Ormai in redazione lo sanno tutti: in genere adoro i videogame di ruolo ma non sono un appassionato di open world. Non è un fattore che mi fa gridare al miracolo quando esce un titolo caratterizzato da una struttura di questo tipo, insomma.
Con The Witcher 3: Wild Hunt sono stato costretto a ricredermi, e chi mi legge qui su Player sa quanto un evento del genere sia, per il sottoscritto, ben accetto e allo stesso tempo decisamente irritante.
Il terzo capitolo della saga videoludica di Geralt di Rivia, strigo per professione e coatto per vocazione, rappresenta per molti una delle rare perle di questo decennio, mentre per una ridotta ma rumorosa minoranza di giocatori si tratta dell’ennesimo caso di hype deluso.
Qual è la verità? Sta nel mezzo, o il baricentro è spostato da una parte o dall’altra? Vediamolo insieme.
La saga di The Witcher trae ispirazione dai romanzi di Andrzej Sapkowski, e per questo motivo mi sembra corretto iniziare la nostra analisi proprio dalla gestione della trama, dall’intreccio e, in sostanza, dagli aspetti narrativi di questo titolo.
Premetto che, a differenza di The Witcher 2, in questo terzo capitolo della serie non ci ritroviamo immediatamente proiettati nella storia principale: anche dopo centinaia di ore di gioco la presenza del railroading degli sviluppatori non si sente affatto.
Le quest secondarie, gli incontri casuali e i momenti di lore sono curati tanto quanto la main quest, se non addirittura di più: il voice acting di alcuni personaggi secondari risulta ancor più azzeccato di un paio dei protagonisti della storia, e il mix è in grado di mantenere alta la sospensione dell’incredulità praticamente per tutta l’esperienza videoludica.
Basta uscire un attimo dal sentiero, inoltre, per ritrovarsi in un sottobosco di lore squisitamente sviluppata, ma soprattutto di scelte e ramificazioni inaspettate, in grado di deliziare gran parte dei fanatici del gioco di ruolo.
E se ve lo dice un completionist pedante e compulsivo come il sottoscritto, con circa 250 ore all’attivo su questo titolo, in genere potete fidarvi.
Come già accennato, per me il più grande punto di forza di The Witcher 3 è la sinergia che si viene a creare fra la trama principale, che per buona parte del gioco vede Geralt alla disperata ricerca della figlioccia Ciri, e l’ambientazione che, oltre a fare da sfondo alle (dis)avventure dello strigo più amato dagli Italiani, va a differenziarsi grandemente di regione in regione.
In groppa allo malo caballo Aquilante alla fida Roach / Rutilia, o magari con pochi minuti di corsa, possiamo spaziare da una terra martoriata dalla guerra, intrisa di sangue e appestata dal puzzo di decomposizione di fanti e cavalli fusi insieme nella morte, fino a una landa paludosa che viene dritta dritta dalla tradizione fiabesca dei Fratelli Grimm.
D’altronde il sostrato fantasy è quello del folklore dell’Europa orientale, di cui abbiamo parlato a lungo in un apposito articolo della rubrica mitologica della Tana dell’Orso, quindi non serve che torniamo a ripeterci. No?
Se poi prendiamo in considerazione anche gli spostamenti via mare, o i viaggi medio-lunghi sbrigati con una cutscene, la tavolozza dei paesaggi e delle ambientazioni si allarga drasticamente: dai pianeti alieni ai fiordi scandinavi, dai deserti sabbiosi di una dimensione alternativa fino ai ghiacci sconfinati di quello che, in sostanza, è il Fimbulvetr che precede il Ragnarok norreno.
Uno degli aspetti che più mi piace di The Witcher 3 è che il gioco punta sul coinvolgimento emotivo, più che sull’effetto wow: non ci sono colpi di scena ogni 15 minuti, né capovolgimenti sorprendenti del punto di vista iniziale.
Da una parte abbiamo un concetto di moralità che è sempre sui toni del grigio, ed è praticamente sempre assente la netta divisione tra bianco e nero, buoni e malvagi, eroi e cattivi. Dall’altra ci sono delle occasioni in cui veniamo a scoprire che il Big Bad Evil Guy di turno non è poi così bad né così evil, e che forse non ha proprio tutti i torti.
