Sulle ali di un primo semestre Switch che solo i sognatori avrebbero potuto immaginare così strabiliante, Nintendo si presenta all’esame Super Mario Odyssey con la briosa disinvoltura di chi non ha solo studiato, ma ha scritto il libro di testo. E il risultato è di quelli che azzera la concorrenza. In fondo lo sapevamo già: la cariolata di premi collezionati agli ultimi E3 e Gamescom, oltre che le varie anteprime e l’eccellente campagna di promozione lasciavano pochi dubbi a riguardo.
Se quindi state leggendo questa recensione solo per decidere se acquistare o no il titolo, il vostro Grifone vi benedice e vi spinge caldamente ad accaparrarvi Super Mario Odyssey. Se invece siete dei geek malefici come me e non vedete l’ora di iniziare epiche sessioni di dibattiti e approfondimenti che giusto la buonanima di Aldo Biscardi avrebbe saputo moderare, allora aprite occhi e orecchie perché se si parla di un nuovo Mario io divento matto. Da anni, matto.
Vale la pena partire dai titoli di coda. È una strana sensazione quella che ho avvertito poggiando i joy–con al termine di una campagna single–player fra le più strabilianti e immersive che la mia ormai pluriventennale militanza nerd possa annoverare, periodo in cui fra l’altro questo Odyssey è solo l’ennesimo titolo tripla–A di Mario che ho avuto la fortuna di seguire dall’annuncio fino al debutto sugli scaffali (questa volta in realtà anche prima).
Una strana sensazione che chiaramente non può non essere figlia di ricordi e hype nostalgico cucinato a puntino, ma che scommetto sarà ugualmente condivisa anche dalle giovani leve, soprattutto da chi ha cavalcato con curiosità la febbre da retrogaming degli ultimi anni di cui il mini SNES con i suoi Super Mario World, Yoshi’s Island a Super Mario RPG rappresenta solo l’iterazione più recente. La strana sensazione, dicevo, di trovarsi in uno di quei momenti in cui passato, presente e futuro si comprimono e ribaltano fra di loro portando con sé la coscienza che l’esperienza regalataci da Koizumy è in fondo l’abstract di ciò che Nintendo è stata in passato, di ciò che è oggi e di ciò che sarà domani, capsule temporali vissute, ancora un volta, attraverso il piacere del ricordo, l’emozione dell’esperienza, la suggestione dell’immaginazione.
Sono questi in fondo i pensieri che abbiamo avuto un po’ tutti giocando a The Legend of Zelda: Breath of the Wild, titolo che alla luce di questo Odyssey rappresenta probabilmente la miglior chiave ermeneutica possibile per decifrare le strategie messe in atto da Nintendo in questa fase storica. Ma sono soprattutto i pensieri espressi da critica e giocatori all’indomani dell’uscita di Super Mario 64, di cui è lecito individuare in Super Mario Odyssey il vero predecessore. Non me ne vogliano gli amanti dei vari Sunshine, Galaxy e 3D World, fra cui peraltro mi includo volentieri, ma che alla luce di Odyssey appaiono in fondo variazioni su un tema che oggi Nintendo ha invece deciso di rivoluzionare.
Il nuovo titolo di Mario è infatti il primo vero titolo sandbox open-world con protagonista il nostro connazionale idraulico sin dai tempi di Sunshine, ossia la scintilla d’innovazione che ha portato il gameplay di Super Mario 64 a definire un’era videoludica che, per capirci, va dal primo Tomb Raider all’ultimo Assassin’s Creed passando per GTA: Vice City, oltre che lo stesso The Legend of Zelda: Ocarina of Time. Se quindi le influenze dei vari Skyrim e Dark Souls ravvisabili in Breath of the Wild hanno palesato come Eiji Aounuma e il suo team fossero in grado di spostare la barra del genere in avanti senza per questo dover interrompere l’evoluzione interna di un franchise, quello di Zelda, che della propria esclusiva traiettoria evolutiva aveva sempre fatto una delizia – e talvolta una croce (Skyward Sword, parliamo di te) – il risultato ammirabile in Odyssey ha in fondo un valore simile, magari solo superiore.
