Per un pazzo alla ricerca di adrenalina come il sottoscritto, un tema del genere ha il potere di risvegliarmi dal torpore videoludico in cui sprofondo di tanto in tanto.
Spolvero subito il VR della PS4 (diciamoci la verità, al momento rimane un acquisto mai sfruttato appieno) e mi lancio nell’esperienza da incubo che solo Blind può farti vivere.
Mi trovo da subito avvolto da una sensazione che accompagnerà gran parte della mia avventura: disagio. E non parlo di quel senso di inadeguatezza che provo quando mi trovo in luoghi più affollati del bagno di casa mia, ma di una permeante situazione di incapacità. Mi sento in qualche modo un peso addosso. Il peso della cecità.
Le attività più semplici di esplorazione e interazione risultano essere scomode e difficili. Non si tratta di un problema tecnico del gioco; il motore 3D funziona decisamente meglio di altri giochi più famosi, ma perché l’unico modo di “vedere” qualcosa è il suono.
Avete capito bene. Per il personaggio, diventato misteriosamente incapace di vedere, una fonte di suono diventa una fonte di luce. Le stanze vengono illuminate in un delicato bianco e nero a seconda dell’intensità, della durata del suono e della fonte dello stesso. Fievole e intermittente se un carillon suona una lenta melodia, forte e localizzata se si tratta di una voce di una radio, traumatica se si tratta di un tuono (rivoglio le mie coronarie perse, grazie).
Con il tempo, per mia fortuna, imparo a sopravvivere portando con me oggetti da lanciare all’occorrenza. Prendo confidenza con i comandi. E tutto sembra risolversi definitivamente quando ricevo un bastone per non vedenti dal Guardiano, l’unica altra persona vivente che è presente in questo luogo. Si tratta di un misterioso individuo dal volto irriconoscibile che inizialmente ci aiuta, ma che col tempo si rivela essere il nostro carceriere.
A questo punto i presupposti per un vero capolavoro ci sono tutti. Il tema è originalissimo (esplorato solo minimamente in passato e mai sul VR), il motore di gioco non dà particolari nausee anche grazie all’assenza di colori, il comparto suoni è essenziale.
Come detto, grazie alla confidenza acquisita, mi immergo completamente nella storia di Jean. La protagonista si muove alla ricerca del fratello minore di cui ha perso le tracce dopo l’incidente senza ottenere particolari risultati. Finisce, viceversa, per scoprire che questa enorme abitazione nasconde una serie di luoghi familiari. Ed è lì che si risvegliano importanti flashback relativi al suo passato e a quello della sua famiglia.
Proseguendo con la partita la storia si fa sempre più chiara e intrigante. La narrazione si approfondisce sempre più quello che è il passato del nostro personaggio, fino a scavare a profondità mai viste. Non posso entrare nel dettaglio per non rovinarvi di poterne godere appieno, ma posso garantire che ne “vedrete” delle belle.
Ed ecco una delle poche cose che mi ha fatto storcere un pochino il naso.
L’esplorazione del luogo non è libera, ma vincolata alla risoluzione di vari enigmi che ci forniscono un modo per sbloccare via via aree della casa. Questo lato, inizialmente leggero e intrigante, diventa in alcune situazioni un ostacolo forzato al filo narrativo del gioco.
La critica che mi sento di muovere, comunque, non si riferisce alla totalità degli enigmi. Una buona fetta di questi ha un suo significato e una valenza importante nel flusso narrativo di flashback (e questo esalta un feticista della coerenza come me), altri, però, risultano interessanti da un punto di vista tecnico (risolvibili ad esempio alla nostra capacità di vedere i suoni), ma non particolarmente legati alla storia.
Per fortuna, se escludiamo quella simpatica situazione in cui ho lanciato gli elementi chiave dell’enigma in giro per la stanza senza poi essere in grado di ritrovarli tutti, in un modo o nell’altro si riescono a risolvere in modo agevole e non frustrante.
Gli ingredienti come detto ci sono tutti. E bisogna ammettere che il dosaggio è quello giusto. Nell’esatto istante in cui una situazione inizia a farsi un po’ ripetitiva il gioco cambia tema evolvendo in meglio. Quando impariamo a gestire il bastone senza assordarci, ecco che ci viene tolto. Quando impariamo a lanciare e riprendere oggetti, ecco che diventa necessario rimanere in silenzio per non rischiare la vita. Ed ecco come alla fine io mi sia trovato a spegnere la console a notte fonda (ma ormai al buio ero abituato) con il gioco terminato dopo circa quattro ore di gameplay.
Blind è stata un’esperienza. Personalmente la migliore mai vissuta col VR. E come tutte le esperienze finirà per essere archiviata e trasmessa, ma difficilmente verrà mai ripetuta. Perché, diciamocelo onestamente, la storia è il punto focale. Una volta fatta luce sul mistero, il gioco non ha più molto da offrire. Sono certo che potrete divertirvi molto anche voi, ma ricordate: se siete quel in cerca di sfide alla Dark Souls, situazioni al cardiopalma o jumpscare improvvisi, non troverete nulla di tutto ciò.
Inutile mentire. Blind è un gioco sviluppato dalla Tiny Bull Studios. Un’azienda italiana con sede nella mia città. Mi sono appassionato molto a questo prodotto anche prima di avere occasione di provarlo e avrei comunque avuto parole gentili anche se si fosse rivelato deludente. Non per campanilismo, ma perché l’analisi di un prodotto deve comunque tenere un minimo conto di quali sono i mezzi di chi lo produce e del rapporto finale qualità prezzo.
La verità, per mia fortuna, è che posso fare onestamente il mio lavoro da recensore perché Blind è davvero un qualcosa che non può mancare nella vostra collezione di giochi. Non posso dirvi di comprare un VR apposta per giocarlo, ma posso dirvi che se avete un VR dovete acquistare questo gioco che, al momento in cui scrivo, è acquistabile in versione digitale sullo store ad un prezzo inferiore a quel che costerebbe un biglietto per il cinema 3D, ma qui il film lo vivete da protagonisti.
Ringrazio sentitamente Matteo Lana e i ragazzi di Tiny Bull Studios per la grande disponibilità e il supporto fornito a player.it
This post was published on 8 Gennaio 2019 14:04
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