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Kingdoms of Amalur Re-Reckoning | Recensione PS4

Quella di Kingdoms of Amalur: Re-Reckoning è forse una delle riedizioni meno chiacchierate di questo 2020, anche considerato che è stata annunciata nel periodo meno ricco di novità dell’anno. Nel suo essere poco conosciuto, il videogioco di Ken Rolston (designer di Morrowind e Oblivion) è il classico esempio di prodotto che già all’uscita avrebbe meritato una maggiore esposizione mediatica, che invece, negli ultimi anni della scorsa generazione, gli è stata impietosamente sottratta dal ben più noto Skyrim, capace di monopolizzare tutta l’attenzione del pubblico su di sé.

Caduto nel dimenticatoio dei tanti RPG usciti a cavallo dei due decenni e incapaci di contrastare il dominio del gioco di Bethesda, forse anche per colpa di una Electronic Arts che – come da prassi per quegli anni, per usare un po’ di amara ironia – non ci aveva creduto abbastanza, Kingdoms of Amalur fa dunque il suo ritorno a più di otto anni di distanza, pronto a riportarci nelle spire del suo contorto mondo fantasy.

Se da un lato bisogna riconoscere la buona volontà di THQ Nordic, proprietaria del marchio, nel volerlo esporre all’attenzione di chi magari all’epoca l’aveva perso nei meandri di un backlog infinito, dall’altro, però, la sensazione che sia arrivato un po’ fuori tempo massimo è stata e continua ad essere piuttosto forte.

Un fantasy con tutti i crismi

Se rientrate fra coloro che lo snobbarono all’epoca o magari siete qui solo per caso e non sapete di cosa accidenti stiamo parlando, proviamo a spiegarvi per sommi capi di che si tratta. Ancor prima che dalle righe di codice partorite dallo sviluppo un po’ travagliato che ebbe all’epoca, Kingdoms of Amalur nasce dalla penna dell’italoamericano R. A. Salvatore, uno dei più noti autori di romanzi ambientati nei Forgotten Realms (a loro volta, famosissimo universo immaginario per il gioco di ruolo Dungeons & Dragons): egli si è occupato di creare l’intero background narrativo, pescando sì a piene mani dai suoi romanzi, ma al tempo stesso dando vita a un mondo del tutto originale ed ispirato.

Il gioco è ambientato ad Amalur, precisamente nel regno delle Faelands, così chiamate perché luogo natio dei Fae (una razza di Elfi immortali) e di tutta una serie di creature magiche, mostri e tribù di esseri umani, gnomi ed altri esseri tipici del bagaglio folkloristico a cui Salvatore si è ispirato e che, anzi, lui stesso ha contribuito ad ammodernare a partire dagli anni ’80.

Il giocatore interpreta un mortale noto come senzafato, perché, dopo essere morto – in circostanze che all’inizio non è dato sapere – è stato il primo della sua stirpe capace di risorgere attraverso il Pozzo delle anime, operazione che, in un mondo governato da potenti divinità, lo ha privato di ogni vincolo terreno, dandogli la possibilità di scegliere da solo il suo destino. Una premessa piuttosto classica, che si riflette anche nell’editor di creazione del personaggio (personalizzabile nell’aspetto e con bonus iniziali conferiti dalla razza e dalle affinità zodiacali) ed è comune a tanti nel suo genere, anche se non avara di qualche sorpresa nel corso dell’avventura.

Di per sé – e presto o tardi ve ne accorgerete da soli – la storia è molto ben scritta e rappresenta il principale pregio del pacchetto offerto, anche se ci mette un po’ a ingranare e a darvi la piena consapevolezza di quel che succede su scala generale: nelle prime fasi del gioco, infatti, avrete la sensazione di essere un po’ abbandonati a voi stessi, e dovrete superare uno scoglio abbastanza impervio per comprenderne appieno il funzionamento a livello strutturale.