Se infatti di sandbox–GdR–action oriented di livello negli ultimi anni ne abbiamo visti numerosi – ed era con questi che Link doveva evidentemente misurarsi – di giochi che potessero scalfire il trono di Mario non ne abbiamo visti, ed è per questo dunque che la sensazione di trasformazione epocale si fa così forte. Ma andiamo con ordine.
Notoriamente, la “Nintendo difference” è stata costruita dalla compagnia negli anni grazie ad un amore certosino nelle cura delle componenti più artigianali della programmazione: i videogiochi devono prima di tutti essere divertenti da giocare e non è un caso che Miyamoto–san abbia costantemente catechizzato la necessità di costruire giochi innovativi partendo da implementazioni nella giocabilità, nel mettere il giocatore nella posizione di fare cose nuove e di sperimentarle alla luce di tutto il patrimonio che i singoli franchise hanno definito negli anni.
L’idea base in questo caso è dunque rappresentata dal fantasma Cappy, il nuovo compagno di Mario che suggestivamente nasce portando in vita un elemento stilistico di cornice che ha accompagnato ogni passo del nostro sin dalle tenzoni con Donkey Kong Senior. Oltre ad un paio di occhi, il rosso cappello di Mario questa volta servirà anche ad assumere le fattezze di 24 personaggi principali, più altre “cose” che incontreremo nei vari mondi di gioco. Dagli storici Koopa, Lakitu, Goomba e Categnacci fino ad alberi, nuvole, robot, rane e tirannosauri, inclusi una serie di esseri a cui non riesco a dare nome, Mario può diventare qualsiasi cosa e assumerne i poteri. Ora, prendete decine e decine di queste trasformazioni e moltiplicatele per un universo di gioco che, nella deliziosa varietà delle singole aree, non presenta soluzioni di continuità grazie al fatto che quelle che abbiamo imparato essere stelle in Mario 64, e che in Super Mario Odyssey sono lune, possono essere prese senza mai abbandonare il controllo attivo del character.
Non ci sono cutscene che separino i livelli, non ci sono aree che non possiamo visitare nella sequenza che preferiamo. Il risultato è una sensazione di libertà che rimbalza costantemente fra ciò che vediamo e ciò che “sentiamo” nelle mani e che strabilia in continuazione. Una sensazione che in piccolo avevamo già sperimentato grazie alla quantità abnorme di variazioni sui temi classici già viste nei due Galaxy ma che, sulle ali di una verve creativa a cui forse Nintendo non ci aveva più abituati, gli sviluppatori hanno questa volte inserite in un orizzonte estetico-esperienziale che ci restituisce un senso di libertà che, appunto, il nostro idraulico non ci regalava dai tempi del N64.
Un altro perno fondamentale alla base della formidabile esperienza di gioco è dettata dalla particolare strategia con cui questa volta gli sviluppatori hanno miscelato vecchio e nuovo. Volendo infatti guardare la questione dal lato prettamente interattivo, di vecchio c’è veramente poco. Anzi, le fasi in cui i rimandi estetici old–school vengono maggiormente suggeriti dal setting, dai nemici, dalla colonna sonora, sono in realtà quelle che presentano le innovazioni più sostanziali a livello di gameplay. Non voglio fare spoiler, ma preparatevi a vedere e giocare cose semplicemente incredibili.
Dall’altro lato, le parti più esplorative o comunque maggiormente legati ad una giocabilità canonica per un Mario in 3D sono invece quelle che vengono immerse negli ambienti più stranianti, fra cui primeggia la favolosa New Donk City. È bastato dunque guardare l’imbuto dal lato opposto e semplicemente inserire una classica situazione di gameplay alla Mario – che comunque in Super Mario Odyssey raggiunge vette mai viste prima grazie ad un parco mosse assai ampio e curato – in un ambientazione di fatto straniante per creare un’esperienza che sprigiona freschezza e che il gioco invoglia a vivere all’insegna della creatività interattiva fra sviluppatore e giocatore.