Queste occasioni, però, non sono buttate lì tanto per l’effetto edgy o per rimpolpare una caratterizzazione misera, come invece ho riscontrato in altri titoli. Quando questo capita in The Witcher 3, è perché la storia è stata scritta per stabilire, ribadire e rinforzare a ogni piè sospinto che la vita è molto più complicata del fiabesco scontro Bene VS Male, e The Witcher 3 non è quel tipo di fiaba.
Se durante il gioco non incontrassimo, con una regolarità che fa pensare a una precisa volontà autoriale, dei momenti buffi o tragicomici, l’esperienza di The Witcher 3 potrebbe risultare deprimente, grama, bleak.
Che si tratti di dover scortare una capra VIP o di dover recuperare la padella preferita di una simpatica vecchina, queste parentesi alleggeriscono il peso esistenziale che, mi piace pensare, caratterizza le narrazioni dell’Europa dell’Est.
Non riesco ancora a dimenticare il male di vivere squisitamente instillatomi dalla lettura del Ciclo dei Guardiani del kazako-russo Sergej Luk’janenko, ancora più volutamente sconfortante di quella del polacco Sapkowski, autore dei romanzi di The Witcher.
Quei momenti alzano per un momento la cappa di miseria che grava sulla regione del Velen, ad esempio, ma è proprio in quei passaggi che i dialoghi e la narrazione brillano ancora di più: c’è sempre un retrogusto agrodolce, un colpo di coda che alla fine ci riporta nella versione fantasy del Basso Medioevo dell’Europa Centro-Settentrionale.
La cappa di miseria, invece, colpisce me come giocatore quando mi trovo costretto a grindare per ore, invece di proseguire con l’avventura. Avere di dozzine di punti interrogativi sulla mappa, cioè punti inesplorati da Geralt, in genere mi provoca un tale digrignamento che non c’è bite anti-bruxismo che tenga.
DEVO pulire la mappa. DEVO esplorare tutto. DEVO finire tutte le sotto-quest terziarie, più che secondarie, e in un ordine tale da permettermi di avere il massimo dei vantaggi dal punto di vista della storia, o anche dell’equipaggiamento.
Questa mia personale croce come si traduce in The Witcher 3? In un crescendo di nevrosi e frustrazione che, da un nido di nekker all’altro, esplode nel culmine della fase acuta quando mi ritrovo a improvvisarmi skipper di Luna Rossa così da poter completare tutti i Point of Interest al largo delle Isole Skellige.
Il problema, quindi, non sono le fetch quest e il “va’ lì e ammazza dodici cinghiali arpie“, ma il grinding nell’esplorazione. Moltissimi di quei Point of Interest, inoltre, alla fine non sono altro che barili con 20 monete e qualche ingrediente, e magari ci abbiamo messo dieci minuti per raggiungere quello specifico barile.
Send help.
Certo, in alcuni punti perfino Geralt si lamenta di questo voler allungare il brodo a tutti i costi, oltretutto in modo assolutamente superfluo: le cose da fare in The Witcher 3 sono talmente numerose, e le potenziali ore di gioco così tante, che sarebbe stato più che possibile evitare questo contorno e avere ugualmente un prodotto longevo, coinvolgente e ricco di attività per il giocatore.
Un aspetto importante di una saga arrivata al terzo capitolo, come appunto quella di The Witcher, è la coerenza interna. Lo sviluppo di personaggi che restino fedeli a sé stessi attraverso i tre volumi della storia, nonché un avanzamento della narrazione che sia congruente e privo di contraddizioni, sono elementi imprescindibili affinché il giocatore percepisca la presenza di fondamenta salde alla base dell’edificio-saga.
Quello che finora, in sostanza, è il magnum opus di CD Projekt Red, riesce sì nell’impresa, ma a fasi alterne. Basti pensare alla figura di Triss Merigold, che in The Witcher 2 testimonia nel Summit a Loc Muinne, di fatto accusando la sua collega Philippa Eilhart, ma in The Witcher 3 prende malissimo la partecipazione di Geralt alla caccia alle streghe a Philippa indetta da quel mattacchione di Radovid.