Kingdoms of Amalur, in effetti, appartiene ancora a quel filone di giochi di ruolo “vecchio stampo” che Skyrim, a posteriori, ha reso piuttosto indigesti a una grossa fetta di pubblico, abituando tutti a una formula più immediata e “in pillole”. Il momento in cui inizierete ad apprezzarlo è lo stesso in cui arriverete, dopo diverse ore, a sbrogliare e a capire finalmente qualcosa della trama, la quale, a sua volta, non vi prende per mano, dandovi delle molliche di pane da seguire. Anzi, fa tutto l’opposto.

Old school… forse troppo old

Nel suo essere orgogliosamente vecchia scuola, va però detto che Kingdoms of Amalur ha resistito non benissimo allo scorrere del tempo, tratto, purtroppo, comune a molti videogiochi usciti a cavallo tra gli anni 2000 e 2010 e che, ludicamente parlando, puntavano più sulla quantità che sulla qualità. A livello di progressione, gestione delle quest e organizzazione generale dell’inventario e delle abilità, sembra di trovarsi di fronte a un vero e proprio gioco di ruolo da tavolo traslato 1:1 nella forma di un videogioco, senza alcuna ibridazione o elemento volto a rendere la formula nel suo complesso un po’ più digeribile.

Avrete a disposizione uno skill tree diviso in tre rami principali (Forza, Magia, Destrezza), strapieni di abilità attive e passive sbloccabili, nei quali sbizzarrirvi nel cercare la build più affine al vostro stile di gioco; in aggiunta, sono presenti i tradizionali “ruoli” che vi conferiscono ulteriori bonus in base al ramo che scegliete di privilegiare. Volendo è possibile scegliere degli stili ibridi, combinando magia e destrezza, destrezza e forza, forza e magia e finendo, in certi casi, per diventare un vero e proprio factotum.

Non mancano nemmeno i bonus temporanei, conferiti dagli shrine, e soprattutto i tratti (scasso, commercio, eloquenza, abilità nell’incantamento, ecc.), che confermano un’impostazione generale piuttosto tradizionalista e determinano le abilità del personaggio all’infuori del combattimento. Quest’ultimo, è impossibile nasconderlo, è l’elemento invecchiato peggio di tutta la produzione.

Il combat system di Kingdoms of Amalur fonde l’anima dei primi Elder Scrolls con una struttura generale quasi da hack&slash in terza persona, mutuata alla lontana dai primi God of War, con ben poca – purtroppo – della loro spettacolarità e prestanza scenica e visiva. Giocato oggi, Kingdoms of Amalur appare un RPG d’azione fin troppo semplicistico, con poca cura nel feedback restituito dai colpi inferti, una gestione del movimento, di attacchi e parate molto poco dinamica e un sistema di magie in larga parte superfluo (benché sempre ben visibile nell’interfaccia a schermo). Nel suo insieme, Re-Reckoning non riesce ad offrire un’esperienza paragonabile ad altri RPG più moderni, e va perciò saputo approcciare per quel che è; non è nemmeno possibile giustificarne il relativo piattume con una maggior attenzione riposta nelle componenti tattiche e strategiche dello scontro, elementi che, anzi, già all’epoca erano stati parecchio sacrificati in favore di una – solo presunta – immediatezza.

La modalità giudizio, vera e propria ultimate legata a una terza barra alternativa a quelle di salute e mana, non è poi andata incontro ad alcun rimaneggiamento e rimane – oggi come allora – del tutto opzionale, inserita giusto per fare un po’ di scena. La sua unica, reale utilità pratica sta nell’avere a disposizione, di tanto in tanto, una sorta di jolly a livello combattivo, utile ad abbattere qualche nemico più coriaceo del solito.

Il troppo stroppia… forse

L’inclusione delle espansioni The Legend of Dead Kel e Teeth of Naros , se non altro, è un elemento positivo, che permette di consigliare Re-Reckoning anche a chi all’epoca le aveva mancate e aggiunge ulteriori cose da fare a un monte ore già di per sé elevatissimo, capace di superare in scioltezza le 45-50. Peccato, però, che nell’includere ogni contenuto aggiuntivo gli sviluppatori si siano in parte “dimenticati” di rivedere il bilanciamento.