Come se le lesson learned non bastassero, Nintendo dimostra infine di aver ormai trovato l’equazione per far digerire con gusto le innovazioni hardware dell’era Wii anche agli hard-core gamer. Il segreto, come molti avevano intuito dopo aver testato Switch con mano, risiede probabilmente nella precisione dell’HD Rumble e della flessibilità di questo strumento (quando messo in mani capaci, si intende). Mentre il Wii-mote ci chiedeva costantemente di reinventare la relazione fra controller e schermo, anche in situazioni in cui le capacità degli sviluppatori non si sono dimostrate all’altezza della sfida ( Twilight Princess, l’arco, le frecce, la bile, le amicizie perse, il paradiso che si allontana…), l’hardware di Switch continua invece a dimostrare di mettere le ali a qualsiasi idea, anche la più ambiziosa.
Ma la meraviglia non finisce qui. Guardare Super Mario Odyssey è un festa per gli occhi e ancora una volta ciò appare molto di più come la somma di una lunga combo di scelte strategiche gestite con smaliziata intelligenza, che non la semplice espressione di risorse tecniche infinite.
La direzioni stilistiche intraprese sul piano visivo e sonoro vanno infatti di pari passo con le ambientazioni che si intrecciano creando una spettacolare esperienza complessiva dove tecnica e poesia si confondono fra di loro. Non sarà senza un tuffo nel cuore che ci troveremo a far saltare il paffuto idraulico all’interno di un universo cosparso di texture dettagliatissime che vanno dal canonico ma mai banale mondo fungoso fino ad alcune spiazzanti aree estremamente realistiche. L’effetto va assaggiato con mano, ma vi garantisco che muovere Mario nella foresta della Wooded Kingdom è un’esperienza a cui non ero preparato.
Nonostante un’enorme varietà di ambientazioni, di luci dinamiche, di trasparenze e scorci mozzafiato, il frame rate rimane letteralmente inchiodato a 60 fps, al punto che in alcune occasioni ci si dimentica ampiamente di giocare su Switch. Come gli sviluppatori siano riusciti a creare un simile divario rispetto alla concorrenza resta tutto da scoprire. Di sicuro ci dev’essere stato un profondo lavoro di ottimizzazione, come viene apprezzato dallo scaling dinamico della risoluzione, che varia in un arco piuttosto ampio fino a scendere a 720p in alcune situazioni, ma senza che il gameplay o la resa estetica finale ne risentano in modo particolare.
Gestire tutto ciò in un universo della varietà di Super Mario Odyssey in cui, per altro, i caricamenti sono pressoché assenti, richiede infine un lavoro certosino di piccoli dettagli e ottimizzazioni dedicate che, immagino, abbiano tolto il sonno agli sviluppatori Nintendo. Ottima anche la colonna sonora a tinte jazz, ma in fondo anche questo rientra in ciò a cui la compagnia di Kyoto ci ha abituati nel tempo.
Un tema nuovo in tal senso sarà semmai quello della trasposizione fra dock station e portatile, situazione in cui per la prima volta da quando ho Switch mi è sembrato di aver notato dei downgrade ben presenti ed identificabili nella qualità delle texture e delle atmosfere in lontananza. È certamente un peccato, anche se alla luce della qualità dell’esperienza docked e più in generale in virtù dell’incredibile solidità del frame rate in entrambe le versioni ci sentiamo di chiudere un’occhio e mezzo – mi riferisco soprattutto al voto finale.
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Super Mario Odyssey tocca le corde del cuore per ogni fan della serie ma tocca anche tanto altro. Non è solo il canto del cigno di una serie che ha ormai più di 30 anni alle spalle: è la sublimazione di un filosofia di game design che ha definito l’evoluzione del medium videoludico, è l’esplosione briosa di un credo creativo che ha sempre messo di fronte ad ogni cosa il portato emotivo del giocatore. E se Breath of the Wild e Odyssey fossero solo l’inizio? Metroid Prime 4, arriva presto…
This post was published on 27 Ottobre 2017 14:09
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