Su Reddit sono in molti a domandarsi quanto sia furbo aprire un esercizio commerciale, a proprio nome, nella stessa città in cui un paio di giorni prima si era stati condannati a morte. Ebbene, Ranuncolo / Dandelion fa proprio questo: dopo essere stato salvato da Geralt per il rotto della cuffia, acquisisce un locale a due passi da dove stava per essere accoppato, e lo ristruttura in base ai propri gusti e a quelli del giocatore, senza nemmeno avere l’accortezza di modificare il proprio nome.
Tra le inconsistenze geografiche, invece, mi piace ricordare il fiume Pontar: un punto di riferimento di una certa importanza, che dovrebbe essere navigabile almeno nel tratto tra Oxenfurt e Novigrad, non da barchette ma da navi come quella di Re Radovid -come viene narrato nel gioco stesso-, e invece in molti punti è talmente stretto, paludoso e poco profondo da poter essere guadato a piedi senza nemmeno bagnarsi le ginocchia.
Per il resto, va detto, le decisioni nei capitoli precedenti hanno varie ripercussioni in questo terzo capitolo: personaggi più o meno secondari potranno tornare ad avere a che fare con Geralt, in positivo o in negativo, offrendogli side-quest piuttosto succose, oppure fornendogli un aiuto di qualche genere, o addirittura, in alcuni casi, influendo anche sul finale della storia.
Su un versante abbiamo il tema primario, quello della spasmodica ricerca di Ciri; ogni contratto, ogni favore, ogni cazzotto, piroetta e sgualembro di spada a una mano e mezza portato a termine da Geralt, in sostanza, è un gradino in più lungo l’interminabile scala che lo porterà, forse, a riabbracciare la sua protégée dai capelli del colore della cenere.
La storia mantiene bene il suo ritmo narrativo, non annoia e raramente risulta scontata. Il problema, se vogliamo, è che lungo la strada Geralt -e quindi il giocatore- si smarrisce dozzine di volte: si distrae, viene attratto da una sotto-quest che magari risulta ancora più interessante di quella principale, oppure dalla ricerca di informazione per sciogliere una terribile maledizione in perfetto stile Witcher, o naturalmente dall’inevitabile partita a Gwent con un ignaro locandiere.
Non si tratta solo delle solite fetch quest: se dopo qualche giorno torniamo nell’area dove abbiamo aiutato un artigiano a recuperare i suoi strumenti di lavoro, finiti chissà come nella tana di un mostro, vedremo che anche le più piccole azioni hanno un effetto sulle dinamiche sociali ed economiche di quello sperduto villaggio. Conseguenze spesso impreviste che, a volte, ci potranno sorprendere in un senso o nell’altro.
Questa selva di attività secondarie che, in fondo, ci ritroviamo a dover attraversare per poter ritrovare la via principale, per quanto mi riguarda è un pregio e non un difetto.
La main quest in sé è piuttosto lineare: si va dal punto A al punto B, da lì al punto C e così via; non ci sono particolari ramificazioni, e i finali dipendono dall’atteggiamento di Geralt e da due o tre scelte chiave, più che dal branching della storia.
Per me è giusto così: non è corretto, secondo la mia opinione di accanito videogiocatore, sacrificare la coerenza narrativa -e lo stile, se vogliamo- in nome di un’infinita rigiocabilità.
Tanto più che The Witcher 3, come vedremo tra un istante, non ha bisogno di questi trucchetti per offrire un’esperienza diversa a ogni partita.
Nella mia prima run, come di consueto, ho iniziato a giocare Geralt come uno spadaccino provetto; a un certo punto, però, devo essere stato posseduto dallo Spirito dei Natali capitoli precedenti, perché mi sono gettato a capofitto sull’alchimia: Geralt è diventato una macchina da guerra sotto pesanti metamfetamine da guerra.
Nel corso della seconda partita è stato il turno di una build improntata all’uso dei Segni, cioè della magia elementale rivisitata in chiave Witcher: tra Quen, Aard, Igni e Yrden, con l’occasionale uso strategico di Axii, la maestria schermistica di Geralt è passata in secondo piano.
