono incontro al nostro povero Cahal. Sezioni che di fatto sono delle risse sì divertenti di base, ma tutte uguali e con solo pochi guizzi costituiti quasi sempre da miniboss trascurabili.

Passi una volta, la formula può essere piacevole (del resto, il combattimento è abbastanza spettacolare).

Passi due, okay. Non passa molto però per far sì che quest’impostazione inizi a stancare.

La combo “forma lupesca-stealth” è una delle componenti più piacevoli del gioco

Ora, mettiamoci che il sottoscritto non è un mago con lo stealth, e che dunque probabilmente si sia sentito abbastanza frustrato dal doversi barcamenare fra allarmi costanti e le suddette risse, ma capirete voi che strutturare il gioco in un susseguirsi di grandi arene in cui i nemici arrivano a ondate continue, costringendo il giocatore a stancanti confronti degni di una battaglia campale, fa sorgere il dubbio che i programmatori abbiano privilegiato principalmente la volontà di metterci al centro di sezioni di combattimento neanche troppo ispirate.

Un’impressione figlia di uno stile di gioco sbagliato?

Forse, fatto sta che permane l’idea di avere di fronte un level design così ripetitivo, qualche dubbio lo fa venire.

Problemi di concept, problemi di esecuzione

Come avrete capito, Earthblood ha dei limiti strutturali palesi, che ne fanno un action rpg davvero “povero”.

Vale la pena interrogarsi sul motivo.

Il budget potrebbe essere una risposta. In fondo, stiamo parlando di un gioco di fascia media.

Il problema è che Earthblood dà l’impressione di giocare le risorse che ha negli ambiti sbagliati, non puntando a quelli che dovrebbero essere i piatti principali del banchetto. La grafica per esempio non è certo degna di un cross-gen (il gioco uscirà anche su PS5), ma comunque funzionale. Ci sono anche qui dei problemi, va bene. I modelli poligonali sono poveri e scarni, le espressioni risultano poco naturali e definite, non c’è niente di impressionante.

I sensi aumentati del nostro alter-ego sono utilizzabili sia in forma umana che bestiale

Però artisticamente il gioco funziona e immerge abbastanza in quello che dovrebbe essere il mood di Werewolf, con un’alternanza di impianti scientifici dai colori e forme freddi e industriali e aree naturali.

Cosa vuol dire questo? Che sulla carta Earthblood ha la volontà di muoversi abilmente nella sua cornice di gioco a budget contenuto per costruire qualcosa che funzioni.

Allora viene il dubbio che i difetti elencati prima siano dovuti a scelte di game design, a scelte che fatico a capire.

Davvero era necessaria la rigida suddivisione in sezioni stealth e non-stealth? Davvero il dover costantemente finire affrontare orde di nemici che respawnano per minuti interi, solo per poi lasciarci andare verso altre battaglie simili in tutto e per tutto, è dovuto a una mera questione di budget?

Comunque sia, il risultato finale di tutte queste dinamiche è frustrante, noioso, stancante e non spinge ad andare avanti, a mettersi alla prova e a giocare con trasporto. Il motore di Earthblood sembra non funzionante, incapace di attrarre, di portare avanti l’avventura, di offrire qualcosa in più al giocatore, di farsi giocare.

La narrativa: il peccato più grande

C’è tuttavia, in quest’edificio, una nota negativa finale che se possibile rende ancor più perplessi: Earthblood presenta una narrativa assolutamente non all’altezza di un gioco di ruolo, sia al livello di sceneggiatura che di messa in scena.

Per quanto la natura action-rpg del gioco non necessiti all’apparenza dello stesso apparato di storytelling di un Vampire: The Masquerade-Coteries of New York-in cui il ruolo della narrazione è ben più centrale-Earthblood presenta una storia sulla carta funzionale a immergersi nella lore e in grado di restituire in parte le atmosfere, ma sorretta da uno script e una direzione creativa sottotono.

Fra cutscenes statiche, che sembrano uscite da un gioco appartenente a un’altra generazione, e (soprattutto) dei dialoghi che non aiutano a caratterizzare i personaggi più del dovuto (e quindi a creare empatia), Werewolf incede stanco di missione in missione senza sorprendere e far venire voglia di continuare l’avventura.

E questo, in un gioco tratto dal brand che ha fatto conoscere al mondo il gdr di narrazione, è una sorta di peccato grave. Nessuno pretendeva che Earthblood adottasse la ricchezza di storytelling di un tripla-A, né che il suo apparato creativo scrivesse una pagina significativa in questo campo sorprendendo il giocatore, ma qui a mancare è l’incisività della storia, la capacità di attrarre anche minimamente l’attenzione.

E questo succede fin dalle prime battute, il momento in cui il giocatore dovrebbe essere preso e trascinato “senza pietà” nella vicenda.

Le scene d’azione sono spettacolari, ma davvero troppo ripetitive

A questo aggiungiamo altri due elementi.

Da un lato una soundtrack monotona e poco ispirata, non in grado di incidere e coinvolgere. Dall’altra, l’impressione di avere davanti, fra una missione e l’altra, un mondo di gioco esplorabile ma “piccolo” (ovvero il bosco in cui la tribù/branco vive), in cui tutte le location che incrociamo nel gioco (la nostra base e le locazioni nemiche) sono poco distanti le une dalle altre, come accadeva in giochi di generazioni fa, la cui tecnologia non permetteva l’adozione di mappe realisticamente grandi.

Il risultato per il giocatore odierno è un discreto danno alla sospensione dell’incredulità.

Werewolf: The Apocalypse: Earthblood è un videogioco che non riesce a sfruttare la ricchezza della lore del gioco di ruolo dal quale è tratto, proponendo un action/rpg ricco di idee obsolete e poco ispirate che restituiscono un gameplay noioso. Una caratteristica in parte figlia di un budget non enorme, certo, ma anche di una serie di scelte di game design che sembrano colpevolmente fuori tempo massimo e poco felici. Se a questo aggiungiamo un comparto artistico non incisivo, che propone uno storytelling non all’altezza di una licenza tratta da un brand gdr che ha praticamente fondato il gioco di ruolo di narrazione, allora l’impressione è quella di un gioco progettato con poca lungimiranza.

This post was published on 6 Febbraio 2021 17:00

Fabio Antinucci

30 anni (anagraficamente, in realtà molti di più) ha alle spalle esperienze come copywriter, redattore multimediale e critico cinematografico, letterario e fumettistico, laureato con una tesi triennale su Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan e una magistrale su From Hell di Alan Moore. Appassionato di letteratura horror e fantastica, divoratore di film di genere di pessima lega (ma ha nel cuore pezzi da novanta come Kubrick, Mann e Kurosawa), passa le sue giornate fra romanzi di Stephen King, graphic novel d’autore e fascicoletti di Batman. Scrive (male) da una vita, e ha pubblicato un romanzo breve (Cacciatori di morte) e due librigame (quelli della saga di Child Wood). Crede che il gioco sia una forma di creazione e libertà, capace di farti staccare la spina e al contempo di far riflettere, ragionare, commuoverti e socializzare. Per questo gioca di ruolo da dieci anni (in particolare a Sine Requie, D&D, Vampiri la Masquerade e Brass Age) per questo adora perdersi di fronte alla sua Play. È innamorato del videogioco grazie a Hideo Kojima e al primo Metal Gear Solid, al quale ha giurato amore eterno, ma col tempo ha imparato ad amare gli open-world, gli action-adventure, gli rpg all’occidentale, i punta e clicca, a una condizione: che raccontino una bella storia.

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