Il buon sistema legato alla progressione, infatti, viene minato fin dalle sue basi dalla presenza dei set di armi e armature legati ai DLC (di rarità epica e leggendaria) in un baule nella prima città: ciò, a conti fatti, consente di equipaggiare il personaggio con oggetti dotati di effetti quasi da fine gioco, o comunque paragonabili ad equip di livello più alto, già nelle prime fasi. Se all’epoca dell’uscita originale il problema era mitigato dal fatto che i suddetti contenuti fossero a pagamento, qui si presenta in tutta la sua evidenza. Dopo tre o quattro ore saremo già equipaggiati di tutto punto con armi e armature dagli effetti devastanti (se ben gestiti e buildati) che, anche se di basso livello, sono in teoria capaci, per quasi metà dell’avventura, di rendere in buona parte accessori l’esplorazione dei dungeon secondari – che pure sono tantissimi e anche ben caratterizzati sotto il profilo visivo – e il sistema di crafting legato alle forge presenti nelle città, che imparerete a sfruttare per bene solo dopo molto tempo.

Tutto ciò, per essere ancora più chiari, si lega anche al modo in cui il gioco vi permette di gestire l’avanzamento del personaggio, talmente libero e personalizzabile da poter essere facilmente “bucato”. È sufficiente, nel corso delle prime ore, trovare armi con buoni effetti (e quelle dei DLC ne hanno) per poi costruirci attorno la build che vi pare, puntando tutto sul danno elementale (potrete raggiungere moltiplicatori assurdi in tal senso) e sulle abilità più appropriate nel ramo giusto. In questo modo è possibile “ingannare” il sistema e fargli credere di avere un’arma molto più potente di quella che avete in realtà (a patto, ripetiamo, che abbia perk di base decenti).

Si tratta di una “falla” non da poco in un videogioco in cui – almeno in teoria – l’esperienza ruolistica dovrebbe essere – e di base lo è, attenzione – soddisfacente e appagante. Il consiglio, dunque, è di sbarazzarvi non appena potete dei set leggendari iniziali e affidarvi più al caso, in modo da vivere fin da subito un’esperienza molto più bilanciata ed approfondire come si deve certe meccaniche.

L’opzione migliore in termini di approccio, senza troppi giri di parole, è quella di concentrarsi sulla narrativa e cercare di mettere in secondo piano tutto il resto, avvicinandosi a Kingdoms of Amalur quasi come se fosse un clone di Fable, privato però in gran parte dei suoi elementi da sim game (appena abbozzati grazie ad una delle due espansioni, che consente di comprare e personalizzare un’intera tenuta).

Le incongruenze legate al bilanciamento, comunque, non mortificano il buon lavoro svolto sull’estesissima mappa delle Faelands, una location davvero enorme e navigabile attraverso due comodi menu, uno per quella locale e uno per l’intera cartina del mondo, sul quale è possibile il viaggio rapido verso gli insediamenti già scoperti.
Man mano che proseguirete tra una cittadina e l’altra vi accorgerete di quanto, nel bene e nel male, Kingdoms of Amalur rimanga fedele a sé stesso e alla “tradizione”, senza scostarsi di un millimetro: in ogni area avrete a disposizione una missione principale e qualche missione secondaria (alcune ben scritte e orchestrate, la gran parte tranquillamente ignorabili) che vi porteranno quasi tutte ad esplorare e completare i già menzionati dungeon (ispirati visivamente ma piuttosto basilari a livello di design) e di tanto in tanto ad affrontare alcune boss fight. Queste ultime, alla fin fine, non sono nemmeno troppo differenti dai normali scontri e non richiedono chissà quali strategie, se non una generale accortezza nell’evitare di morire: col tempo, quasi meccanicamente, imparerete ad approcciarle quasi sempre allo stesso modo, con poche variazioni nel design.

A tutto ciò su lega qualche considerazione sulle quattro difficoltà presenti (una delle quali inedita): il livello normale, quello di default, ci è parso un po’ troppo semplice, ragion per cui il nostro consiglio è di iniziare direttamente in hard. Intendiamoci, così facendo non avrete miglioramenti sostanziali nei combattimenti, ma se non altro sarete spinti ad utilizzare in maniera un po’ più incisiva il sistema legato a pozioni, incantamenti e potenziamenti temporanei che pure il gioco offre, senza però fare granché per metterlo in evidenza.