È invece tornata alla ribalta nella terza run, in cui sono tornato al piano originario e mi sono concentrato sulle piroette e sulle giravolte, coadiuvate da un accorto utilizzo difensivo del segno Quen.
E così via. Le giocate sono state diverse, al punto che il numero di ore complessive accumulate su questo titolo in particolare, e sulla saga di The Witcher in generale, ha superato abbondantemente il livello socialmente accettabile. E ora vedremo anche il perché.
Uno dei maggiori punti di forza di The Witcher 3 comprende, senz’alcun dubbio, i suoi DLC. Perle del panorama videoludico come Hearts of Stone e ancora di più, almeno per quanto riguarda, Blood & Wine.
Il primo pone l’accento sulle sfumature del male e sul pericolo intrinseco di stringere un patto diabolico, ma ci porta in paesaggi onirici e surreali, e perfino in un banchetto di nozze, farcito con alcune tra le scene più divertenti e meglio realizzate della serie.
Il secondo, invece, calca ulteriormente la mano sul concetto della natura mostruosa. Fin dal primo capitolo della saga il nostro Geralt si interroga costantemente sul mostro che alberga nel cuore di alcuni umani e sullo spirito nobile di alcuni mostri; in questo DLC, in particolare, la riflessione filosofica diventa una necessità, visto che ci troviamo faccia a faccia con dei veri e propri vampiri superiori, e con alcune care, vecchie conoscenze.
Non serve che ne parli oltre: trovate qui la nostra recensione del DLC Blood & Wine, uno tra i più amati dell’intera serie, mentre qui c’è la recensione di Hearts of Stone, che oltre a una narrazione potente introduce anche delle novità nel sistema di crafting, con ulteriori potenziamenti per il nostro Strigo preferito.
Un mio personalissimo pet peeve: in alcuni giochi capita di visitare una biblioteca, leggere diversi volumi, e una volta usciti ne sappiamo esattamente quanto prima: non abbiamo imparato nulla, né come personaggi né come giocatori.
Non è così in The Witcher 3: oltre a un’immane mole di lore, che risale addirittura alle ere ancestrali, il nostro Geralt può imbattersi in libri che gli fanno scoprire informazioni preziosissime: punti deboli delle creature che potrebbe trovarsi ad affrontare, ricette alchemiche, diagrammi per il crafting, consuetudini sociali, intrallazzi politici e molto altro ancora.
Queste informazioni risultano cruciali in un sistema di combattimento real-time, senza turni: usare un Segno al posto di un altro può fare la differenza tra la vita e la morte, in alcuni combattimenti con creature particolarmente potenti, come i Leshen o gli Elementali.
Già, perché il sistema magico dei Segni è stato modificato sostanzialmente rispetto ai capitoli precedenti, e non mi riferisco soltanto all’assenza dell‘Eliotropo sbloccabile in The Witcher 2. Nel terzo capitolo queste mini-spell acquisiscono una modalità alternativa di casting, che modifica il comportamento dei Segni e ne aumenta notevolmente la versatilità.
Igni diventa un lanciafiamme, ad esempio, mentre Aard genera un’onda d’urto a 360°, in grado di mandare a gambe all’aria tutti gli avversari che ci circondano. Il mio preferito resta però il Quen alternativo: una bolla che ci circonda, e che può addirittura ripristinare la salute di Geralt quando i nemici cercano di pestarci. Mi ha salvato la pellaccia parecchie volte, credetemi.
Con la giusta build ibrida, infine, possiamo perfino deviare i dardi scoccati da archi e balestre, per quel feeling da Jedi che non guasta mai, per poi far saltare un po’ di arti mozzati nelle immediate vicinanze dello Strigo volteggiante.
Il sistema di crafting è piuttosto riuscito: i potenziamenti dobbiamo sudarceli, perché prima vanno cercati in giro per la mappa, e poi bisogna craftarli usando ingredienti rari, che possiamo procurarsi cacciando, commerciando e affettando mostri e -a volte- umani di pessima natura.