Il vero problema, nell’economia di gioco, sta nel fatto che nessun elemento apparentemente “secondario” – ma essenziale in termini di qualità della vita – è stato ripensato. Intendiamoci, non che pretendessimo nuovi minigiochi di scasso, incantamento e via dicendo – quelli presenti sono ormai sorpassati dal punto di vista creativo – ma almeno si sarebbe potuto per esempio fornire al giocatore un mercante itinerante utile a svuotare l’inventario, anch’esso concettualmente vecchio e legato agli slot e non al peso. Così, purtroppo, non è: ogni volta dovrete tornare nella città più vicina, sorbendovi caricamenti troppo lunghi per gli standard di una versione remastered, anche per entrare o uscire da un semplice negozio. Tutto ciò, seppur in maniera indiretta, va in parte a toccare anche l’ottima narrativa del gioco, ancorandola a una struttura fin troppo tradizionale e che non permette di superare agilmente elementi ormai percepiti come “vecchi” per concentrarsi su quanto di buono, fra una piega e l’altra, Kingdoms of Amalur riesce comunque ad offrire.

Il rischio, se non siete giocatori navigati e avvezzi a questo genere di esperienze, è che l’impasto ludico – nel suo insieme – vi venga presto a noia, ragion per cui – a costo di essere ripetitivi – preferiamo avvisarvi sin da subito.

Quando estetica e tecnica non vanno troppo d’accordo

Analizzando al microscopio questo Re-Reckoning, da noi giocato su PlayStation 4 Pro, abbiamo presto capito di trovarci davanti a una riedizione che si è limitata a fare il classico compitino, spingendo (come tante altre) unicamente su risoluzione, frame rate e anti-aliasing, senza interventi più marcati.

Pur abbastanza ispirato dal punto di vista visivo e capace di offrire una vera e propria panoramica a volo d’uccello su un intero genere letterario, Kingdoms of Amalur era già all’epoca un videogioco piuttosto semplicistico in termini tecnici, tra una modellazione e una densità poligonale non irresistibili e una limitata quantità di effetti ed altri ammennicoli visivi. Non stupisce, dunque, che le console mid-gen riescano a spingersi fino al 4K e 60 FPS (1080p 60 su quelle standard), che rimangono sempre piuttosto stabili, con qualche impercettibile e perdonabile calo su PS4 Pro.

Il mixaggio dell’audio soffre ancora di qualche problema, con alcuni suoni che vengono riprodotti a volume notevolmente più alto del normale (problema ancor più evidente se in casa avete un impianto home theater). Da segnalare anche che nel corso della nostra prova siamo incappati in qualche crash, con annessa schermata blu di PS4: nulla di drammatico, ma problemi minori tranquillamente risolvibili con un update nel giorno di lancio.

Una cosa, tralasciando qualche pelo nell’uovo, è certa: grazie anche alla sua direzione artistica, abbastanza stilizzata sotto certi aspetti, a livello estetico il gioco è invecchiato molto meglio di quanto non abbia fatto sotto il profilo ludico, e, per quanto passato attraverso un lavoro di ripulitura non eccelso, riesce a dire la sua anche oggi. Lo stesso vale per il doppiaggio – che all’epoca, nel genere, era qualitativamente sopra la media – e soprattutto per le musiche, composte da un sempre ispiratissimo Grant Kirkhope.

This post was published on 7 Settembre 2020 17:00

Marco Piccirilli

Sono nato nello scorso millennio (nel 1992) e ho tenuto stretta una console fra le mani per la prima volta a 3 anni (un Game Boy). Da allora è stato amore a prima vista, e non me ne sono staccato più, passando attraverso diverse ere videoludiche. Amo talmente tanto Blade Runner che chi mi guarda fisso può quasi vedermi vivere un sogno ad occhi aperti: personalmente amo definirmi un Donnie Darko intrappolato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019. Fortunatamente ogni tanto ne esco, anche solo per poter condividere con il mondo intero le mie più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero), Dylan Dog, la musica shoegaze, il cyberpunk e la cucina.

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