La stessa caccia ai diagrammi dell’equipaggiamento da Strigo delle varie scuole, devo dire, è divertente già di per sé: bisogna indagare sulle sorti di alcuni nostri colleghi del passato, seguirne a ritroso le tracce e recuperarne gli averi, così da custodire i segreti dei Witcher e, nel contempo, potenziare il nostro Geralt nello stile che abbiamo scelto.
Le armature e le armi di ciascuna Scuola dei Witcher, una volta craftate ed equipaggiate, ci conferiscono dei set bonus che entrano in sinergia con uno stile di gioco o con l’altro.
Un Geralt agile e veloce, in perfetto stile assassino, preferirà un set della Scuola del Gatto, mentre uno Strigo del Nord, invece, più avvezzo al combattimento old school e alle armature pesanti, si troverà a suo agio con un bel set dell’Orso, il mio preferito; allo stesso modo una build basata sui Segni avrà bisogno dell’equipaggiamento della Scuola del Grifone, e così via, includendo i set della Manticora, del Lupo, della Vipera, eccetera.
In questo terzo capitolo della saga c’è qualcosa per tutti: dalle varie scelte disponibili nei dialoghi, per gli appassionati di videogame di ruolo, fino al min-maxing spinto per gli ottimizzatori incalliti, passando per gli amanti dell’esplorazione e della fotografia videoludica: alcuni degli screenshot di gioco sono parte integrante degli sfondi che alterno periodicamente sul mio desktop.
Come abbiamo già ricordato, non manca un vasto repertoire mitologico che, insieme alla serie TV American Gods, tratta dai romanzi di Neil Gaiman, ha contribuito a portare alla ribalta il folklore e la mitologia delle lande slave.
Un comparto tecnico più che apprezzabile, una colonna sonora stratosferica che spesso mi trovo ad ascoltare separatamente, nonché il REDengine, lo stesso motore utilizzato per The Witcher 2 e sviluppato proprio dalla stessa CD Projekt RED, contribuiscono a portare sui nostri schermi un’esperienza videoludica indimenticabile, che attualmente, a cinque anni dal rilascio, costituisce ancora lo standard di riferimento con cui si confrontano i videogame story-driven, che ci piaccia o no.
Anche essendo gigantesco e a tratti spaventosamente soverchiante, l’ambiente open world di The Witcher 3 è quanto di più soddisfacente ci sia da esplorare: paesaggi autentici e soprattutto vivi, dalle paludi alle città medievali, dalle foreste ai fiordi scandinavi, con un’alternanza giorno / notte in grado di trasformare drasticamente un paesaggio, a seconda dell’ora della giornata in cui ci troviamo a visitarlo.
Il sistema dinamico per la gestione del tempo atmosferico, purtroppo per lo Strigo ma fortunatamente per i nostri screenshot, sembra avercela a morte con Geralt.
Looks like rain.
Wind’s howling.
A storm, dammit!
A parte le previsioni del tempo, i bug presenti al lancio hanno nutrito una generazione di meme, anche se personalmente non ho mai trovato Rutilia / Roach incastrata nelle texture o bloccata su un tetto; l’ampia scelta di mod, inoltre, aiuta a personalizzare l’esperienza di gioco, fino a toccare vette che, per quanto mi riguarda, non vedevo da troppi anni.
Naturalmente qui troverete dei leggeri spoiler, ma cercherò comunque di evitare i dettagli che potrebbero rovinarvi l’esperienza di gioco.
La mia personalissima Top 5 dei momenti di The Witcher 3:
Mentre aspettiamo un futuro quarto capitolo, possiamo dedicarci alla visione della serie TV di The Witcher su Netflix, o affrontare la lettura dell’omonima saga letteraria di Andrzej Sapkowski, con cui CD Projekt RED ha avuto qualche screzio, ora risolto.
Gli appassionati di gioco di ruolo potrebbero trovare utile la nostra guida per il GdR di The Witcher, ma se invece preferite giocare Geralt di Rivia in D&D 5E, ecco la nostra build testata e collaudata per voi.
>>Leggi anche: la guida ai finali di The Witcher 3<<
This post was published on 27 Maggio 2020 9:00
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